La sfera robotica con il cervello vegetale

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Avete mai visto l’astro lunare che rotola per le strade di una metropoli cinese, con tanto di crateri, Mare Tranquillitatis e relitto del modulo Apollo abbandonato ad attendere il ritorno dell’umanità?  Probabilmente si, visto che un qualcosa di ragionevolmente simile si è verificato lo scorso settembre a Fuzhou nel Fujian, quando la furia del tifone Meranti ha scardinato dai suoi supporti e proiettato per le strade un enorme pallone raffigurante la nostra Sorella notturna, precedentemente approntata come addobbo per la festa più importante dopo il capodanno. Elargendo a tutti gli automobilisti, che guidavano tentando di schivarla, il dono di una mattinata in qualche modo significativa e diversa. Tanto che qualcuno presso il collettivo dell’Interactive Architecture Lab, facente parte del prestigioso UCL (University College di London) potrebbe forse aver pensato: “Palle imprevedibili giganti? Eureka! È proprio ciò di cui abbiamo bisogno anche qui da noi. Sarà meglio mettersi al lavoro…” Ma no, scherzi a parte: Hortum Machina, B. è davvero molto più di questo. È un giardino, è un esperimento di robotica interattiva, è il tentativo di ridare un’importanza ormai perduta alla natura. Così come a proposito del classico aforisma: “Se i cani potessero parlare, cosa direbbero?” Esso tenta di rispondere al quesito trasversalmente analogo: “Se le piante potessero muoversi, dove andrebbero?” Una domanda all’interno della quale, sotto un certo punto di vista, potrebbe nascondersi il significato stesso della nostra vita e tutte le altre sulla Terra. E che passa per il tramite di un’invenzione pratica davvero interessante: un elemento per definizione architettonico (perché ospita qualcosa di statico, come le piante) che tuttavia può muoversi in maniera imprevedibile. Ma è COME riesce a farlo, a renderlo speciale: perché esso opera grazie agli stessi impulsi elettrofisiologici degli esseri viventi contenuti al suo interno. Probabilmente saprete in effetti, per lo meno per sentito dire, che le piante possono provare sensazioni, e reagire di conseguenza. Celebre è l’esperimento dei pomodori cresciuti con l’ausilio delle sinfonie di Mozart e Beethoven, così come la sua capacità di reagire meglio a determinati pericoli biochimici grazie alla lezione dei propri ricordi. Sulla base di simili concetti i due studenti William Victor Camilleri e Danilo Sampaio, sotto la supervisione del Prof. Ruairi Glynn, hanno attraversato un percorso progressivo mirato a concedere agli appartenenti al più statico dei regni viventi (le piante, per l’appunto) il controllo di una serie di muscoli artificiali, frutto del processo tecnologico diametralmente opposto alla loro più pura essenza.
Ciò che ne è nato… È un cyborg, un benevolo mostro di Frankestein, la meraviglia più inquietante dei nostri tempi. Una sfera geodetica, ovvero composta da travi in metallo che percorrono i suoi cerchi massimi, e all’interno un incosaedro motorizzato con ciascuna delle sue facce occupate da una piccola fioriera artificiale contenente una commisurata coltivazione di una pianta specifica originaria del Regno Unito. Al centro dell’apparato, non visibile, è stato posto un computer con un apparato di misurazione, connesso a piccoli elettrodi inseriti nelle piante stesse. Grazie ad un apposito software creato per l’iniziativa, dunque, lo strumento di precisione risulta in grado di “leggere” la mente delle sue ospiti viventi (come, esattamente, non si sa) ed interpretare le loro fondamentali necessità: ad esempio, una pianta potrebbe avere bisogno di più luce. Eventualità, diciamolo, tutt’altro che rara nel caso della fioriera che si troverà volta per volta nella parte inferiore della sfera. Oppure magari, una delle sue sorelle fotosintetiche potrebbe sentirsi minacciata dall’eccessivo caos di un particolare ambiente urbano, richiedendo uno spostamento verso lidi più verdi e silenziosi. Parimenti, la presenza di un livello di smog eccessivo indurrebbe nell’impossibile creatura un immediata voglia di migrare. A quel punto, dunque, il ridisporsi ad arte degli elementi componenti l’icosaedro all’interno faciliterebbe l’inizio del processo di rotolamento, ponendo in effetti le “inconsapevoli” piante al nostro stesso umano livello. Certo, la realtà potrebbe essere piuttosto problematica. Nello stesso rendering presentato dall’UCL, Hortum Machina, B. viene mostrato mentre si avventura sulla corsia di scorrimento di una trafficatissima strada cittadina…

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Le verità di Ordos, città fantasma sul confine della Cina

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L’energia economica del mondo scorre e si propaga, attraverso linee di confluenza che convergono verso i punti d’interesse dei poteri sovrani: zone d’importanza strategica, culturale, turistica, giacimenti di risorse naturali. Così quando camminando ti ritrovi al cospetto di una simile energia, è difficile che non lo noti. Nella parte settentrionale del grande paese degli Han, c’è la striscia di territorio che viene comunemente definita la Mongolia interna. Ed è qui, in prossimità del Fiume Giallo, che si estende una delle piazze più grandi del mondo, dopo Times Square e Tiananmen. Al suo centro, due stalloni rampanti si scontrano in un eterno duello, mentre altre statue dei guerrieri di Genghis Khan, riunite in un maestoso assembramento, sembrano lanciate in una folle cavalcata verso un invisibile nemico. E proprio di fronte all’atterrito sguardo, colossali ed insoliti monumenti: il Museo di Ordos, costruito nella foggia di un enorme roccia sfaccettata, o in altri termini origami dei titani. La biblioteca cittadina, la cui struttura è simile a quella di tre libri in fila su una mensola a gradoni. Strade larghe quaranta metri, nel frattempo, si irradiano a raggiera da un simile punto centrale. Ciascuna di esse potrebbe bastare ad ospitare una Parata Nazionale. Tutto è fuori scala, spropositato, nel distretto nuovo di Kangbashi, progetto finanziato a partire dal 2003 grazie alle ingenti finanze estratte da quello che viene tutt’ora definito “il Texas della Cina” per la sua ricchezza di carbone, petrolio e terre rare. Quando ci si rese conto che Ordos, città-prefettura fondata ai margini dell’omonimo deserto e ormai popolata da oltre 2 milioni di persone, non disponeva delle infrastrutture, degli spazi e soprattutto dell’acqua necessaria a sostenerle in un modo che potesse realmente definirsi, ideale. Almeno finché un tale nucleo di energia potenziale non fosse illuminato dalla luce degli appalti, e i lupi della speculazione edilizia lasciati a scatenarsi sul corpo di una simile…Opportunità.
Spostiamoci in avanti di 5 anni: i media internazionali, nella persona di una nota corrispondente locale del canale Al Jazeera, capitano “per caso” da queste parti, osservando con stupore l’esistenza di quella che sembra essere, a tutti gli effetti, una città pressoché vuota. Vasta quanto l’area di Pechino e costellata di grattacieli, con spazi adatti ad ospitare 5, 10, 20 volte l’effettiva popolazione di qualche migliaio appena, che sfreccia ai margini del campo visivo, percorrendo strade semi-vuote in lampo d’automobili brillanti sotto il sole. I marciapiedi, nel frattempo, sono totalmente vuoti. Le finestre nella notte, restano del tutto buie. L’interpretazione data dal pubblico di tali scene è tanto immediata, quanto pregna di significato: “La possente Cina, la facoltosa Cina, che negli ultimi anni ha modificato a sua immagine il meccanismo dell’economia globale, è ormai prossima allo scoppio della BOLLA. Per questo, costruisce cattedrali nel deserto.” È una narrativa così straordinariamente funzionale all’interpretazione tipica dei nostri tempi: tutto è motivato dal denaro, condizionato dall’assenza di esso, e/o nutrito fino all’estrema crescita bruciandone spropositate quantità. Questa infiorescenza fungo-edilizia tanto palesemente immotivata eppure fortemente voluta dal governo, non può avere naturalmente altra ragione d’esistenza, che la necessità di aumentare artificialmente il prodotto interno lordo, generando l’illusione di uno Yuan forte laddove la valuta in questione, molto presto, è destinata a sprofondare nell’inferno dell’iper-svalutazione. “Portandoci TUTTI…” Continuano i moderni giardinieri dell’apocalisse: “…Ad una fine inevitabile e ingloriosa!”
Eppure, eppure. Chi volesse approfondire maggiormente la questione, scoprirà qualcosa di apparentemente illogico: di ciascun appartamento su cui viene apposta la dicitura “in vendita” nel leggendario distretto periferico di Ordos, pressoché nessuno resta privo di un proprietario. La gente che vive nella città vecchia, in effetti, generalmente piuttosto facoltosa in forza del boom economico degli ultimi anni, non ha saputo trovare altro metodo d’investimento che acquistare proprietà nella presunta Metropoli Fantasma. Che dunque, quanto a lungo rimarrà tale? Forse la risposta non è poi così difficile da rintracciare. Almeno in linea di principio, l’avete udita in un celebre detto delle nostre parti: Roma non fu costruita in un giorno. Ma se lo fosse stata, ce ne sarebbero voluti comunque parecchi, a popolarla…

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Gli stupendi palazzi sui laghi del Rajasthan

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Fluttuando lievemente tra l’onde, dietro il collo del cigno di legno, compare sull’acqua un maestoso edificio. Decine di finestre, quattro grandi padiglioni al centro delle mura ed altrettanti chhatri (gazebo decorativi) più piccoli agli angoli, con sullo sfondo un filare d’alberi piantati nel misterioso giardino. Sito nel punto in cui l’acqua ed il cielo s’incontrano, poggiato sul proprio riflesso, l’imponente Jal Mahal (palazzo dell’Acqua) conduce lo sguardo e il pensiero ad un tempo passato, quando la dinastia dei re di Amer mandava qui i propri giovani per svagarsi, a caccia d’anatre e d’altre conquiste. Ma guardando più attentamente la vasta struttura, come un turista dovrebbe pur fare, ad un certo punto ci si rende conto di qualcosa di molto strano: sotto le antiche mura, nei fatti, non c’è alcun appezzamento di terra. È come se queste mura galleggiassero, in effetti, sull’acqua stessa. O in altri e più probabili termini, proseguissero al di sotto della superficie, per poggiare più o meno saldamente sullo stesso fondale sabbioso del lago Man Sagar.
È universale il senso di desiderio che l’uomo prova, dinnanzi a una gemma di preziosa, di raccoglierla ed ornarsi del suo splendore. Così come un famoso archeologo raccoglie l’antica moneta, e la trasporta fino al museo che riporta il suo nome, colui che scava per raccogliere risorse non può fare a meno, ad opera compiuta, di edificare un qualcosa che dichiari ai posteri la propria esistenza. Una meraviglia dei secoli. L’edificio che è il frutto, sopra ogni cosa, dell’ambiente e delle circostanze presenti. Per questo Jaipur, città capoluogo dell’omonimo distretto nello stato indiano del Rajasthan, che fu fondata nel 1728 dal Maharaja Sawai Jai Singh II, è oggi nota in modo particolare col nome di “Città Rosa” per il colore predominante dei propri edifici, costruiti principalmente nella pietra d’arenaria e quarziti che da sempre affioravano, invitanti, sul suolo selvaggio di questa regione. Mere curiosità geologiche, forse, nell’occhio dei semplici mercanti che di qui passavano verso regni più ricchi e allettanti, ma le fondamenta stesse, in attesa di essere edificate, per l’intenzione di un ambizioso governante alla ricerca di terre presso cui imprimere la propria visione del mondo. Nei secoli successivi, dunque, la città fu attentamente pianificata e gradualmente ingrandita, secondo un progetto planimetrico molto preciso e moderno, mentre mano a mano si arricchiva di luoghi di riferimento degni di essere per lo meno citati: il Jantar Mantar, un osservatorio stellare all’aperto, costruito sul modello di analoghe strutture a Delhi; l’Hawa Mahal, palazzo dei venti, così definito per le mille merlettature e finestre da cui le donne di corte potevano osservare, non viste, la gente comune sbrigava le proprie faccende in strada; il Chandra Mahal, l’enorme reggia del capo del clan rajput dei Kachwaha, con sette piani letteralmente pieni di dipinti, sculture, specchi sui muri e decorazioni floreali. Eppure niente di tutto questo, per certi versi, avrebbe mai potuto eguagliare il fascino silenzioso dell’edificio abbandonato nel Man Sagar.
L’origine esatta del Jal Mahal, in effetti, resta tutt’ora un mistero irrisolto. Si ritiene che sia stato costruito agli albori della dinastia, per far fronte alla tradizione per cui la corte della vicina Amer doveva viaggiare in estate, recandosi presso diversi luoghi e residenze dal notevole splendore e gli scopi più diversi, benché spesso legati alla caccia. Qui sostano, infatti, numerose specie di uccelli migratori, probabile fonte di piume e di carni straordinariamente pregiate. Mentre ciò che sappiamo per certo, invece, è la ragione dell’esistenza del lago stesso, in realtà un serbatoio artificiale creato secondo dei piani tutt’altro che insoliti in quest’area geografica, le cui carenti piogge non furono mai sufficienti a far fronte al fabbisogno agricolo della popolazione. Fu dunque determinato a seguito di una grave carestia, avvenuta nel 1596, che una diga sul fiume Darbhawati fosse la perfetta soluzione al problema, in quanto ne avrebbe deviato le acque in prossimità di una depressione nel terreno già naturalmente non permeabile, garantendo una riserva a cui attingere per tutto il corso della stagione più secca. Il fatto che lì fosse presente il pregiato palazzo dei trascorsi Maharaja di Amer, alquanto comprensibilmente, non fu considerato un problema del tutto insormontabile…

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Scalare la Grande Muraglia senza lasciare il fiume

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Settembre 2016: un grido riecheggia tra le ampie valli, le grandi foreste, le vaste pianure: “Finalmente…Finalmente è finita. Dopo vent’anni, dopo tutti quei danni. Eppure, mettetevi nei nostri panni! Energia infinita, per una Cina…Disinibita.” O per usare un termine meno colorito: libera finalmente, dalla necessità d’importare megawatt, potendo far fronte all’intero fabbisogno della sua popolazione di 1,3 miliardi di anime, una considerevole percentuale delle quali dotate di televisore, computer, condizionatore d’aria… Asciugacapelli, forno a microonde, brucia-incenso a corrente… Roba da far girare la testa a qualsiasi commissione d’approvvigionamento logistico, come talvolta ha necessità di prefigurarsi il conglomerato di capi d’azienda, nome in codice SASAC (State-owned Assets Supervision and Administration Commission) supervisionato dal governo centrale di Pechino e il più grande partito del mondo. Che ricevette l’incarico nel 1994, ancor prima di vedersi assegnato il ruolo istituzionario che oggi ricopre, di dare forma ad uno dei più noti e ponderosi sogni del gran timoniere Mao Zedong: costruire una diga, la più grande che il mondo avesse mai visto! Costruire una diga sul Fiume Blu. Quel corso d’acqua che oggi nessuno più chiama così, soprattutto perché le sue acque cariche di scorie hanno assunto tutt’altro colore, portando a preferire il termine più generico di Fiume Lungo, ovvero l’amato-odiato Yangtze. Amato perché costituisce, da tempo immemore, la fondamentale fonte d’irrigazione e di cibo per innumerevoli comunità agricole. Ed odiato in quanto, una volta ogni tot anni, ha da sempre avuto la problematica propensione a straripare, portandosi via tutti gli stambecchi, i cetrioli e le risaie trovate sul proprio corso. Già di per se un grave problema, anche senza considerare l’inestimabile perdita di vite umane.
Mettere assieme i fondi per quella che sarebbe diventata la diga delle Tre Gole, ovviamente, non fu cosa da poco. 2,3 Km di lunghezza, per 181 metri di altezza dalla sabbia granulosa del fondale, raggiunti grazie al sistema particolarmente ingombrante (ma più sicuro) della diga gravitazionale: essenzialmente un colossale trapezio di acciaio e cemento in cui ogni ideale sezione superiore a quella sottostante avrebbe potuto, in linea di principio, sostenere il peso di se stessa e dell’acqua a partire dal suo livello. Inoltre, andava considerato come il fiume costituisse una fondamentale via per gli scambi commerciali della regione, le cui alte montagne rendevano eccessivamente difficile uno spostamento di mezzi pesanti su strada. Esisteva infatti un progetto, risalente al remoto 1944, creato da un team d’ingegneri cinesi formati negli Stati Uniti, per costruire un sistema di chiuse successive oltre le quali le navi sarebbero state spostate grazie a delle potenti gru. Un pressoché fantascientifico, che per fortuna non fu mai realizzato. Si stimò comunque che il costo complessivo dell’opera, al raggiungimento dello stato operativo, avrebbe raggiunto i 180 miliardi di Yuan ovvero circa 27,6 miliardi di dollari, una cifra che sarebbe stata recuperata grazie alla produzione di energia nel giro di 10 anni. Come spesso capita quando si cercano informazioni in merito alla Cina moderna, non è facile comprendere tramite Internet se il budget sia stato in ultima analisi pienamente rispettato (improbabile) o meno, benché sia eccessivamente palese che la diga esiste, insiste e persiste, costituendo nei fatti la singola centrale elettrica più potente nella storia dell’uomo. 22.500 MW in totale, così ripartiti: 32 generatori principali da 700 MW ciascuno più due ausiliari per alimentare la diga stessa, da “soltanto” 70 MW ciascuno. Considerate che la più grande centrale nucleare che abbiamo mai avuto in Italia, quella di Caorso chiusa nel 1990, ne produceva in TOTALE, 860. In altri termini, ciascun singolo generatore della diga delle Tre Gole potrebbe bastare al fabbisogno di una grande città. Mentre tutti assieme, essi avrebbero fatto fronte, nel progetto originario, al 10% dell’intero consumo d’energia cinese. Un numero che si rivelò ben presto esagerato di oltre 9 volte, quando ci si rese conto di quanto fosse aumentato il consumo giornaliero dell’abitante medio a partire dal 1994.
Che cosa, dunque, ha permesso di apporre la parola fine all’eterno progetto, che del resto avrebbe già riguadagnato il suo intero costo nel 2013 stando alle fonti ufficiali? Se avete guardato il video di apertura, già lo saprete: il completamento dell’ascensore per barche originariamente previsto, sebbene con modalità molto diverse dall’epica visione degli ingegneri americanizzati. Stiamo comunque parlando, neanche a dirlo, della più imponente infrastruttura mai edificata a tal fine.

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