La nuova campagna pubblicitaria della catena di fast food Chipotle Mexican Grill, major statunitense specializzata in burrito, taco e fajita, si propone di sensibilizzare il suo pubblico contro i rischi dell’allevamento industriale e dell’agricoltura intensiva, mostrando attraverso uno stile creativo, affine a quello della Pixar, le conseguenze più estreme a cui si potrebbe giungere con l’uso indiscriminato di estrogeni e della manipolazione genetica, andando a discapito del benessere di tutte le parti coinvolte fra cui, non ultimi, noi affa(sci/m)ati esseri umani. Il contesto, ricco di allegorie vagamente didascaliche, per quanto mai stereotipate, è altamente distopico fin dai primissimi secondi del video. Perché se mai c’è stato un personaggio sfortunato, dall’epoca del Mago di Oz, questo è il comune spaventapasseri. Di sicuro Scarecrow, l’anonimo e triste protagonista del racconto, non fa eccezione alla regola. Costretto per nascita, o dagli spietati crismi della crisi economica, a lavorare per l’imperiosa Crow Foods Inc, vive in campagna e mal sopporta il grigiore dell’ambiente cittadino, dove però, per sua sfortuna, si trova l’enorme stabilimento della compagnia. Timbrato il cartellino comincia il suo turno, sulle note tristissime di Pure Imagination, cantata da Fiona Apple. E non è chiaro quale sia il compito designato del povero senza-volto, se non quello di farci da orfico traghettatore in quest’antitesi della Fabbrica di Cioccolato, piena di nastri trasportatori quasi escheriani, minacciosi corvi meccanici e minuscole gabbie per mucche. Da certi pratici portelloni aperti nell’alto muro della fabbrica, che separano i clienti da tutto ciò che “non si deve vedere” fuoriescono a flusso continuo hamburger, patatine ed altri gustosi pasti, fra la gioia degli ignari piccini locali, navigati masticatori di carni non meglio identificate. Lui sale in cima con l’ascensore, si guarda attorno, coglie lo sguardo triste di un collega. Nei suoi occhi rivede quelli abbattuti del pollo gonfiato ad aria compressa, della mucca stolida e implorante. E quindi, preso dal vezzo del momento, decide di prendersi una piccola rivincita. Tornato nella sua fattoria, coglie un fatale peperoncino chipotle (simbolo dell’omonimo fast-food) e si mette a cucinare liberamente, secondo i suoi metodi tradizionali. La regia glissa sulla macellazione dei piccoli amici animali, probabilmente considerata troppo poco disneyana per l’occasione.
L’eterna lotta tra una pecora e la moto
TeeOCee è il giovane motociclista neozelandese che, percorrendo una tranquilla strada boschiva, si è imbattuto nell’ariete nero più arrabbiato al mondo. Da quel giorno, come in un romanzo d’avventura, è nata la loro faida senza fine: più volte si sono scontrati, per stabilire il predominio su quel territorio essenziale, punto di passaggio strategico fra i diversi attimi di un percorso storico importante. Corna ritorte e motori ruggenti, soffice lana di fronte al duro metallo. Il guardiano quadrupede della foresta, contro l’arrogante essere umano, a bordo del suo spaventoso veicolo a due ruote. Perché, qualcuno potrebbe chiedersi, non scegliere semplicemente di passare altrove? “Questa è casa mia, tengo moglie e figli!” L’animale potrebbe dire: “Beeehasta con questo assordante belato a due cilindri, ragazzino”. Ed è facile da capire, persino da condividere, il suo punto di vista. Ma la situazione va doppiamente analizzata. La convivenza, in questo caso, ha una sua ragion d’essere e un contesto. Le pecore selvatiche del Nuovo, Nuovissimo Mondo, che si compone d’Australia e ancor più Recente Zelanda, non sono in effetti tribù native proprietarie delle isole, cui qualcuno vorrebbe sottrarre un sacro diritto ereditario. No signore, Cristoforo Colombo. Discendono tutte dalla medesima razza Merino, fiore all’occhiello di Castiglia, nonché massima esportazione dell’Europa coloniale. Prima dell’avvento dei frigoriferi, preservare il cibo era un problema. Le navi europee del diciottesimo secolo, che per la gloria di distanti regni esplorarono queste terre, ne scaricarono intere carrettate, un po’ qui e un po’ la, insieme ad altrettante capre, maiali, cani e i sempre temutissimi conigli. Qualcuno, prima o poi, li avrebbe ringraziati (pensavano). Il modo più facile per preservare la carne, a quei tempi, era infatti mantenerla in vita. Così le bestie vennero diffuse, proprio come i microbi americani del comune raffreddore, distruttori di grandi e antiche civiltà. E se soltanto qualcuno avesse chiesto il parere del koala, oggi non saremmo a questo punto. A schivare i cornuti con la moto.
Droni sorvolano cattedrali nel deserto
Entrino i robot volanti, dotati di telecamera, celebrità virtuali dei canali dell’intrattenimento on-demand. Droni, silenziosi testimoni dell’umana follia. Questa momento, fra tutti, andava registrato. E per fortuna così è avvenuto. Sopra un letto di sale, sotto un cielo di stelle, fra agosto e settembre e nel pieno mezzo degli Stati Uniti c’è da sempre un titano che brucia. Con lui brucia un tempio. E dopo che sono stati tutti e due ridotti in cenere, stranamente, vengono ricostruiti per l’anno seguente, da molti anni a questa parte. Per assistere all’evento, si fonda tempestivamente una città, con decine di migliaia di abitanti. Si costruiscono fantasiose opere d’arte, le automobili diventano mostri, si balla, si gioca e si canta. Pochi giorni dopo, come per l’intervento di una forza misteriosa, fra quelle scure, rocciose montagne resta soltanto la desolazione. Sarebbe poi quella, terribile, del deserto di Black Rock, formatasi durante l’ultima era glaciale, famoso per la sua vasta playa, l’ultima testimonianza dell’antichissimo lago Lahontan. Volle il destino che di una simile polla pleistocenica, sparita per l’effetto di possenti mutamenti climatici, restasse soltanto il sale. Volle invece l’uomo, in tempi assai più recenti, che qui si facesse baldoria. Il nome della festa è The Burning Man e si tratta di un evento ormai quasi leggendario, nato più di venti anni fa come rito moderno del solstizio d’estate, dapprima grazie all’idea di un gruppo d’amici, tutti originari della città di San Francisco. Qualcuno, ingenuamente, potrebbe definirli gli ultimi depositari della cultura hippie, gli eredi della torcia di Woodstock. E in effetti ci sono dei punti di contatto, come il rifiuto del denaro, subordinato al baratto o allo scambio di doni, nonché la libertà di essere nudi e ricercare l’incontro tra i sessi. Il festival, tuttavia, si basa su una serie di princìpi più moderni, come l’autosufficienza radicale, la responsabilità civile e l’ecologia, particolarmente sentiti dagli organizzatori e da una buona parte degli eterogenei partecipanti…Però il punto più interessante sarebbe un altro, almeno secondo me. Il celebre statuto T.B.M, fatto di 10 regole, non assomiglia per niente a un manifesto infiammatorio, quanto piuttosto ad un prontuario d’interazione sociale. “Così ci si comporta qui, a Black Rock City, fra agosto e settembre” Sembra dire. E basta. Una volta tornati stanziali, nelle vostre solide città di cemento, portate con voi un ricordo di questi giorni. Ma non cercate di cambiare il mondo. E proprio in tale ragionevolezza d’intenti, in un certo senso, si può identificare la forza di questo durevole movimento.
Phonebloks, cellulare che si smonta come un LEGO
Ieri sera, mentre gli occhi di mezzo mondo scrutavano i dorati palchi di Apple Computer (meleto dei re) e noi meditavamo su impronte digitali e coprocessori di localizzazione, presso il campus digitale di Internet trapelava l’esistenza del più bislacco pretendente a quell’ambìto trono, che si nasconde nella tasca dell’uomo medio: Phonebloks, primo telefonino smontabile, prodotto della mente immaginifica di Dave Hakkens, designer e marketeer di Valkenswaard, in quel d’Olanda. Difficile è la vita, per chi lavora nel mondo della tecnologia. Serve sempre trovare nuove strade. Chi capisce ed interpreta i diversi trend culturali di un contesto X, il più delle volte, ottiene la chiave del successo. L’operato di abili ingegneri, per quanto imprescindibile, verrà soltanto dopo, se veramente necessario. Proprio per questo, il ragionamento alla base della proposta di Phonebloks è schietto, sebbene un po’ contorto. Viviamo nell’epoca di una ritrovata coscienza ecologica, tanto diffusa da portare al rigetto di tutto ciò che contamina la natura. Le star di Hollywood, abbandonata la via salvifica di stravaganti religioni, acquistano e pubblicizzano le loro auto elettriche meno inquinanti. I cacciatori di chi arpiona le balene, eroici bucanieri dei nostri tempi, diventano i protagonisti di romantici reality televisivi, esportati insieme alle culture animaliste d’Occidente. Così nasce l’idea di Dave: basta gettare ciò che è diventato vecchio! Spesso acquistiamo l’ultimo terminale soltanto perché ha una fotocamera migliore, piuttosto che la batteria più capiente o il processore potenziato; per una singola funzione, improvvisamente rifiutiamo tutto il resto, che ci andava pure bene. E se…Il telefonino fosse modulare? Come un giocattolo per bambini, altrettanto curato nell’estetica, Phonebloks si compone di blocchetti intercambiabili, ciascuno dotato dei componenti necessari per fare qualche cosa. Quando obsoleti, potranno essere sostituiti uno per volta. Il valore aggiunto di una tale soluzione, che ovviamente presenta ostacoli progettuali non indifferenti, sarebbe la personalizzazione. Nel video, un uomo d’affari sceglie una batteria più potente. Un escursionista ci mette l’obiettivo gigante di una cinepresa stile anni ’30, presumibilmente più adatto al suo status invidiabile di hipster. L’anziana signora, con qualche problema d’udito, gli preferisce l’utile altoparlante da 130 decibel per centimetro quadrato. Davvero fantastico, questo Phonebloks. Non fatelo cadere in terra. A meno che abbiate il tempo per improvvisare un puzzle.