La barba che cresce sulle code della falena

È tutto iniziato con il post dell’utente giavanese di Facebook, Gandik, che il 19 ottobre all’ora italiana 14:08 ha postato la frase presumibilmente in indonesiano: “Nmbe tumon kupu macem kie” (traduzione, uhm…) accompagnata da foto e video di un insetto decisamente peculiare. Una falena dall’addome corpulento di colore arancione con puntini neri, le ali striate molto aerodinamiche, e una livrea sinuosa simile alla zampa di un tavolo ornato in prossimità della testa. E poi, quasi dimenticavo, quattro mostruosi tentacoli arcuati fuorusciti dalla parte posteriore del corpo, simili agli arti prensili di una creatura concepita per succhiare cervelli fuori dai padiglioni auricolari umani. Soltanto simili, s’intende. Voglio dire, l’aspetto della creatura è piuttosto insolito ed innegabilmente inquietante. Forse perché sembra a tutti gli effetti che sia stata infettata da uno o più parassiti, ricordando per certi versi la tipica scena dei vermi nematodi che fuoriescono dal corpo di un bruco o una sfortunata mantide religiosa. Ma la reazione collettiva di disgusto professata dalla maggior parte dei portali Internet e la blogosfera direi che appare appena un pelino esagerata, per un’animale che misura poco più di un centimetro di lunghezza: “Chiaro segno dell’Apocalisse avvistato online” oppure “Se lo vedessi brucerei istantaneamente la casa, ma che dico, la città…” Seguìto dal sempre popolare: “Gettate una bomba ATOMICA dall’orbita terrestre per eliminare questo araldo di Satana fra di noi.” È un po’ il gusto dell’iperbole che si sa, garantisce un numero maggiore di click. Non che questo giustifichi la quasi totale assenza di analisi scientifica nella trattazione reperibile tramite Google, che sembra essersi fermata al primo accenno offerto da Wikipedia in materia. Laddove, tra l’altro, la specie è nota: ciò che abbiamo visto coi nostri occhi increduli costituisce in effetti un esemplare maschio di Creatonotos gangis, nient’altro che uno dei Centuria Insectorum(100 insetti) descritti per la prima volta nell’omonimo testo tassonomico del 1763 compilato dal sempre rilevante Linneo. “Se non conosci il nome, muore anche la conoscenza delle cose.” Amava dire costui… Ma sapete cos’è ancora meglio, per ricordarselo? Associare un racconto al nome. Si tratta di una storia davvero importante. Forse la più importante di tutte…
Il momento culmine nella vita di questo lepidottero, diffuso in tutto il Sud-Est Asiatico ed in alcune regioni settentrionali dell’Australia, si verifica durante un periodo delle notti di primavera, quando fuoriesce dal duro bozzolo in cui ha trascorso l’inverno. Non più bruco strisciante e peloso, bensì un essere volante concepito primariamente per uno scopo ben preciso: trovare una femmina ed accoppiarsi con lei. Il che avviene attraverso un organo produttore di feromoni che l’entomologo Robinson, inventore della più celebre trappola per falene, definiva nel 1962 “Uno dei miracoli della natura.” Il nome dell’apparato artropode in questione è coremata e il suo aspetto dalle molteplici biforcazioni barbute, beh… Diciamo soltanto che suscita una certa quantità di domande. La prima delle quali nasce dalla semplice osservazione di come dette mostruose “code” siano a tutti gli effetti più lunghe dell’addome dell’animale. Come è possibile tutto ciò? La risposta, in un certo senso, fluttuava nell’aria. Gas incorporeo che la falena risucchia tramite l’apposito opercolo, gonfiando letteralmente un qualcosa che si rivela essere, dunque, nient’altro che la versione naturale di quelle maniche vagamente antropomorfe fatte sorgere in maniera pneumatica in occasione degli eventi e fiere di paese. La cui finalità non è però soltanto, né primariamente estetica, avendone una decisamente più funzionale: liberare un richiamo nell’atmosfera. Preparatevi quindi alla rivelazione che, forse, getterà nello sconforto il battito del vostro cuore: queste falene non arrivano mai da sole.

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L’istinto materno dello scarafaggio gigante

L’associazione è chiara nella fantasia popolare, in funzione del famoso detto in dialetto napoletano: “Ogni scarrafone è bell’ a mamma soja” rivolto generalmente a persone considerate non molto attraenti ed all’affetto che le lega all’unica donna che, nella vita, sarebbe propensa a sopravvalutare le loro qualità esteriori. Nessuno tuttavia pensa, realmente, che il cosiddetto insetto che teme la luce (questo il significato letterale del termine latino blatta) abbia un legame particolare con la sua prole, né che ce l’abbia la termite, sua più prossima parente dal punto di vista della classificazione animale. Pensate all’artropode medio, che cosa vi viene in mente? La rapida deposizione della propria ootheca, ovvero la sacca delle uova, in un luogo ritenuto adatto perché sopravviva fino alla schiusa. E poi… Basta. Non c’è altra protezione, non c’è allattamento, nutrimento, sostegno morale di nessun tipo. Nel caso della sempre temuta Blatella germanica tra l’altro, la nascita delle nuove generazioni può essere talmente rapida che ogni singolo decesso infantile viene immediatamente sostituito da letterali dozzine dei suoi fratelli, rendendo del tutto impensabile l’applicazione della cosiddetta strategia evolutiva K, che consiste nell’assicurarsi per quanto possibile che una quantità ridotta di eredi raggiungano a loro volta l’età riproduttiva. Ed il problema, dal punto di vista scientifico, è in fin dei conti proprio questo: parlare di un concetto generico di scarafaggi, a partire da caratteristiche che sono proprie delle specie maggiormente infestanti, essenzialmente una percentuale minima delle varianti totali esistenti su questa Terra. Quattro tipologie, non una di più. Su 4.600 totali circa. Non c’è poi così tanto da restare sorpresi, quindi, se tra una simile varietà esiste anche il caso di madri amorevoli, che farebbero di tutto per assicurarsi la sopravvivenza dei loro piccoli, la pupilla dei loro occhi, gli esseri più belli che abbiano mai avuto modo di conoscere, zampettando allegramente per l’ombroso sottobosco natìo.
E non è certamente soltanto questo, il tratto distintivo del Macropanesthia rhinoceros, anche detto blatta rinoceronte o litter bug (insetto spazzino) nel suo nativo Queensland, luogo selvaggio ed umido a settentrione del continente australiano. Una creatura che pur appartenendo nominalmente all’ordine dei Blattodei, ha altrettanto a che fare con il comportamento scaltro e scattante dei più detestabili visitatori delle nostre case, quando una piccola tartaruga dall’indole gentile. Che scava buche profonde a un metro di profondità. E poi, ci sono le dimensioni: 80 mm dalla testa alla parte più estrema delle placche dorsali, essenzialmente abbastanza da poter ricoprire completamente un palmo umano. Anche la dieta, per lo meno in natura, risulta essere stranamente specifica: stiamo parlando di un insetto che si nutre quasi esclusivamente di foglie secche dell’albero di eucalipto, processandole e riciclandole in maniera organica affinché diventino un qualcosa in grado di concimare il suolo. Da questo punto di vista considerato, quindi, una creatura utile, lo scarafaggio in questione dimostra tuttavia anche un altro merito, la responsabilità amorevole per la sua prole. Animali generalmente solitari, contrariamente alle già citate blatte germaniche, i Macropanesthia non sono in grado di riprodursi per partenogenesi, dovendo quindi trovare una compagna attraverso il richiamo dei suoi feromoni, che li condurrà auspicabilmente all’obiettivo agognato della riproduzione. Una volta fecondata, quindi, la femmina terrà le preziose uova all’interno del suo stesso corpo (ovoviviparità) fino al momento della schiusa, che finirà per assumere quindi le caratteristiche di un parto. Generalmente, di non più di 10-11 cuccioli semi-trasparenti. Nel frattempo anche lui, padre amorevole, sarà rimasto nei dintorni con la consorte, ad aiutare con l’ampliamento della buca e per portare riserve di cibo in essa. Risorse che dovranno servire a fornire il sostentamento alle ninfe, la versione neonata di loro stessi. Creaturine destinate a compiere una metamorfosi parziale nel corso dei prossimi cinque anni e 12 o 13 mute dell’esoscheletro, prima di aver raggiunto l’età adulta e contestualmente, la metà esatta della loro durata di vita presunta.

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L’arteria pinnuta che porta nel cuore della foresta

I ritmi della vita sono diversi nelle profondità delle acque lacustri, fluviali e marine. In un periodo tra i 2 e i 6 mesi, si schiude l’uovo, e si fa la conoscenza col mondo in forma di avannotti. Una volta esaurito il nutrimento presente nella propria capsula di nascita, si inizia a dare la caccia al plankton. La più piccola ed onnipresente corrente di vita. L’estate non fa in tempo a finire, che già sei diventato un parr: il termine, privo di equivalenza italiana, che indica i giovani salmoni. Per tre anni, tali esseri restano in questo stadio, finché non sentono con tutto il loro essere che è giunto il momento della verità. Tre anni sono passati, quando si lasciano indietro la livrea mimetica a strisce, sostituita da scaglie scintillanti come la corazza di un antico eroe. A quel punto, sono pronti: in un turbinio di guizzanti esseri, la grande migrazione ha inizio. Dapprima a gruppi sparuti, quindi veri e propri branchi, l’esercito dei nuotatori inizia a percorrere le anse e le rapide del fiume Chilkat, in Alaska. Loro è il trionfo, l’estasi e la ricchezza. Di un vero e proprio furto generazionale: quante sostanze nutritive, quali magnifiche proteine, l’energia accumulata, costoro sottraggono al luogo di provenienza? Come una valanga che tutto assimila, i pesci corrono verso valle. Ma nel farlo, come una sanguisuga, si portano via il fluido stesso dell’entroterra, verso le oscure vastità dell’Oceano Pacifico. Chi ma risarcirà la foresta?
Gli anni passano, quindi, senza particolari eventi. Forme anonime nella vastità turbolenta, i salmoni vagano per i verdi pascoli d’alghe, catturando tutto ciò che gli capita a tiro. Al raggiungimento di un autunno che può essere il terzo (Salmone Rosa) il quinto (S. di Coho) il settimo (Chum salmon) l’ottavo (Sockeye) o il nono (Chinook) i pesci raggiungono la pubertà. È allora, secondo alcune teorie, che un particolare accumulo di ferro nel loro cranio si attiva, attivando un senso di localizzazione magnetica che gli permette di tornare verso la foce di provenienza. Ed è nel momento in cui i loro ricettori chimici percepiscono l’odore delle acque natie, che inizia la seconda trasformazione: è spaventosa a vedersi. I pesci aumentano la loro massa corporea come l’Incredibile Hulk, sostituendo le proprie fibre muscolari rosse con quelle bianche, più adatte a sforzi ed imprese disperate. Nei maschi, la parte anteriore della bocca sviluppa un uncino (il kype) mentre i loro denti crescono a dismisura. Alcune specie vedono svilupparsi un’impressionante gobba, dalla finalità incerta. Ed è in questa forma, che iniziano a risalire il fiume, verso il luogo in cui avverranno la deposizione e l’incontro nuziale.
Si tratta, naturalmente, di un grande sacrificio. Ciascuno di questi pesci comprende che al termine di questo viaggio, potrebbe non fare ritorno mai più. Benché tra le specie del Pacifico, ne esistano alcune in cui la femmina sopravvive allo sforzo, e ritornata fin giù al mare, può riprendersi gradualmente per vivere ancora quell’esperienza. Ma questo non è garantito, né essenzialmente realmente opportuno. Poiché lo scopo stesso del salmone, come animale semèlpare, è di riprodursi e morire. O venire ghermito dai predatori ancor prima di riuscire a farlo. Persino questo, è preferibile all’oblio marino. Per quale ragione, la natura l’ha concepito così? Non sarebbe stato meglio creare un essere in grado di riprodursi più volte nel corso della propria vita… Forse. Eppure, forse no. La ragione, o il merito di tutto questo va ricercata nell’azione collaterale di uno specifico, fondamentale animale: l’orso.

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La strana nascita del pollo dei vulcani

Un litro d’acqua gassata all’interno di una bottiglia da mezzo litro, questo è la Terra. Pianeta i cui stessi sconvolgimenti, attraverso gli eoni, hanno posto le basi per la nascita della vita e la deriva dei continenti. Che cosa saremmo, oggi, se tutta l’energia a nostra disposizione dovesse provenire dal Sole e dalle maree? Nessun fuoco interiore, niente venti, né terremoti. La vita animale, tra cui quella umana, non è che un aspetto della sua controparte minerale, il residuo di quel grande boato primordiale che si oppone naturalmente al processo dell’entropia. Vi sono creature che lo comprendono. Vi sono esseri che devono la loro stessa sopravvivenza a questo particolare barlume di saggezza. E qualsiasi simile recipiente, ciò è inevitabile, presenta un qualche tipo di valvola di sfogo. Normalmente, le chiamiamo “tappi” ma i geografi preferiscono definirli Islanda, Etiopia, Filippine, Giappone… Indonesia, in particolare presso l’enorme isola di Sulawesi. Una confluenza serpentiforme di territori abitabili, fatta di quattro penisole e diversi centri abitati e costellata di vulcani. Ma forse, descrivere questo luogo a partire dalle sue zone urbane sarebbe alquanto riduttivo. Poiché è proprio dalla vasta giungla centrale, che emergono alcuni dei più strabilianti capolavori dell’Evoluzione.
Può capitare di vederlo succedere in qualsiasi periodo dell’anno, come è consueto negli ambiti climatici tropicali: uno stormo, se così scegliamo di definirlo, composta da uccelli lunghi all’incirca 60 cm ciascuno, il dorso nero come il carbone ed il ventre rosa, color di una pesca matura. Con gli occhi cerchiati di giallo e qualcosa di strano sopra la testa: ciò che in gergo aviario incontra il nome di casco, ovvero una struttura semi-solida e bulbosa, simile a un elmetto da football. Ma che è stato anche descritto come una zecca gonfiatasi fino alla dimensione di una noce. Ed è forse proprio questo elemento a donare in massima parte l’aspetto marcatamente alieno dell’animale, un’impressione ulteriormente supportata dagli strani versi che emette, simili a un stridulo tacchino. Per non parlare del suo impossibile comportamento. Una volta raggiunta la spiaggia antistante la propria foresta, infatti, il gruppo di Macrocephalon male (Comunemente detti maleo) inizia immediatamente a scavare, facendo uso delle potenti e spesse zampe ricevute in dono dalla natura. Il proseguire di questo episodio, se non vogliamo definirla una vera e propria scena, progredisce quindi verso il regno dell’impossibile, con le diverse coppie di maschio e femmina che collaborano nel sollevare un impressionante nube di polvere, mentre manciate di sabbia vengono gettate in ogni direzione, incluse le buche dei propri colleghi. Di tanto in tanto, gli uccelli immergono il becco nella sabbia, nell’apparente tentativo di sentirne il sapore. In realt, ne mettono alla prova la temperatura. Nasce qualche lite, gli spazi vengono definiti, il vortice del Caos impera in un favoloso congiungimento di turbinii. Una volta tornata la calma, le femmine si accovacciano sopra i rispettivi buchi e depongono un singolo uovo. Enorme ed oblungo, grande fino a cinque volte quello di una gallina. A questo punto lo ricoprono completamente e con apparente soddisfazione, spiccano il volo per fare ritorno ai boscosi territori di provenienza.
Se ci fossimo trovati in un qualsiasi altro paese, probabilmente, tutto questo non avrebbe portato ad alcunché di fecondo. Privo di calore sufficiente a raggiungere la schiusa, il pulcino sarebbe morto in totale solitudine e oscurità, senza mai sperimentare l’ebbrezza del sovrastante cielo. Ma poiché il suolo di Sulawesi, come per l’appunto dicevamo, è connesso ai condotti che si diramano dal grande mare di magma nelle profondità del mondo, e grazie all’attenzione prestata dai suoi genitori, il suo pertugio irraggiungibile dai predatori potrà vantare una temperatura che si aggira attorno allo sweet spot dei 33 gradi netti. Sufficiente affinché, dopo il trascorrere di 60-90 giorni, il neonato possa rompere il guscio, mettendo piede in quella che potrebbe assai facilmente costituire la sua stessa tomba. Il fatto, vedete, è che il piccolo di maleo può facilmente trovarsi anche ad un metro di profondità. Ragione per cui è biologicamente concepito, fin dal primissimo attimo di libertà, per affrontare le imprese e le fatiche di un esemplare adulto, fatte le debite proporzioni. Ed a quel punto, con rapida rassegnazione, non potrà far altro che mettersi a scavare.

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