Esistono punti di svolta, nella progressione tecnologica dell’uomo, che aprono immediatamente i portali del cambiamento, lasciando indietro il semplice ricordo delle metodologie impiegate fino a quel momento. Vedi il modo in cui, attorno al XIII secolo a.C, tra i ritrovamenti archeologici della parte centrale del territorio europeo iniziano a scomparire quei particolari manufatti, creati dalla lega che è l’unione del rame e dello stagno. Questo perché la migliore alternativa, più resistente, duttile quando portata fino al punto di fusione, potenzialmente affilata, aveva la caratteristica di arrugginirsi e disgregarsi progressivamente al contatto diretto con gli elementi. Caratteristiche determinanti, di quel metallo bianco argenteo che siamo soliti chiamare “il ferro”. Apparentemente simile come presupposti di lavorazione, benché derivante da processi generativi totalmente differenti e non più basato sull’esistenza di un efficiente sistema dei commerci, causa la distanza geografica dei due componenti della lega impiegata fin dal tempo di culture risalenti ad oltre un millennio prima di quei giorni. Come esemplificato dalla famosa lettera su tavoletta d’argilla del 1.750 a.C. indirizzata ad Ea-nasir, mercante accadico che aveva venduto dei lingotti di rame di scarsa qualità al collega Nanni, il quale chiedeva indietro la somma corrisposta secondo “le norme del buon vivere civile”. Difficoltà pratiche, e commerciali, che sarebbero un giorno state lasciate indietro, con la scoperta del metodo a disposizione per poter sfruttare quella che costituisce una tra le più comuni e diffuse sostanze chimiche del pianeta Terra. Ce ne mostra i presupposti il nostro vecchio amico John di Primitive Technology, l’archeologo sperimentale della regione australiana del Queensland che diventò famoso anni fa per i suoi silenziosi video dimostrativi delle tecniche di architettura, ingegneria e lavoro utilizzate dai nostri più remoti antenati. Il quale senza l’utilizzo di profondi scavi o miniere, realizza in questo caso un metodo capace di permettere una via d’accesso alla terza, e più duratura, delle tre principali culture materiali dell’umanità pregressa. Partendo da un passaggio semplice ed altrettanto tradizionale, se applichiamo la logica alle nostre conoscenze dell’antica arte metallurgica di molte civiltà: l’individuazione di un acquitrino in cui l’acqua appare rossastra e le piante sembrano crescere a fatica, avvelenate da una qualche sostanza di provenienza assolutamente “naturale”. Poiché tale risulta essere, in fin dei conti, il processo di ossidazione di sostanze solforose e tetrationati di origine biologica da parte del gruppo batterico cosmopolita dal nome di Acidithiobacillus, capace di trarre sostentamento da due fonti estremamente differenti: l’anidride carbonica e l’acida trasformazione delle suddette sostanze nel minerale idrato della limonite. Così che l’amico digitale e celebrato costruttore di capanne, una volta raccolta con un bricco di terracotta (creato da lui stesso in episodi precedenti, inutile dirlo) il suo fluido colmo di segreti, provvede a riversarlo in una ciotola porosa, affinché agisca da filtro naturale capace di lasciar correre via l’acqua, conservando nel conseguente residuo terroso le particelle minerali contenute al suo interno. Preparando coerentemente una certa quantità di carbone da pezzi di legno raccolti in giro, prima di passare a quella che potremmo definire la fase principale del suo processo arcano di stregoneria, ciononostante assai tangibile ed utile al raggiungimento dello scopo finale…
Le speculari trasformazioni del poliedrico artista Darrel Thorpe
Nei meandri marginali di un’interminabile settimana, seduto alla noiosa scrivania dei nostri giorni, percepii per la prima volta una presenza. E nel guardarmi attorno concentrandomi sugli aspetti permeabili dell’esistenza, per la prima volta, vidi lui, che vide me allo stesso tempo. Si trattò di un rapido movimento nel riquadro riflettente della finestra, che aveva ruotato fino ad inquadrare obliquamente la mia figura. E ad un effetto della brezza lieve di quel pomeriggio, sfortunatamente, si spostò di nuovo. Dopo quel momento, per quanto tentassi di spiarne nuovamente le intenzioni, posizionando strategicamente il vetro prima di tornare in postazione, egli mancò di farsi nuovamente avanti presso le regioni dello scibile apparente. Almeno fino al giorno in cui fuori pioveva, dopo l’ora del tramonto, e la stragrande maggioranza delle luci erano spente. Quando soltanto il mio volto, illuminato dalla luce dello schermo, pareva fluttuare senza il minimo contesto nel riquadro di quel vetro che mandava tale immagine al mittente. E fu allora che tenendo ben fissi gli occhi verso avanti, mentre la parte girevole della mia sedia faceva l’esatto opposto, fece nuovamente la sua comparsa. L’altro “me” con l’alta fronte sormontata da un paio di corna, la metà inferiore del volto ricoperta da una folta barba, i capelli a incorniciare il tutto come nell’antica e vermiglia statua di un fauno pagano. Con un gesto del tutto spontaneo, orientai dall’altro lato il corpo e la testa. Ma qualcosa di assolutamente inusitato pareva essere accaduto; poiché nel quadro dell’immagine riflessa, adesso compariva la presenza angolosa di una Dea severa, e verdastra. Le labbra carnose del colore dell’Oceano Pacifico, così come il resto della sua pelle totalmente ed inaspettatamente glabra. Ed uno sguardo ipnotico, non meno di quello del diabolico scrutatore di pochi attimi a quella parte. Ancora e ancora, tentai di liberarmi dell’uno, per tornare nella sfera pratica del secondo. E ad un certo punto, i due divennero quattro, quindi otto e sedici, superando i limiti di ogni vetusta ragionevolezza! E fu allora che tra il soffitto suddiviso in pannelli e il pavimento di linoleum, iniziai a cantare.
Celebre resta ancora al giorno d’oggi lo spunto d’analisi meta-psicanalitico descritto dallo scrittore Pirandello, secondo cui ciascuno di noi indosserebbe una diversa quantità di maschere, a seconda delle circostanze in cui si trova e colui o coloro che si trova di fronte. Volendo utilizzare un’approccio maggiormente superficiale, o se vogliamo mirato esclusivamente a demistificare gli aspetti più evidenti del nostro sentire, parrebbe quasi che in questo sussista un mero e ancor più semplice dualismo: tra l’essenza diurna e quella notturna della mente umana, due piatti della stessa bilancia. Due lati della moneta, due punte o piume della stessa freccia, altrettante biforcazioni della lingua dello scaglioso serpente. Una realtà che appare espressa, in qualche misura, dalla più famosa performance teatrale dell’artista di Brooklyn, Darrel Thorpe, più volte dimostratasi capace d’irrompere nella sfera di percezione della grande mente-alveare digitalizzata. Lasciando in quei momenti dietro di se una scia fatta d’immaginifiche pietruzze, glitter e il sacro fluido senza una sostanza che costituisce l’anima fondamentale della realtà. Si tratta, dopo tutto, di un tipo d’espediente alquanto semplice, che d’altronde in pochi sembrerebbero aver concepito prima del suo momento. Il prototipico Gioco di Specchi, ma con quella che potremmo e dovremmo definire, una marcia in più…
L’avventura dei sei wurstel che pattugliano da 90 anni le autostrade americane
Tre Anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo che risplende, Sette ai Principi dei Nani nelle lor rocche di pietra, Nove agli Uomini Mortali che la triste morte attende. Che la triste morte attende, ma non la fine… Così l’Oscuro Signore di Mordor, dall’alto della propria torre, poté scrutare le manovre millenarie delle civiltà della Terra di Mezzo non soltanto grazie al potere del suo Occhio Senza Palpebre ma anche e soprattutto grazie all’assistenza di quei nove sovrani, trasformati dal potere dell’Unico Anello in servitori evanescenti, noti alla storia della Seconda e Terza Era come spettri o Nazgûl. Se d’altra parte volessimo tentare di spostare una simile vicenda all’interno del mondo moderno, nel contesto e le dinamiche del capitalismo, non sarebbe troppo complicato ritrovarne i princìpi fondamentali nelle scelte promozionali compiute attraverso quasi un secolo dalla compagnia dell’Illinois che porta il nome di Oscar Mayer, l’immigrato tedesco “amante delle salsicce” che a partire dagli anni ’30, accettando i termini di un patto, aveva trasformato l’effige del maiale cotto ed insaccato in un qualcosa di capace di spostarsi e trasportare le persone. Per portare in alto, per quanto possibile, i presupposti promozionali della propria antica compagnia, tra i più riconoscibili marchi della città di Chicago. D’altra molti grandi e conosciuti brand raccontano, nella loro storia pregressa, un momento in cui il fondatore girava per il paese o la metropoli di appartenenza come unico rappresentante commerciale, tentando di convincere i rivenditori e il pubblico dei meriti inerenti della propria proposta. Compito poi assunto dai propri sottoposti, ma non prima di essere passato temporaneamente sotto il controllo di amici e parenti. Così fu proprio durante tale fase all’inizio del 1936, che l’eponimo capo d’azienda ebbe un lungo e significativo colloquio col nipote Carl G. Mayer, il quale gli presentò entusiasticamente un nuovo metodo per fare breccia nella fantasia e fiducia delle persone: costruire un’automobile, diversa da qualsiasi altra avesse mai circolato su strada. Si trattava di un approccio, in realtà, piuttosto scaltro, consistente nell’impiego di un telaio fatto in casa dalla forma ben presto destinata a diventare iconica di un panino su ruote, sormontato dal curvaceo wurstel che costituiva il più celebre prodotto della compagnia. Incoronato, naturalmente, dalla “fascia gialla” che costituiva il suo principale segno di riconoscimento, assieme all’esortazione di cercarla assiduamente ogni qualvolta si varcava l’aurea porta del supermercato. Un veicolo funzionale ma poco sicuro, in cui l’autista si trovava situato con la testa sporgente verso l’alto, in maniera analoga a quanto avveniva nelle vetture da corsa di quegli anni lontani. D’altra parte con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, proprio quando cominciava ad essere famosa, la vettura andò incontro alla necessità di essere parcheggiata in garage per la mancanza di benzina, e secondo alcuni venne addirittura riciclata come materia prima per le armi utilizzate al fronte. Verso l’inizio degli anni ’50, tuttavia, Oscar e il nipote ricordarono il successo avuto in quella decade distante, decidendo di tentare nuovamente la sublime strada dell’autopromozione veicolare. Così contattando prima l’officina Gerstenslager di Wooster, Ohio, quindi il celebre carrozziere Brooks Stevens del Wisconsin, giunsero per gradi a quell’aspetto riconoscibile che l’ormai leggendaria Wienermobile, in certo senso, possiede tutt’ora…
La storia del ponte lungo un chilometro che conquistò la Dacia per l’Impero Romano
Si usa credere che, in ambito strategico, la conquista di una nazione nemica risulti essere particolarmente difficile, poiché ogni asperità nella conformazione del territorio, ciascun ostacolo degno di nota, diventa un paletto che grava in modo duplice sui propri sforzi: in primo luogo, rendendo più difficoltosa l’avanzata dell’esercito. E secondariamente rendendo più difficile, per non dire impossibile, un’approvvigionamento logistico che possa dirsi particolarmente efficiente. Così al tempo dell’imperatore Domiziano, dopo una serie di scorribande nel territorio imperiale ebbe modo di raggiungere il suo culmine dell’anno 85 d.C, quando venne deciso di affidare una spedizione punitiva al generale Cornelio Fusco. Ciononostante, fatto il proprio ingresso con le sue legioni nella stretta valle del fiume Timis, costui venne circondato e ucciso dal capo tribale Decebalo, assieme a buona parte dei suoi soldati. Il che costituì soltanto la prima di una serie di sconfitte, destinate a ripetersi ogni qual volta le forze provenienti da Roma s’inoltravano nel territorio di alcuni tra i loro più persistenti e caparbi avversari. Anche e soprattutto per l’ostacolo sostanzialmente invalicabile del grande fiume Danubio, vero e proprio avversario topografico di qualsivoglia iniziativa bellica nella zona corrispondente alle odierne Romania e Bulgaria. L’impero ereditato dal suo successore Nerva, che avrebbe regnato solamente per 16 mesi, era perciò inficiato dal significativo problema di una vulnerabilità dei suoi confini, tale da inficiare l’ideale entità del tutto invalicabile e monolitica del cosiddetto limes (limite) romano. Il che avrebbe rappresentato la prima preoccupazione del suo figlio adottivo e successore, l’uomo di carriera militare e provenienza iberica noto al secolo come Marcus Ulpius Traianus, il quale esattamente dopo 4 anni dal giorno in cui aveva indossato la porpora, decise sostanzialmente di averne avuto abbastanza. Quello che sappiamo dello svolgersi delle sue due successive campagne in Dacia, in buona parte desunto dai bassorilievi della conseguente colonna coclide (trionfale) eretta a partire dal 107 d.C, che si trova oggi tra la tomba del Milite Ignoto e la Basilica Ulpia, avrebbe quindi consistito dell’avanzata di due fronti paralleli, mediante la realizzazione di altrettanti ponti di barche oltre l’invalicabile corso d’acqua. Coordinate grazie al miglioramento ed ampliamento di un irto sentiero sospeso sulla riva destra fin dall’anno 33 d.C, lungo le alte scogliere di Kazan che giungono a costituire, nel punto di convergenza tra Balcani e Carpazi, la strettoia nota già all’epoca come Porte di Ferro (Vaskapu). Luogo giudicato perfetto, quasi 2.000 anni dopo, per la costruzione di una diga idroelettrica, ma tutt’altro che facile da attraversare mediante la tecnologia nautica del mondo antico. Il che non avrebbe impedito all’imperatore, personalmente al comando delle sue legioni, di avanzare lungo la strada maestra per la capitale regionale di Sarmizegetusa Regia, costringendo Decebalo, nel frattempo diventato re dei Daci, a una precipitosa resa e l’accettazione della condizione di cliente (vassallo) nei confronti dell’egemonia romana. Era l’anno 102 e Traiano, lungi da riposare sui letterali allori del proprio trionfo, giudicò che fosse giunto il momento di consolidare in modo irreversibile la propria egemonia nel territorio della Dacia. Così chiamò l’unico uomo che potesse realizzare la sua visione, dando ordine che fosse costruito un grande ponte. Il più notevole che l’umanità avesse mai visto fino a quel giorno, destinato a rimanere anche il più lungo per un periodo di almeno un millennio a seguire…