Alcune delle maggiori opere prodotte da una dinastia derivano dall’esperienza personale di un singolo regnante, il suo bisogno di manifestare i mutamenti psicologici e interiori tramite un qualcosa di evidente per il proprio popolo di fedeli, e si spera devoti sottoposti. Così il grande governante Vishnuvardhana del dodicesimo secolo, quinto dei sovrani con il predominio sul regno dell’India meridionale degli Hoysala, il cui nome stesso faceva riferimento ad un’antica leggenda della religione jainista, essendo diventato uno studente del famoso guru e filosofo Ramanujacharya, decise a un certo punto di convertirsi alla corrente vaishnavista della religione Induista. Ora se egli fosse stato a capo di un comune territorio, per quanto commercialmente rilevante, da ciò sarebbe derivato un tipico luogo di culto appartenente a tale cultura, dedicato all’una o l’altra divinità facente parte del pantheon di quel vasto paese dell’Asia meridionale. Ma poiché egli aveva vinto nel 1120 una guerra durata tre anni con il potente principato confinante dei Chalukya, e per questo disponeva del sostegno del suo popolo ed incomparabili risorse economiche, il nuovo centro del culto nella sua capitale Halebidu avrebbe preso forma come uno dei complessi più notevoli dell’intera regione del Karnataka, massima espressione dell’architettura, competenza ingegneristica e creatività scultorea della sua Era. Potendosi fregiare oltre la nome celebrato di Hoysaleswara anche di determinati aspetti, tanto ineccepibili nella loro perizia, da essere tutt’ora circondati dall’alone di “mistero” che caratterizza quelle imprese degli antichi ancora oggi insuperate dai moderni processi industriali. Il che significa, in altri termini, che non avrebbero potuto essere realizzate in maniera migliore, neppure sfruttando le tecnologie avanzate dei nostri giorni.
Così il favoloso dvikuta vimana, o “tempio dalla doppia porta a torre” (entrambe ad oggi devastate dai saccheggi delle epoche successive) si presenta come un edificio in due navate corrispondenti, ciascuna contenente come oggetto di venerazione principale la struttura altamente caratteristica di uno Shiva lingam. Pietra ovoidale dalla forma vagamente fallica, dedicata in questo caso alla suprema divinità omonima e nella sala accanto a Shantala, la consorte principale del re Vishnuvardhana. A dare il benvenuto ai pellegrini e fedeli del tempio quindi, innanzi alle rispettive porte, due statue colossali di Nandi, il mitico toro cavalcato in battaglia dal membro distruttore della Trimurti, sullo sfondo di pareti fittamente ornate da una serie impressionante di sculture e bassorilievi nella pietra di steatite, uno scisto particolarmente facile da plasmare a piacimento. Cui si contrappone l’interno relativamente scarno del duplice tempio, evidentemente concepito per favorire la concentrazione ed un stato meditativo conduttivo alla preghiera, sebbene determinati aspetti di tali ambienti non manchino di lasciare senza fiato i visitatori. Primo tra tutti l’aspetto straordinario dei pilastri che sostengono i ponderosi soffitti, alcuni dei quali appaiono così perfettamente simmetrici, talmente privi di irregolarità, da aver suscitato il sospetto che possano essere la risultanza di un’anacronistica tipologia di meccanismo. Un tornio colossale, dimenticato dalle nebbie impenetrabili del trascorrere di dieci secoli a questa parte…
L’oblungo anfiosso, antesignano di ogni essere dotato di un DNA complesso
Ed in fondo quale tipo di sofonte, essere pensante del conosciuto universo, mancherebbe di guardare una creatura dall’anelito leggiadro e definirla “fratello”? Pensate a tal proposito alla mosca, insetto volatore con due occhi, arti simmetrici, un cervello. Persino le ali utili a spostarsi tra la tana e i luoghi usati per il suo foraggiamento. Benché proprio gli esseri corrispondenti alla categoria fondamentale degli insetti siano, per quanto concerne le proprie intrinseche caratteristiche, qualcosa di effettivamente ed indiscutibilmente alieno. Da contrapporre alla maniera in cui ogni animale vertebrato possieda, di contro, una fase del proprio sviluppo embrionale detta gergalmente filotipica, al raggiungimento della quale si presenta dal punto di vista morfologico del tutto indistinguibile da qualsiasi altro. Dopo quattro settimane per gli umani, dieci giorni per un topo, uno solo per un pesce. Ed altrettanto per quest’ultimo… Protagonista della scena nonostante sia del tutto privo di uno scheletro e con esso la caratteristica colonna e non soltanto quella. Semi-rigido pezzo di tubo lungo dai 2,5 agli 8 cm a seconda della specie (ce ne sono 35) senza occhi, senza nessun tipo di concentrazione neuronale. Il che significa che il suo pensiero, se così possiamo chiamarlo, sembrerebbe scaturire da un sistema decentrato di gangli nervosi. Ma così non è, trovandosi in effetti concentrato nella punta della parte che potremmo definire maggiormente simile a una corda. O noto-corda, per andare in fondo alla questione, forma primigenia di quello stesso complesso di segmenti in assenza del quale ogni orgoglioso essere sarebbe solamente uno strisciante verme. Ed un qualcosa di concettualmente simile a quest’ultimo diventa, invece, un anfiosso. Oppure lancelet, come lo chiamano gli anglofoni, a voler alludere a una sorta di piccola lancetta, chiaramente appartenente al segnatempo delle Ere geologiche e tutto ciò che è stato in grado di derivarne. Essendo rimasto sostanzialmente invariato per un periodo di circa 100 milioni di anni, fin dall’epoca dello strato di argillite di Burgess risalente al Cambriano medio, giacimento fossilifero di una pletora di esseri periti al cambio generazionale dei fenotipi evolutivi marini. Tutti tranne il misterioso Pikaia gracilens, primo tra i cordati ad essere sopravvissuto al famelico contegno dei primi nuotatori dell’Oceano indiviso. Un filtratore, nient’altro che questo, ma in potenza l’essenziale punto di partenza per creature come mammiferi, cetacei, persino rettili ed uccelli! Poiché caratterizzato dal potere, totalmente senza precedenti, di dividere le proprie cellule in maniera strategicamente rilevante. Grazie al sistema della metilazione…
Balla coi lupi, libera i bisonti: il contenzioso ventennale di un monumento
La mancata presa di coscienza che non è possibile in alcun modo per l’uomo sopravvivere, senza sfruttare o imbrigliare i processi della Natura, è il fallimento fondamentale che deriva dal considerarsi al di fuori del nostro stesso mondo. Quasi come se la società moderna, grazie alle sue industrie, i veicoli, le macchine e i meccanismi, potesse sorgere allo stesso modo sulla Luna o su Marte, alimentata unicamente dalle ottime speranze o l’intercessione di un qualche tipo di entità superna. Laddove l’uomo primitivo, limitato nel suo senso di superiorità dal più semplice bisogno delle circostanze, possedeva la comprensione istintiva che uccidere fosse un comportamento del tutto necessario e paradossalmente, tendeva molto meno a farsi trascinare dall’ideale massimizzazione dell’efficienza. C’è qualcosa di assolutamente ragionevole, e persino poetico d’altronde, nella caccia tecnologicamente limitata di un animale delle Grandi Pianure, come un bisonte. L’eterna battaglia tra i giovani della tribù ed i vecchi, saggi animali, allo stesso modo consapevoli di possedere un futuro interamente condizionato dall’arco di tiro di una singola freccia o lancia. Ma gli “indiani” Lakota, una delle tre principali sotto-culture del popolo dei Sioux, erano fondamentalmente convinti che se soltanto un membro del branco a loro contrapposto fosse sopravvissuto ad un inseguimento, esso avrebbe insegnato ai suoi simili il pericolo costituito dalle persone. Così quando l’uomo bianco fornì loro i primi cavalli addestrati all’inizio del XVI secolo, fu del tutto inevitabile che trovassero il modo di trasformarli nella loro versione di un’arma d’uccisione di massa. Fino al verificarsi, reiterato ed assolutamente terribile, di scene come queste.
L’attimo raffigurato nella grande scultura monumentale dell’ex-biologa del Servizio Forestale, Peggy Detmers costituisce l’apice di un inseguimento drammatico e sconvolgente. Con 17 figure bronzee, raffiguranti i cacciatori nativi a cavallo e le loro imponenti prede bovine, nel mezzo di quello che gli storici hanno tradizionalmente definito un “Salto del Bufalo”. Ecco, allora, che il branco grande una volta e mezzo le proporzioni reali si ritrova spinto, con il frastuono delle grida di battaglia, le minacce e il rombo degli zoccoli, giù per la discesa di un metaforico dirupo, in un eccidio di massa che avrebbe rappresentato per secoli la via per l’opulenza ed il principio di riscossa delle sette bande Lakota. Il che merita, senz’altro, una collocazione contestuale che possiamo collocare non lontano dalla storica cittadina un tempo illegale di Deadwood, covo di fuorilegge, cercatori d’oro ed un letterale esercito di prostitute. Prima di ottenere per gentile concessione della Corte Suprema il predominio sulle terre un tempo proprietà delle tribù locali in mezzo alle Black Hills del Dakota Meridionale, con i caratteristici metodi notoriamente attribuiti all’uomo bianco. La stessa autorità legale, caso vuole, coinvolta ormai da più di 15 anni nella diatriba tra la già citata produttrice dell’opera e niente meno che l’attore hollywoodiano Kevin Costner, effettivo committente di un così specifico ed inconfondibile capolavoro statuario. I cui progetti andarono effettivamente incontro, come quelli di molti di noi, all’inflessibile realtà dei tempi correnti…
Perché il mare non smetterà mai di tenere sotto assedio l’aeroporto di Osaka
Dalle oscure profondità dell’Oceano dell’Est, il grande Ryou o “Re Drago” guarda con espressione determinata verso l’entroterra dell’Asia. Iraconda la sua aura e sollevato il braccio, con l’intento manifesto di trasmettere un qualche tipo di minaccia. O promessa, che se pure l’uomo ha vinto una battaglia, nell’eterno e arduo conflitto sui diritti impliciti degli elementi egli non ha ancora trionfato. Ne potrà fregiarsi, un distante giorno, di aver conseguito una vittoria a tempo indeterminato. Giorno dopo giorno, un’ora di seguito all’altra, le sue umide propaggini continuano ostinatamente a risalire. Come i tentacoli del Kraken, implacabile creatura temuta dagli antichi marinai. E anche coloro, caso vuole, che hanno ereditato nel mondo odierno una parte delle loro mansioni, ovvero trasportare persone, merci o posta da un lato all’altro dei continenti. Magari fluttuando, perché no, al di sopra della linea dell’orizzonte. Piloti, amanti delle soluzioni al culmine dell’efficienza. Come quella dell’ingegnoso aeroporto del Kansai, punto di atterraggio costruito nella baia di Osaka verso la metà degli anni ’90. “Ma gli aeroporti non galleggiano” mi sembra quasi di sentire l’obiezione di voialtri. Ed in effetti non ci riesce neanche questo, visto che sta lentamente affondando! Ma che ciò possa avvenire nel giro di anni, decadi o persino secoli, è una disquisizione lungamente sottoposta allo scrutinio e contromisure di un’elevata quantità di tecnici e ingegneri internazionali. Poiché se una simile profezia dovesse un giorno avverarsi, essa segnerebbe la perdita definitiva di un investimento complessivo attorno all’equivalente di 200 miliardi di dollari. Sufficienti a fare di questo miracolo dell’infrastruttura moderna, di gran lunga il singolo progetto pubblico più costoso della storia contemporanea. Di aeroporti costruiti sopra il mare d’altra parte non ce ne sono molti in giro per il mondo, ed oltre la metà si trovano lungo le coste giapponesi. Quasi come se soltanto questo popolo isolano, perennemente preoccupato d’impiegare al meglio il poco spazio di cui dispone, avesse scelto di subordinare la semplicità di costruzione all’effettiva organizzazione logistica degli spazi urbani. Ed effettivamente in ultima analisi, potrebbe anche continuare a perpetuarsi un simile stato conveniente delle cose. Se soltanto le cose non avessero preso, fin dall’inizio, una piega largamente problematica e progressivamente incline a risucchiare ALTRE risorse, ALTRI meccanismi dei nostri giorni.
Il primo allarme giunse nel 1999, soltanto cinque anni dopo l’inaugurazione lungamente pubblicizzata come un punto di svolta per l’aviazione giapponese, quando a uno studio delle condizioni in essere venne già notato un calo del livello medio del terreno pari a 8,2 metri complessivi, contro i 5,7 previsti dalle stime maggiormente ottimistiche. Il che rovinò la giornata ad una grande quantità di persone e diede inizio ad un’attività febbrile per tentare d’arginare il disastro incipiente…