Il pellicano costituisce, per qualsiasi animale di mare o di terra che sia più piccolo della sua bocca, un pericolo pressoché costante. Non che l’aspetto di uno degli uccelli volanti più imponenti al mondo incoraggi a concedergli alcun tipo di fiducia, con gli occhi fissi, il grosso becco dalla parte inferiore rigonfia e la postura oscillante, che lo vede brandirlo come un surreale spadaccino. Innumerevoli sono i filmati, reperibili online, in cui la creatura in questione agguanta e ingurgita creature come un temibile gabbiano sovradimensionato. Non c’è nulla di più orribile ad immaginarsi, proprio in funzione di questo, che la perfetta via di mezzo tra un simile predatore aviario e il ragno, l’apparente risposta della natura alla domanda “Come posso coniugare assieme la combinazione di fenotipi evolutivi del più inarrestabile, ingegnoso, implacabile tra i predatori privi di una spina dorsale?” Una visione non così ipotetica e del tutto degna di essere considerata preoccupante per chiunque incluso l’uomo, se non stessimo parlando di creature non più imponenti di un singolo chicco di riso. La cui stessa vita ed intera esistenza, d’altra parte, paiono profondamente dedicate al perfezionamento di un tecnica di caccia dei propri simili introdotta a questo mondo dal periodo alquanto significativo di 40 milioni di anni. Così lungo, che ad una presa di coscienza cronologicamente approfondita sarà possibile trarre la conclusione che proprio il nostro ottuplice amico sia in effetti assai più antico dell’eponimo pennuto di riferimento. Al punto che sarebbe formalmente più corretto chiamare quest’ultimo “uccello-Archaeidae” piuttosto che il contrario. Il che appare oggettivamente poco probabile, visto come il piccolo predatore non assomigli poi così tanto alla controparte, fatta eccezione per il lungo “collo” specifiche situazioni in cui le proprie zanne raptatorie, concettualmente non così dissimili da quelle di una mantide religiosa, non si trovino raccolte assieme e puntate rigorosamente verso il basso, alla stessa maniera del becco menzionato nei paragrafi precedenti. Pur trattandosi, come avrete capito a questo punto, di due arti nettamente distinti ed indipendenti, nel caso specifico corrispondenti alla definizione dei cheliceri, impiegati dalla stragrande maggioranza degli aracnidi per poter introdurre il cibo all’interno delle proprie bocche affamate. O come in questo caso… Catturarlo. Con un approccio strategico utilizzato indifferentemente dai maschi che le femmine di questo gruppo di circa 90 specie, il cui dimorfismo proporzionale risulta essere d’altronde molto inferiore a quello di altri esponenti della classe dei ragni. Un chiaro requisito, per permettere anche ai maschi di effettuare l’accurato assalto strategico nei confronti dei malcapitati rappresentanti dello stesso gruppo d’ipotetici tessitori di ragnatela… Benché costui possa vantare, nella maggior parte dei casi, molto di meglio da fare.
L’esperienza fluviale del serpente che costruiva i castelli dei samurai
Uno degli aneddoti militari di maggior rilievo collegati alla figura del condottiero samurai Toyotomi Hideyoshi, secondo dei tre unificatori del Giappone, ne vede la capacità di leadership ed organizzazione esaltata da una singolare contingenza. La necessità espletata da costui, all’epoca noto semplicemente come Kinoshita Tōkichirō, di costruire una fortezza temporanea lungo il fiume Sunomata, all’alba della battaglia di Inabayama del suo signore Oda Nobunaga contro il clan rivale dei Saito. Mansione portata a termine, secondo i resoconti storiografici, nel giro “di una singola notte” così che il nemico, pronto al contrattacco prima di trovarsi accerchiato, si trovò in effetti innanzi a solide pareti sormontate da schiere d’arcieri. Questo grazie al trasporto sul posto di singoli elementi prefabbricati, assemblati con l’aiuto di maestranze locali al servizio di Hachisuka Koroku, un signore locale che aveva posto la propria bandiera al servizio del mutamento dei poteri in atto nella nazione. Ma come, esattamente, fu possibile portare a termine una tale impresa? Ed in quale modo, esattamente, i componenti del massiccio edificio raggiunsero quel sito ad un ritmo tanto accelerato? A una disanima più approfondita delle circostanze, entrambe le domande sembrerebbero avere la stessa risposta. Riassumibile nel termine specifico di ikadashi o maestro delle zattere, una figura tecnica la cui importanza sembrerebbe essere andata perduta tra le pagine della storia, all’introduzione di strade asfaltate, mezzi di trasporto a motore ed altri apparati simbolo della modernità. Altrove ma non dovunque, con specifico riferimento a una preziosa tradizione custodita dal villaggio di Kitayama, nella prefettura di Wakayama situata a circa 200 Km di distanza dal sito di quell’antica battaglia. Un tragitto lungo per molti ma non loro, i cavalieri di un leggendario mezzo di trasporto da fino a 30 metri di lunghezza costituito da serie successive di tronchi legati assieme, noto come zattera toko nagashi proprio perché affine, concettualmente, all’aspetto ancora ipotetico di un treno dai molti vagoni. Ciascuno dei quali ospitante, o costituito esso stesso, da pregiati tronchi di cedro, l’albero principale raccolto dagli yamanashi, boscaioli di montagna tra i più abili praticanti della silvicoltura nel Giappone pre-moderno. Da un periodo stimato di circa 600 anni, facendo della loro tecnica, e quella strettamente interconnessa del trasporto fluviale, una delle tradizioni doverosamente iscritta al gremito elenco dei beni immateriali ed in senso più specifico “forestali” di un paese che non ha mai perso il contatto con la propria storia. Facendo affidamento, in modo alquanto prevedibile, a quella risorsa del tutto insostituibile a tal fine del turismo istituzionalizzato, grazie ad un’attrazione particolarmente celebre di quel centro abitato, oggi costituente un’atipica enclave amministrativa all’interno del proprio distretto geografico d’appartenenza. Ove si offre l’opportunità, a coloro che ne hanno il coraggio, di cavalcare uno dei sette doko facenti parte di toko indubitabilmente imponenti, all’interno della stretta e tortuosa gola del Doro sul vicino fiume Kitayama. Un’attività giudicata un tempo tanto pericolosa, da essere vietata ai figli primogeniti di ciascuna famiglia…
Il taglio esatto della strana roccia sezionata nel deserto saudita
Tra gli esploratori europei che hanno compiuto i propri viaggi nel XIX secolo annotando dati di rilievo in merito a geografia, abitanti e culture lontane, probabilmente il più ingiustamente trascurato dagli storici è il francese Charles Huber, che percorse l’intero territorio d’Arabia tra il 1880 e il 1884. E probabilmente avrebbe continuato a farlo in seguito, se non fosse morto quello stesso anno sulle coste del Mar Rosso, assassinato da comuni criminali con il probabile quanto banale scopo di una rapina. Suoi gli studi in merito al sito Nabateo di Mada’in Salih ed a lui viene attribuito, forse in modo apocrifo, il ritrovamento della stele di Tayma, oggi custodita al museo del Louvre, parte di una serie di iscrizioni in lingua aramaica che influenzarono notevolmente la percezione della storia ebraica nella principale penisola del Medio Oriente. Tra le contingenze comparativamente di minor rilievo presenti nei suoi diari, figura tuttavia una pietra considerevolmente più grande, ancora oggi non lontano da quell’oasi situata 400 Km a nord della città di Medina, la cui caratteristica principale risulta essere un tratto morfologico decisamente inusuale. Alto sei metri, largo 9 e con un peso attorno alle 120 tonnellate essendo composto di arenaria, il macigno di Al Naslaa sfida d’altra parte la sua stessa definizione singolare, essendo stato suddiviso in un’epoca pregressa in due metà approssimative, mediante la presenza di un taglio tanto esatto e privo d’irregolarità da far pensare subito all’intervento dell’uomo. Tesi avvalorata ulteriormente dagli apparenti “basamenti” vagamente paraboloidi e dalla presenza di una serie di petroglifi con soggetti equestri scavati mediante l’utilizzo di uno scalpello, oggi ritenuti antichi almeno di quattro millenni e potenzialmente collegati alle usanze di popolazioni di cui la storia scritta non ebbe l’occasione di fare alcun tipo di menzioni. Individui, o gruppi sociali che dir si voglia, comunque necessariamente dotati di un’organizzazione del lavoro particolarmente avanzata e strumenti alquanto tecnologici, se è vero che persino oggi un’opera come la pietra in questione risulterebbe tutt’altro che semplice da portare a termine, senza l’impiego di grossi macchinari da cava o persino un qualche tipo d’avveniristico laser militare. Generazioni successivi di archeologi e geologi, da quel momento, si sono succeduti nel tentativo di scoraggiare i teorici del senso comune, pronti a ipotizzare la partecipazione al progetto d’ipotetiche civiltà aliene o viaggiatori del tempo, dando adito a sottotrame tipiche di moltissimi romanzi di fantascienza che d’altronde, avrebbero potuto essere applicate a qualsiasi altro sito insolito situato in altre regioni del mondo. Un tendenza al ricamo concettuale destinata solamente a crescere, successivamente all’introduzione di Internet e la creazione di spazi dedicati letteralmente all’elucubrazione di ogni sorta di controcultura o approcci alternativi alle nozioni irrisolte. Tanto da indurci, persino adesso, a un tuffo avventuroso tra quelle che potremmo definire, in mezzo alle altre, le ipotesi maggiormente degne di essere prese seriamente in considerazione…
Il bastone millenario che controlla il livello dell’acqua nelle fondamenta della cattedrale anglicana
Quanto può essere importante, davvero, una singola mattonella? Quali misteri possono nascondersi sotto un elemento geometrico misurante appena 30 centimetri di lato? La risposta è come sempre che dipende da quello che c’è sotto. E quanto sia profonda, in senso pratico, la contorta tana del metaforico bianconiglio. Che sapeva anche notare, per sua fortuna: poiché non è raro sotto il suolo, in una miriade di possibili località alternative, che sussista uno strato latente d’acqua pre-esistente. La cosiddetta falda acquifera, che può essere un pericolo o una risorsa. Soprattutto il primo caso, per coloro che pretendono di costruirvi sopra una qualche cosa che sia destinato ad attraversare intonso le generazioni a venire. Soprattutto quando la struttura in questione pesa, approssimativamente, attorno alle 73.000 tonnellate di legno e pietra. Abbastanza, nella maggior parte delle circostanze possibili, da essere propensa a sprofondare. Miracolo divino, dunque, o prodezza dell’ingegneria medievale? La cattedrale della “nuova” Salisbury, così chiamata per distinguerla dal sito del vecchio insediamento romano, in seguito abitato dai normanni dopo la venuta di Guglielmo il Conquistatore nell’XI secolo, il cui figlio e successore diede infine l’ordine, nel 1092, che venisse costruita un’imponente chiesa ove condurre riti in base a linee guida non del tutto riconducibili a quelle della distante Roma. Edificio destinato a restare un unicum per appena due secoli, finche il vescovo Herbert Poore, possibilmente a causa delle sue difficoltose relazioni con i militari della vicina fortezza, non chiese il permesso di spostare il principale edificio di culto cittadino. Ipotesi dapprima accettata dal sovrano, quindi rimandata fino al subentro del nuovo ecclesiastico e fratello Richard Poore, di cui si narra che lanciando una freccia in modo casuale verso i pascoli antistanti il centro cittadino, colpì esattamente un cervo di passaggio. E proprio in quel punto, come si trattasse di un prodigio, venne deciso di posizionare la prima pietra. Era il 28 aprile del 1220 e non ci sarebbe voluto molto per rendersi conto di aver commesso un fondamentale errore. Poiché la brava gente di Sarum, nei primi anni dell’insediamento, aveva scelto per ragioni agricole di procedere al drenaggio di un’intera palude. Le cui acque ormai sepolte in invisibili profondità, avevano al momento cominciato a riemergere come diretta conseguenza dello scavo per le fondamenta necessarie. L’imponente nuova cattedrale di Sarum dunque, come la gente aveva cominciato a chiamarla, rischiava d’inabissarsi ancor prima che le sue mura cominciassero ad alzarsi in modo significativo verso il cielo. Se non che gli sconosciuti progettisti, lungi dal perdersi d’animo, deciso piuttosto d’impiegare una soluzione alquanto avveniristica, persino col senno di poi: la deposizione d’ingenti quantità di ghiaia, prima di procedere nell’espletamento delle proprie ambizioni architettoniche. Così che l’intero edificio, mano a mano che il progetto procedeva innanzi, si trovasse da ogni punto di vista pratico a “galleggiare” sopra tale zattera frammentata ed incomprimibile, resa stabile dal proprio peso inusitato. Giacché questo fu probabilmente il primo caso pratico in cui venne scoperto in che misura, realmente, l’acqua stessa potesse contribuire alla stabilità strutturale di un agglomerato di materiali edilizi. A patto, s’intende, che le quantità in gioco fossero costanti nel tempo, ovvero che in funzione dell’aumento o diminuzione dell’umidità rilevante, qualcuno potesse intervenire al fine di mantenere dei valori costanti. Un proposito di per se impraticabile, prima di aver preso le opportune precauzioni procedurali…