C’è una vera e propria guerra, là fuori, che dall’epoca della Preistoria non ha conosciuto più di qualche misera tregua, di durata particolarmente breve. È il conflitto senza scrupoli tra le creature piccole, siano queste insetti o i loro multipli e implacabili predatori. La fanteria degli imenotteri, instancabili formiche che procedono tra i boschi alla ricerca di possibili fonti di cibo; carri armati ed altri mezzi dalla resistente blindatura, con lumache, scorpioni e scarabei a riceverne la fondamentale ispirazione; ed il pericolo costante dell’aviazione, una tempesta letterale di vespe, zanzare ed altri succhiatori opportunisti delle circostanze più variegate. Così come in mezzo ai rami e tra le foglie, tende ad appostarsi l’instancabile cecchino in equilibrio, la striata o trasparente creaturina che cerca riparo quando disturbata, in modo tale da osservare senza essere osservata, continuando la sua rapida mitraglia d’insolite, ed al tempo stesso formidabili munizioni sferoidali. Questo senza nessun tipo di obiettivo definito e a dire il vero, neppur la benché minima approssimazione di un bersaglio, avendone sostituito la presenza grazie alla ricerca di una diversa e ben più pratica mansione: liberarsi al più presto di quanto potrebbe essere utile a trovarla. Una singola aromatica, umida munizione alla volta. Proprio così ed è questo, in poche parole, l’origine del nome anglofono sharpshooter (“franco tiratore”) generalmente attribuito a un’ampia gamma d’insetti saltatori mai più lunghi di un centimetro e facenti parte della famiglia Cicadellidae o cicaline, altrettanto note per la loro problematica abitudine di trarre nutrimento dallo xilema, il tessuto vascolare adibito alla circolazione della linfa grezza nella maggior parte degli esseri vegetali. Una sostanza tanto poco nutriente, a dire il vero, da richiedere un processo pressoché continuo di suzione attraverso l’impiego della loro appuntita proboscide zanzaresca, con conseguente deiezione di fluidi altrettanto ininterrotta e costante. Dal che l’idea prodotta dall’evoluzione (quel Demiurgo infinitamente creativo) di provvedere all’espulsione il più lontano possibile di tale sostanza, analogamente a quanto perseguito da numerose altre specie d’insetti. Ma tramite un approccio all’apice dell’efficienza, consistente nella periodica produzione di una sferica gocciolina in corrispondenza del proprio sfintere (a voler essere tecnici, facente capo a dei tubuli e non una vera e propria vescia) poi catapultata indietro mediante l’impiego di un organo articolato noto come penna anale. Metodologia apparentemente sottoposta a una pregressa disanima completa da parte della scienza, almeno finché al Prof. Saad Bhamla dell’università Georgia Tech non è capitato di osservare un esemplare di questa diversificata genìa all’opera nel suo giardino. Notando l’estrema velocità con cui la propulsione dei suddetti proiettili pareva attraversare il proprio campo visivo, suscitando l’opportunità di dare inizio a un nuovo, interessante approccio allo studio di quel processo…
L’esperimento del distretto Pullman, un feudo medievale nella Chicago dell’Ottocento
Lungi dall’essere considerato fino agli ultimi anni della sua esistenza una sorta di Ebenezer Scrooge della sua parte dell’Atlantico, in una versione drammaticamente realistica del Canto di Natale, il grande industriale, inventore e supremo capitalista George Pullman (1831-1897) ebbe la capacità di coltivare l’immagine di un magnate illuminato, attento al benessere dei propri dipendenti all’interno delle sue molte iniziative utili al miglioramento della loro vita. Giungendo persino a far costruire per loro una ragionevole approssimazione dell’Eden, la città “perfetta” situata nella parte meridionale di Chicago, in cui l’esistenza trascorreva in superficie priva di problemi sociali, senza distrazioni, alcol e gioco d’azzardo. Tra gli edifici progettati in base ai crismi di un’estetica gradevole e pittoresca, fino al culmine della suprema sede della Compagnia, con la sua svettante fabbrica dotata di una fiabesca e stranamente superflua torre dell’orologio. Che qualcuno potrebbe riconoscere dal film animato di Robert Zemeckis del 2004, Polar Express, giungendo al punto di essere riutilizzata come elemento caratterizzante della sede operativa di Babbo Natale. Una scelta presa in forza dell’associazione imprescindibile tra questo luogo con le ferrovie, data l’importanza di una forza lavoro giovane ed esperta nella costruzione delle eponime carrozze Pullman, vagoni dotati di ogni comfort per il pubblico crescente dei commessi viaggiatori, una categoria sociale in forte crescita sul finire del XIX secolo. Di sicuro più costose della concorrenza ma anche standardizzate e facilmente intercambiabili, con grande semplificazione logistica per compagnie ferroviarie. Un prodotto dallo straordinario successo, dunque, sufficiente all’accumulo di un capitale tale da permettere al suo padrone ed esclusivo detentore dei diritti, nel 1880, di acquistare un terreno di 4.000 acri in prossimità del lago Calumet sui confini della sua città d’adozione, dove aveva fatto fortuna in precedenza importando un particolare sistema di spostamento con martinetti idraulici degli edifici, impiegato all’epoca della costruzione del canale Erie a New York. Così che assunto a tal fine l’architetto Solon Spencer Beman, già famoso per aver contribuito al revivalismo gotico di quel secolo e la costruzione del Campidoglio del Connecticut, iniziò la realizzazione del suo ultimo e più ambizioso sogno: un luogo che potesse dirsi il culmine e la suprema realizzazione della sua visione del mondo. L’ultimo in ordine di tempo e forse il più famoso esempio del concetto di città aziendale, un agglomerato urbano attentamente pianificato per permettere al personale di una particolare attività del mondo industrializzato di vivere a ridosso del proprio luogo di lavoro, il distretto Pullman avrebbe mantenuto per diversi anni un’immagine di straordinaria serenità apparente. Con reiterati articoli di giornali e trattazioni a più livelli della straordinaria qualità delle sue residenze, universalmente dotate di amenità piuttosto avveniristiche per l’epoca, quali acqua corrente ed elettricità, tanto da essere già diventato una letterale attrazione turistica durante l’Esposizione Mondiale tenutasi a partire dal maggio del 1893. Ma era già dai primi mesi di quell’anno che le cose avevano preso una piega inaspettata, rivelando la cupa realtà dei fatti dietro la facciata d’apparente perfezione, ovvero lo spietato volto nascosto e le sinistre conseguenze di di una casa così falsamente attraente…
L’efficace strategia di caccia che avvicina le balene a un antico mostro norreno
Si narra nella leggenda di San Brendano, uno degli originali apostoli del Cristianesimo presso l’isola d’Irlanda, dei suoi favolosi viaggi e i paesi, il luoghi e i popoli che ebbe modo di conoscere navigando ai quattro angoli dei sette mari alla ricerca della terra dell’Eden, identificata in lingua gaelica con il termine di Tír na nÓg. In uno degli episodi più spesso ripetuti, facente parte della principale opera in prosa latina sull’argomento con datazione a partire dal X secolo, la sua imbarcazione giunse quindi presso un bizzarro atollo ricoperto d’erba ma del tutto privo d’alberi, dove egli avrebbe deciso di far riposare gli uomini della spedizione. E poiché era il giorno di Pasqua, iniziò a celebrare la messa in base ai gesti da lui stesso tramandati, giungendo fino al punto in cui la prassi prevedeva l’innalzamento di un croce, che il suo aiutante piantò con forza nel terreno di quella che pareva essere la spiaggia del loro approdo. Se non che in quel fatale momento, la terra stessa iniziò a tremare: poiché quello che era stato immobile sotto i loro piedi, era in realtà il gigantesco pesce Zaratan, che i greci chiamavano Aspilochedone (“Serpente-targaruga”) il quale spaventandosi per l’improvviso dolore, aveva iniziato a nuotare. E di lì a poco avrebbe provveduto a immergersi, condannando l’intero consorzio dei suoi accidentali visitatori…
Passano i secoli, mutano le storie. Compresa quella di una creatura riconducibile all’originale testo del III o IV secolo Physiologus, in cui gli si attribuiva l’insolita capacità di emettere un profumo in qualche modo accattivante dalle proprie fauci, con l’obiettivo di attirare le proprie vittime designate. Eppure spesso restano degli elementi in qualche modo ricorrenti, valide costanti o pratici sentieri per l’immaginazione. Così che attorno al 1250, il testo didascalico del Konungs skuggsjá (“Specchio del Re”) avrebbe riservato un capitolo alla descrizione del più grande ed incredibile pesce dell’oceano, mai catturato ne trovato morto sulle spiagge, le cui dimensioni superavano quelle di qualsiasi balena, il cui nome ai suoi tempi era diventato Hafgufa. E del modo in cui tale gigante era solito procacciarsi il cibo, lasciando emergere parte del suo corpo sopra il pelo dell’acqua, con la bocca spalancata. Provvedendo a rigurgitare con un rutto fragoroso prede precedenti e parzialmente masticate, così da attirare i pesci assieme agli uccelli ad una sorta di terribile banchetto. Per poi provvedere, come se nulla fosse, a chiudere di nuovo le mascelle con tutto l’intero contenuto d’occasione, recuperando in tale modo il suo significativo investimento di energie. Un efficace e per certi versi credibile comportamento, che un nuovo studio condotto da John McCarthy, Erin Sebo e Matthew Firth della Flinders University di Adelaide, Australia, sarebbero riusciti con un articolo sul finire di questo febbraio a ricondurre al recente successo su Internet di una serie di video virali sulla tecnica acclarata del trap feeding, un approccio esclusivo delle rorqual (fam. Balaenopteridae) all’esecuzione di formidabili battute di caccia. La strategia di questi grandi carnivori, per l’appunto, letteralmente all’opposto di quella per cui sembravano essersi evoluti, precedentemente espressa in rapide picchiate alla massima velocità consentita dalla loro massa imponente, durante cui provvedere al pratico risucchio di ogni cosa presente sul loro tragitto sotto la superficie marina. Laddove gli esemplari in questione, ripresi per la prima volta presso il golfo di Thailandia e presso l’isola di Vancouver, parevano piuttosto preferire una più passiva strategia del tutto simile a quella dell’Hafgufa…
Gli ingredienti che proteggono il gelato turco dai giochi di prestigio dei suoi creatori
È una delle scene che ricorrono su Internet tra un video divertente di animali e il film documentario della storia di un paesaggio particolarmente accattivante. Il susseguirsi di gestualità, espressioni e movimenti che viene notato dallo spettatore con un senso vago di divertimento, mentre gli occhi già si spostano verso la successiva attrazione del parco giochi digitale oltre i magici cancelli del Web: un uomo in abiti tradizionali, dal pregevole fez d’ordinanza, offre del gelato con un lungo cucchiaio al suo cliente, spesso un bambino o una bambina del posto. Qualche volta un turista. Ma la progressione dell’evento riesce ad essere tutt’altro che lineare, mentre la suddetta pietanza viene ripetutamente allontanata, posta sopra un cono e poi rimossa, capovolta, fatta scomparire dalle mani della vittima di turno. Soltanto alla fine, dopo almeno un paio di minuti trascorsi a declinare ogni possibile acrobazia dei gesti consentiti, il gelato si materializza infine in dotazione al suo destinatario, dall’espressione divertita ma anche comprensibilmente prossima all’esasperazione. Così colpiti dall’assurdità e curiosa contestualizzazione di una simile contingenza, raramente pensiamo a interrogarci su come sia possibile che il suddetto fluido semi-solido, dalle nostre parti noto per la sua tendenza a sciogliersi in periodi piuttosto brevi, possa mantenere la sua forma lungo lo svolgimento di questo breve, quanto animato spettacolo di strada fatto d’acrobazie e continue sollecitazioni situazionali. Il che deriva per l’appunto dalla sua collocazione geografica turca e l’utilizzo di specifici componenti, ciascuno valido e contributivo alla creazione di un malloppo dalle caratteristiche tutt’altro che newtoniane. L’appiccicoso, coriaceo, delizioso e compatto dövme dondurma, il cui nome significa per l’appunto “[cosa] congelata allo spiedo”, proprio per l’impiego dell’attrezzo da cucina in questione per perforarlo al termine della preparazione, provvedendo a esporlo come una sorta di kebab presso l’ingresso del proprio negozio o bancarella, nella più totale indifferenza all’impatto diretto dell’energia termica proveniente dall’astro solare. Perché sebbene venga preparato alla temperatura media di -8 gradi, raramente il gelato turco sopravvive fino a raggiungere il suo punto di scioglimento, una caratteristica considerata particolarmente utile nelle caldi estati del Levante. Il che non è d’altronde l’obiettivo ultimo della sua preparazione, bensì una mera risultanza collaterale delle sostanze utilizzate per la sua preparazione, ciascuna egualmente utile a creare un gusto ed un’aroma tanto distintivi e nell’opinione di alcuni, tutt’altro che facili da emulare. A partire dal latte impiegato, che dovrebbe possibilmente provenire esclusivamente da capre allevate sulle montagne di Ahir, in Anatolia presso la città di Kahramanmaraş, nutrite con particolari erbe tra cui il croco, timo e giacinto. Prima di essere accuratamente mescolato con qualcosa di quasi altrettanto difficile da procurarsi, almeno fuori dal suo effettivo paese di provenienza…