E se vi dicessi che adesso, in questo preciso momento, c’è una vespa nella vostra stanza ma non potreste mai riuscire a vederla? La ronzante e problematica creatura, che sopravvive a discapito di altri, controlla il territorio ed almeno in base allo stereotipo, usa il pungiglione per punire chiunque sia abbastanza stolto da tentare di scacciarla via con la mano… Talvolta, ma non sempre. La più corta via per il pacifismo sembrerebbe essere, in effetti, l’eccessiva piccolezza per pensare di poter riuscire ad impugnare un’arma. Sia anche quest’ultima, l’affilata spada incorporata nell’addome, completa di organo per la produzione ed immagazzinamento dell’odiato veleno. Ma quando misuri in media tra gli 0,5 ed 1 millimetro (ci sono esemplari, di sesso maschile, persino più minuti) come potresti mai aspirare di riuscire a contenere un simile comparto di organi e di cellule specializzate? O anche un cuore, sangue, emolinfa, il comune metodo di presentarsi di un cervello o apparato di gangli utilizzati per il pensiero. Ciò benché la vespa mimaride anche detta “mosca fatata” (Fairy Fly), una delle 1400 specie appartenenti ai 100 generi che abitano in tutti i continenti escluso l’Antartico, nasca già perfettamente in grado di eseguire un preciso copione scritto nelle pagine di fuoco dell’evoluzione animale. Quello che caratterizza, alla stessa maniera, gli altri praticanti del parassitismo neonatale, o deposizione delle proprie uova in corrispondenza di quelle di altre creature appartenenti alla popolazione onesta di questo diversificato pianeta. Un approccio, nel caso specifico, niente meno che fondamentale nonché la ragione stessa per l’esistenza delle nostre piccole amiche, le cui larve non potrebbero altrimenti disporre di risorse energetiche sufficienti all’interno delle proprie minuscole capsule deposte dall’industriosa genitrice. In un sistema di suddivisione dei compiti tra i sessi che tende al più estremo dimorfismo non soltanto nelle dimensioni, ma anche nella conformazione anatomica del maschio spesso privo di ali, articolazioni complesse delle zampe ed altre capacità che sollevarsi lievemente dal sostrato vegetale o della corteccia. Attendendo pazientemente, per un periodo massimo di un giorno o due senza neppure l’abilità di nutrirsi che l’amata intenta nel proprio volo nuziale colga l’opportunità per catturare il codice genetico necessario all’effettiva produzione di una prole. Ancorché sia necessario specificarlo, la differenziazione delle generazioni non sia proprio il punto forte di questi insetti, per cui la riproduzione si verifica nella maggior parte dei casi dall’accoppiamento tra fratelli e sorelle, fatta eccezione per i singoli esemplari più forti ed avventurosi, capaci di farsi trascinare via dal vento verso l’albero più vicino. Quando non risulta addirittura autonoma negli esemplari femminili, grazie all’utilizzo della tecnica della partenogenesi (sp. Polynema euchariformes). Questo perché la vespa mimaride, spesso ma non sempre, dispone di ali molto diverse da quelle possedute dai loro simili più grandi, prive di membrana e simili nella realtà dei fatti più che altro ad una singola piuma, essendo formate da un singola estrusione oblunga ricoperta di peli vibranti. A meno di appartenere ad una varietà attestata in zone territoriali ove la compenetrazione di correnti eoliche tende ad essere eccessivamente sviluppata. E tali “vele” corporee potrebbe trasformarmi in un immediato quanto inevitabile paracadute sempre pronto ad aprirsi…
Il convitto costruito all’ombra di un mistero della Preistoria inglese
Eccezionalmente diverso risulta essere il concetto di “scuola pubblica” tra la maggior parte dei paesi europei e l’antica, immutata tradizione delle isole inglesi. Dove tale termine è impiegato al fine d’indentificare, tra le alternative prestigiose delle Isole, un tipo d’istituto con dormitori semi-permanenti, dove gli scolari impegnati a trascorrere la seconda decade della propria esistenza vengono inviati per trascorrere alcuni degli anni maggiormente memorabili, non per forza piacevoli, del proprio percorso di studi. Pensate a Hogwarts di Harry Potter, ma con meno cappelli magici ed un maggior numero di membri del clero. Tanto che, in effetti, anticamente questo tipo di esperienza era praticamente irrinunciabile per i giovani aspiranti intenzionati a fare parte di un qualsiasi ordine monastico, benché proprio l’aggettivo pubblico nel nome intendesse evidenziare l’apertura delle porte a esponenti di qualsiasi estrazione sociale o credo religioso. Purché, s’intende, fossero e siano tutt’ora capaci di pagare la retta annuale. Pari a circa 16.000 sterline, secondo il conteggio attuale, per il Marlborough College del Wiltshire, scuola fondata nel 1843 all’interno di un capiente edificio che era stato una locanda, e prima ancora l’ultimo residuato di un cadente castello normanno. Caratteristica senz’altro peculiare, ma neppure di gran lunga la più antica o interessante di un tale luogo. Essendo il cortile utilizzato per vari sport, tra le altre cose, dominato da una distintiva collinetta dell’altezza di 18 metri e un diametro di 83. La cui costruzione collegata in base a una credenza popolare al luogo di sepoltura di un altro tipo di mago (dal motto cittadino in lingua latina: “ubi nunc sapientis ossa Merlin“) è stata fatta risalire, attraverso datazioni effettuate nell’ultimo ventennio, ad un’epoca non troppo diversa dai 5.000 anni che ci separano dal più celebre, non lontanissimo sito di Stonehenge. Ecco dunque un altro esempio di quell’attiva e precoce società neolitica, che millenni prima della nascita di Cristo seppe porre in essere ragioni il tipo di cooperazione tra villaggi/tribù o famiglie in grado di lasciare monumenti resistenti al passaggio inarrestabile delle generazioni a venire. Probabilmente collegati a finalità di tipo ritualistico il cui effettivo svolgimento, ad oggi, resterà per sempre un mistero. Il che non ci ha impedito, in molteplici circostanze, di elaborare ipotesi di vario tipo. Non sempre corrette: vedi la maniera in cui almeno fino al 2008 schiere di studiosi e storici si fossero schierati per l’ipotesi che il Colle di Malborough non potesse costituire altro che la motta castrale della fortificazione medievale scomparsa, fatta costruire originariamente da Guglielmo il Conquistatore a Roger, il vescovo di Salisbury. Un edificio costruito e rinnovato nel corso dei secoli quasi esclusivamente in legno, pur costituendo al tempo stesso una prigione usata dalla monarchia e punto di partenza per le cacce condotte nell’adiacente foresta di Savernake. Fatta eccezione per la base del torrione principale risalente almeno al 1110 d.C, appoggiato a quella che tutt’ora costituisce il secondo maggior colle artificiale d’Inghilterra, ed il terzo in Europa…
Il fumo e la sregolatezza del meccanico che dominò le contraddizioni dell’agonismo statunitense
In un famoso ma difficilmente verificabile aneddoto di metà secolo relativo alla storia della NASCAR, la formula motoristica delle vetture cosiddette “di serie”, Henry “Smokey” Yunick, veterano di guerra, pilota di aerei ed automobili, personalità di spicco nel settore e padrone del Dannato Miglior Garage di Daytona Beach (l’effettivo nome del suo negozio) venne avvicinato prima della partenza dai giudici di gara. I quali con ciglio severo, sottoposero a un’analisi approfondita la sua vettura. Nel giro di alcune ore durante cui smontarono persino il serbatoio, gli fu dunque sottoposta una severa relazione: nove infrazioni al regolamento andavano corrette, o sarebbe stato squalificato prima ancora di gareggiare. Con un sorriso di circostanza, allora, Smokey salì a bordo dell’auto e mettendola in moto, esclamò: “Perché non dieci?” Quindi con un ritmo sostenuto, uscì dai box passando agevolmente accanto al serbatoio smontato. Si scoprì a quel punto come, inaspettatamente, ben cinque galloni di carburante si trovavano nel suo speciale tubo che conduceva al motore, lungo e attorcigliato come un serpente. Nessuna norma specifica lo avrebbe, almeno in linea di principio, vietato. È una storia bizzarra, probabilmente vera almeno in parte, come quelle secondo cui lo stesso preparatore famigerato avrebbe in altre occasioni utilizzato un pallone da basket per limitare la benzina contenuta all’interno, poi sgonfiato e rimosso dopo l’ispezione. O ancora raffreddato il più possibile il prezioso liquido, così da infilarne qualche litro in più nelle sue celebrate, e spesso vittoriose stock cars. “Non si gareggia contro gli avversari, ma contro le regole” Era solito affermare. O ancora, la sua preferita: “Non avevano mai detto che non potevo farlo.” Potrebbe apparire alquanto strano, in effetti, che un noto piegatore delle circostanze a proprio vantaggio con metodi non sempre leciti fosse riuscito ad acquisire fama imperitura, al punto da figurare oggi in numerose hall of fame dedicate alla storia dei motori, finché non si considera il coraggio ed il valore della trasparenza. È nella natura stessa delle gare, a quell’epoca, che si cercasse in varie maniere di ottenere vari tipi di vantaggi in modo più o meno lecito. Ma era la maniera in cui egli tentava di restare entro le linee tratteggiate, rendendo allo stesso tempo chiare le proprie intenzioni senza un briciolo di segretezza o vergogna, a renderlo davvero unico tra i suoi molti colleghi.
Soprannominato Smokey non tanto per la sua inseparabile pipa di pannocchia, destinata a diventare un simbolo né per il cappello da cowboy appiattito, Henry Yunick nacque nel 1923 in una fattoria in Pennsylvania, da figli di immigrati Ucraini. All’età di soli 12 anni, secondo un’altra vicenda riportata nelle biografie, pensò bene di sostituire l’ostinato cavallo da traino per l’aratro con un trattore che lui stesso aveva costruito, a partire da pezzi recuperati presso uno sfasciacarrozze locale. All’età di 16, lasciata la scuola successivamente al decesso del padre, iniziò a gareggiare nelle competizioni locali con una moto particolarmente incline a rilasciare fumo nero (smoke) già pochi secondi dopo la partenza. Fu probabilmente proprio quello, l’inizio della sua leggenda…
La seducente narrazione che accompagna il raro e misterioso lamantino africano
Come si può facilmente desumere dal termine latino usato al fine d’identificarne i membri, la famiglia dei sirenii ha lungamente generato, nei territori facenti parte del proprio habitat, numerosi miti e leggende tra le diverse popolazioni. Composta unicamente da due famiglie superficialmente simili tra loro, essa le vede essenzialmente suddivise per diffusione tra la parte occidentale e quella orientale del globo terrestre. Così il lamantino (fam. Trichechus – nessuna relazione col pinnipede dalle lunghe zanne) si distingue dal dugongo (fam. Dugongidae) per una serie di tratti geneticamente significativi, quali l’assenza nel primo della terza vertebra cervicale, la forma tondeggiante della coda piuttosto che a freccia e la posizione più arretrata delle narici, nel modo lungamente osservato dai naturalisti presso il meridione degli Stati Uniti, ove sopravvive con difficoltà lungamente note la sottospecie T. manatus latirostris, popolazione distinta di quella situata nel Golfo del Messico. Ciò che molti non sanno, tuttavia, per la natura remota di taluni territori africani e la difficoltà nell’esplorarli, oltre alla natura riservata di queste creature del peso di 400-500 Kg, è che nella parte ovest dell’Africa sussiste l’areale di una differente specie di lamantino chiamato T. senegalensis, essenzialmente distribuito tra Nigeria, Senegal, Angola, Guinea… Ogni recesso, insomma, ove il complicato bacino idrico del più antico dei continenti s’intreccia in una rete spesso satura di sedimenti e per questo impenetrabile agli sguardi. Finché la figura di una di queste creature, emersa al fine di riempirsi i polmoni d’ossigeno, non prende a stagliarsi contro l’orizzonte osservabile dagli occupanti dell’imbarcazione di turno. Finendo per sembrare, come da copione, la ragionevole benché tondeggiante approssimazione di una figura umana. Fraintendimento particolarmente straniante nel caso degli esemplari femminili che hanno recentemente partorito, le cui mammelle pendule possono avvicinarsi nelle forme a quelle di una donna. Il che ha rappresentato, nei secoli a partire dall’inizio dell’Era moderna, una parziale fortuna per questi animali immediatamente associati dai locali alle rappresentazioni europee delle sirene. E successivamente elette a forma fisica, nonché possibilmente tangibile, della divinità animistica dei fiumi Mami Wata (letteralmente: Madre delle Acque) venerata nei templi tradizionali come protettrice, e qualche volta seduttrice dei pescatori. Una figura conturbante rappresentata con l’aspetto di una donna di paesi lontani, spesso caucasica o asiatica, al centro di numerose leggende con risvolti apotropaici o la concessione di munifiche ricompense terrene. Tutto a partire dal verificarsi di un ideale, quanto inconfondibile incontro…