Nelle circostanze cittadine contemporanee, l’espressione più elevata di prestigio è il grattacielo. Edificio funzionale alla dimostrazione che niente può costituire un limite, quando l’ambizione irriducibile dell’uomo entra in contatto con il punto di vista razionale dell’ingegneria. Una visione di cosa sia davvero importante in campo architettonico che, da un particolare punto di vista, emerge oltre gli alberi delle fitte foreste indonesiane, presso l’eponima terra emersa nell’arcipelago dell’arcipelago, l’agognata e lungamente incontaminata isola di Sumba. Patria di un gruppo etnico, ed il relativo sistema culturale e religioso, capace di sopravvivere alle influenze delle principali religioni monoteiste nonostante le pressioni governative di vecchia data, che considerano l’antica disciplina e le dinamiche del cosiddetto Marapu come una precipua “mancanza” di alcun tipo di devozione. Il che al di là dell’astrazione formale, non potrebbe essere più lontano dalla verità quando si considera la stretta integrazione di questo ancestrale culto degli antenati con stile di vita e soprattutto la progettazione dei luoghi abitabili da parte di queste genti indissolubili da un’importante prassi tradizionale. Il cui nome nella lingua locale, uma mbatangu significa in effetti: “casa appuntita” con diretto riferimento al colmo dalla solida struttura lignea e un’impermeabile copertura di paglia, capace di raggiungere e superare agevolmente i 10 metri d’altezza. Una visione indubbiamente singolare, quando si considera l’estensione di queste dimore simili a imponenti capanne, costituite da un quadrato di non più largo di 15 metri e la maniera in cui un intero villaggio, composto da dozzine di queste strutture, possa presentare un letterale skyline ribassato, eppur vagamente riconducibile a quello di città come New York, Tokyo o Dubai. Per una sorta d’inevitabile competizione in termini di prestigio, da parte di ciascun gruppo familiare allargato responsabile della costruzione degli edifici, ma anche una sincera necessità psicologica relativa all’accoglienza di energie mistiche, responsabili di offrire protezione ai loro devoti e tutti coloro che continuano ad eseguire i rituali appropriati. Importante filo conduttore della religione Marapu è che i nostri predecessori continuino idealmente a sopravvivere. Necessitando di uno spazio degno, ed adeguatamente sopraelevato, che possa competergli nella perpetua prosecuzione dei giorni…
L’arca robotica solare, un grande passo avanti nell’allevamento del pollame
Nei primi giorni in cui un nuovo nato veniva trasferito in questo Mondo, il suo primo sentimento fondamentale era quasi sempre lo straniamento. Aquila 3784 si guardò intorno ancora una volta, osservando attentamente la suddivisione dei sette Clan. Nell’angolo anteriore destro, una mezza dozzina di giovani Virgulti si contendevano il posto privilegiato, da cui guidare l’andamento delle moltitudini al momento del Cambio. Tacchino 3829 guidava, come nelle ultime due settimane, la congrega dei sapienti: esattamente ventisei Mediani, circondati dalla pace e dal silenzio, intenti a contemplare le finestre oltre cui pareva estendersi la verde fonte di sostentamento. Il “prato” come usavano chiamarla, coloro che avevano compreso l’intelletto e l’essenziale lingua dei padroni, sormontato dalla chioma delle “stelle”. Presso la regione retrostante del quadrangolo che avevano diritto di percorrere, Aquila tornò con il suo sguardo acuto a contare i condannati tra i Neofiti: Struzzo 3850, Gufo 3852 e Falco 3857. Pulcini troppo deboli, semplicemente, per sopravvivere alla prossima esecuzione del Cambio. Il che significava che entro le prossime 9 ore, vivi o morti, sarebbero stati surclassati dallo spostamento del Mondo. A tal punto risultava prevedibile, la danza cosmica delle pareti che guidavano e determinavano le occorrenze della loro vita, accompagnata da una morbida barriera che poteva divorare ogni cosa. Fatta eccezione per tutti coloro che, raggiunta l’età finale dei Virgulti, venivano direttamente prelevati dai padroni. Molte ipotesi venivano fatte circolare su quale fosse, a quel punto, il loro ultimo destino. Alcuni erano ottimisti, parlando di un Paradiso situato oltre la “siepe” circostante il grande “prato”. Ma una leggenda fatta circolare tra lo stormo, fin da tempo immemore nelle generazioni occorse, parlava di colli tirati, pentole fiammanti ed impacchettamento in cupe scatole, dove la mancanza di ossigeno avrebbe impedito il respiro. La verità era probabilmente… Nel mezzo? Aquila 3784 chiuse brevemente gli occhi, scacciò dalla mente i suoi pensieri. Recitò la parte. Come Mediano all’ottava settimana, sapeva che non gli restava molto in questo Mondo. Tutto quello che poteva fare era brucare il pavimento d’erba e spazzolarlo via dei vermi e appetitose larve, per scacciare via i presentimenti. E preparare le sue agili zampe, volente o nolente, al prossimo Cambio.
La vita del pollame, in un’epoca in cui esiste l’allevamento intensivo a scopo alimentare, non è mai particolarmente diversificata. Ma può avere differenti gradi di sopportabilità. Dall’inserimento in angusti cubicoli, all’interno di aree dove utilizzare i muscoli è oggettivamente raro, fino all’atrofia e conseguente deperimento fisico e mentale. Fino alla condizione dei cosiddetti ruspanti, mantenuti semi-liberi per qualche ora ogni giorno, possibilmente sotto lo sguardo protettivo di un attento Border Collie o cane pastore del Komondor. E poi c’è l’impopolare via di mezzo, quella dei polli fatti “pascolare” all’interno di una camera protetta. Il pollaio mobile o trattore aviario, un tipo di strumento concepito inizialmente negli anni ’60 in Virginia, che richiede olio di gomito, manutenzione, controlli continuativi nel tempo. A meno di utilizzare, come fatto dall’ingegnosa startup Pasturebird, i vantaggi dell’eccezionale tecnologia Moderna…
Ritrovato dopo 80 anni il relitto del cacciatorpediniere che cambiò bandiera due volte
Prove pratiche dell’eccezionale immensità del mare: ogni spiaggia è differente, c’è sempre un pesce più grande, le migrazioni della procellaria difficilmente riescono ad anticipare il ciclo delle stagioni. E lo storico vascello della seconda guerra mondiale USS Stewart (DD-224) almeno fino all’altro giorno, non era stato ancora ritrovato. Stiamo parlando per inciso di uno scafo d’importanza storica innegabile, lungamente ambìto dai ricercatori come valida testimonianza del singolo conflitto più importante della storia umana, affondato di proposito, mediante l’uso di aeroplani e bombe americane, al termine di quella che fu giudicata la sua vita utile secondo i crismi ritenuti necessari dallo Zio Sam. Un cacciatorpediniere di classe Clemson costruito a Philadelphia lungo 95 metri, per inciso, e del peso complessivo di 1.234 tonnellate. Quindi non propriamente un soprammobile, nonostante quello che si potrebbe tendere a pensare sulla base dei presupposti. Creato in base alla necessità, ormai lungamente acclarata verso la metà del secolo passato, di poter difendere una flotta da minacce più agili e sfuggenti, come imbarcazioni siluranti, aeroplani e naturalmente, i temuti sottomarini della Marina Imperiale Giapponese. Punto di svolta fondamentale nella sua vicenda operativa, in effetti, sarebbe stata proprio la missione consistente nell’invio in Asia Orientale come parte di un corpo di spedizione nel 1922, per l’inizio di una missione che all’insaputa del suo stesso equipaggio, sarebbe durata i successivi 23 anni. Molti dei quali trascorsi senza eventi particolarmente degni di nota, tranne qualche piccolo incidente di manovra e l’opportunità di fornire aiuti ai colpiti dal grave terremoto del Kantō, facendo per la prima volta conoscenza con quel popolo dei Giapponesi che sarebbero stati, al tempo stesso la sua condanna, e la salvezza del suo destino. Come conseguenza del frangente in cui, dopo l’attacco a sorpresa di Pearl Harbor del 7 dicembre del 1941, assieme a molte altre navi di stanza nella regione la DD-224/Stewart venne integrata nel comando ABDA (American-British-Dutch-Australian) con il compito di resistere, e per quanto possibile arginare la minaccia nipponica nei confronti degli interessi occidentali nel grande Oriente. Il che avrebbe presto portato a due importanti battaglie, mirate a ritardare i movimenti di conquista del nemico, cui questa solida risorsa nautica avrebbe ricevuto il compito di prendere parte: quella fallimentare, non disastrosa, per il passaggio di Macassar verso l’asset strategico che allora chiamavano “muraglia malese”, del 30 gennaio 1942. E la sonora sconfitta subita nello stretto di Badung, punto di volta nelle operazioni delle Indie Orientali, culminante con l’affondamento dell’incrociatore di comando e conseguente dipartita dell’ammiraglio olandese Karel Doorman. Nonché il serio danneggiamento del cacciatorpediniere Clemson a causa della migliore abilità dei giapponesi nelle operazioni notturne, che imbarcando acqua venne ricondotta a mala pena fino al bacino di carenaggio nel porto di Surabaya. Dove per un errore logistico, rovinò su un fianco venendo ulteriormente danneggiata, poi fu colpita da una bomba nemica. E poco prima che gli Americani si ritirassero da quel luogo diventato indifendibile dopo gli eventi tra il 19 e 20 febbraio, fu intenzionalmente affondata mediante l’uso di cariche esplosive. Fine della storia? Non proprio…
Lo strano fascino della falesia sulla cuspide del grande fiordo norreno
Il paradosso dell’adrenalina che rapidamente irriga la coscienza dei momenti è il modo in cui il trascorrere del tempo pare dilatarsi, rallentare fin quasi a fermarsi. Eppure ogni preoccupazione viene allontanata, grazie all’imposizione formidabile del “qui” ed “adesso”, sovrapposto alle propagazioni divaganti della nostra percezione imperfetta. La gente, intesa come collettività indivisa correlata alle pesanti problematiche del mondo corrente, può essere perciò disposta ad ogni cosa pur di mettere il proprio organismo in condizione di recepirla. Persino vivere, del tutto temporaneamente, l’attimo ipotetico che incombe sul momento finale, quella sensazione di poter morire per un minimo di transitorio straniamento. Sul termine del tempo e dello spazio, che convergono così: 984 metri sopra il Lysefjorden! Entro una piattaforma quadrangolare non più larga di un campo da tennis! Assieme ad altre 20 o 30 persone alla volta che si agitano, camminano, saltellano e si siedono il più possibile vicino al bordo! Altrimenti come mai potrebbero riuscire a catturare la foto per Instagram… in cui il mondo pare un modellino, con l’abnorme nave da crociera non più grande di un soprammobile lasciato lì dai giganti? Questa è ormai da tempo Hyvlatonnå, la roccia del “Dente della Pialla” o come hanno deciso di ribattezzarla in questo secolo, Preikestolen, ovvero semplicemente “il Pulpito” o “la Sedia del Predicatore”. Un ipotetica figura mitologica, che stagliandosi tra il mare e il cielo avrebbe il compito di far capire al proprio pubblico tutta l’incomparabile maestà dell’universo e ciò trova il modo di accentuarne il senso e quella logica profonda. Per cui oggi una formazione rocciosa di granito, creata dall’arrivo di preistorici ghiacciai alle crepe di un pendio incombente, potrebbe un giorno staccarsi e precipitare rovinosamente nell’abisso sottostante. Ma questo non succederà entro il dipanarsi della nostra vita o quella dei nostri nipoti, come ampiamente garantito con precisi modelli anche dai geologi del servizio statale, pienamente al corrente della vistosa crepa visibile ai margini della falesia. Così coinvolti presso questo sito per la sicurezza delle moltitudini, pronte a trasformarlo in improbabile attrazione da centinaia di migliaia di turisti ogni anno. Nonostante la collocazione relativamente remota e la necessità di camminare diverse ore al fine di raggiungerne il punto cruciale. Qualcosa che dovrebbe idealmente cambiare il nostro rapporto con la vita, con la morte e tutto quello che si trova nell’ideale spazio di tempo intercorso. Possibilmente lasciando l’opportunità di ritornare a valle tutti interi, raccontando l’ampia gamma di profondi sentimenti occorsi…