Tutto da rifare: la “mucca” più grande di Internet è completamente nera

L’avete visto, l’avete ammirato, l’avete relegato nell’angolo preposto della vostra memoria. Si può dunque ragionevolmente affermare che, entra la metà dell’ultima settimana di novembre, sia giunto a conclusione il ciclo mediatico di Knickers il bue australiano. A cui l’antonomasia dei titoli di giornale è giunta concedere un pronome femminile, ancor prima dell’intercorsa castrazione, mentre celebravano l’altezza impressionante di 1,94 metri, di poco insufficiente a garantirgli l’ambito titolo di bovino in assoluto più alto sotto il cielo, tutt’ora appartenente all’Italia*. E se stavate per stare per richiudere la pratica, e con essa il relativo cassetto dei super-quadrupedi da fattoria, aspettate ancora un attimo, poiché siamo dinnanzi al più tipico dei colpi di scena: lo scorso mercoledì, durante le registrazioni per una trasmissione della Tv australiana Global News, Karl Schoenrock e sua moglie Raelle della fattoria canadese di Kismet Creek (Manitoba) hanno provveduto a rimisurare in diretta Dozer, il loro “mucco” baio appartenente alla stessa razza frisona, ed ordine di dimensioni, del campione situato agli antipodi, ottenendo un risultato più che mai inaspettato: la prova innegabile che rispetto ai 192 centimetri risultanti dall’ultima volta, l’animale era cresciuto ancora, raggiungendone in effetti 198. In altri termini, ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato era successo. I 15 minuti di fama per Knickers: già finiti. Lunga vita al nuovo re muggente!
Ciò che occorre comprendere innanzi tutto, in relazione a dei simili quasi-record, è che molta della loro forza trainante deriva dal contesto, il periodo e la fortuna di chi sia, per primo, a spostare la notizia online. Ovvero nel caso dell’altro giorno, l’agenzia inglese di fama internazionale Reuters, causando un effetto domino attraverso le sezioni “curiosità” o “animali” delle principali testate giornalistiche, verso una trafila che avrebbe condotto il loro momentaneo beniamino verso gli allori dell’immaginario popolare entro la fine del week-end. Il che richiedeva, ovviamente, l’alterazione del piccolo dettaglio relativo al sesso dell’animale, in realtà assolutamente determinante per comprendere le ragioni e modalità delle sue eccezionali dimensioni. Fattore in effetti caratteristico di qualsiasi maschio castrato alla nascita, come vuole la prassi nell’industria zoologica al fine di perseguire un ampio ventaglio di obiettivi gastronomici, è il mancato arresto della crescita per il mutamento della situazione ormonale e relativa chiusura delle funzioni preposte a livello osseo, il che porta alla nascita di tali e tanti super-animali. Come l’effettivo detentore ancora oggi del record mondiale, il sopra menzionato bue bianco di razza chianina “Bellino” di Rotonda in provincia di Potenza, formalmente iscritto nel Guinness Book of Records con l’impressionante misura di 2,027 metri (benché per qualche ragione misteriosa e potenzialmente preoccupante, al momento il suo nome sia stato rimosso dal sito dell’organizzazione).
La cui storia effettivamente non possiamo dire di conoscere allo stato dei fatti attuali, essendo trascorsi in effetti ben otto anni dal conseguimento del record, ovvero circa la metà della vita di un bovino anche nella migliore delle ipotesi, mentre per quanto riguarda entrambi i  suo possibili successori, il Canadese Dozer e l’australiano Knickers, entrambi potrebbero raccontarne una più che mai conforme allo stereotipo del caso…

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Il pesce combattente, fiore d’acciaio dello stagno del Siam

Forma variopinta che si agita nel vento, la piuma sull’alto cimiero del cavaliere al galoppo in un torneo. E se… Giunti al momento culmine della tenzone, appena sfiorato dalla lancia del suo avversario, l’ornamento si staccasse per finire dentro il fiume più vicino e se… Colpita da un fulmine d’un tratto, questa cosa prendesse a muoversi di propria stessa iniziativa, nuotando e definendo un territorio e difendendolo come se ne andasse della propria stessa sopravvivenza. Oppure quella della sua prole. Qualcuno potrebbe giungere a definirla un’ipotesi mostruosa. Il Dr. Frankenstein, una vera fortuna! Ma per gli abitanti di un’areale particolarmente ampio situato nell’intero Sud-Est Asiatico, nient’altro che la metafora più utile a definire il rissoso, magnifico, iracondo Plā kạd (ปลากัด – Pesce combattente) noto nel mondo anglosassone col nome falsamente rassicurante di betta fish.
Tipico abitante degli acquari in funzione del suo aspetto notevolmente attraente, oppure delle minuscole bocce di vetro anche usate per i pesci rossi, in funzione della falsa diceria secondo cui si tratterebbe di un “animale adattabile” senza effettive necessità di uno spazio vitale legittimamente proporzionato. Questo perché in effetti, come appartenente alla famiglia degli anabantoidei (volgarmente detti gourami) il Betta splendens presenta il vantaggio evolutivo dell’organo chiamato labirinto, un’espansione epibranchiale che gli permette di assumere l’ossigeno attraverso la stessa aria respirata dagli umani. Un’adattamento utile a vivere nelle acque stagnanti, durante il prosciugamento delle stesse nel corso della primavera o l’estate inoltrata, dove usa la sua bocca rivolta verso l’alto per fagocitare principalmente gli insetti caduti dall’alto o le larve di zanzara. Mentre un tipo diverso di qualità, ricevuta in “dono” dagli umani, è la straordinaria varietà di livree e colori con cui può presentarsi questa singola specie, in una tipica dimostrazione di quello che può fare l’allevamento sistematico a scopo riproduttivo, dietro una selezione dei geni considerati arbitrariamente migliori. Il pesce combattente presenta infatti un rivestimento di scaglie parzialmente sovrapposte, che agisce come una sorta di corazza durante le frequenti schermaglie con gli altri membri della sua genìa, la cui caratteristica è quella di presentare una serie di pigmentazioni sovrapposte a strati. Ragion per cui l’obiettivo del broker biologico diventa quello di “spogliare” parzialmente una particolare linea ereditaria dell’una o l’altra tonalità, ottenendo facilmente creature con straordinarie mescolanze di rosso, giallo, blu e azzurro, talvolta mescolati tra loro e ulteriormente impreziositi da effetti di tipo iridescente.
Il risultato, ritengo, potrà essere ammirato a pieno grazie ai veri protagonisti del video sovrastante, vecchia e famosa registrazione dell’annuale Congresso Internazionale dei Betta, tenutosi in quell’anno sotto la supervisione della componente tedesca dell’omonima organizzazione, fondata nel 1966 negli Stati Uniti. A poco più di un secolo di distanza da quando il re della Thailandia, Rama III (regno: 1824 – 1851) ebbe per primo l’idea di supportare e promuovere l’allevamento selettivo di questi animali assai meno esteticamente appaganti in natura, del tutto ignorati dalle tradizioni più antiche relative a “pesci per collezionisti” di buona parte dell’Asia, come i ciclidi o le già citate carpe sottodimensionate dalla colorazione integralmente vermiglia. Il fatto che oggi vengano istintivamente associati a queste ultime, come versione più esteticamente affascinante della stessa espressione di vita subacquea tuttavia, non del resto ha mai cessato di causare problemi a questi piccoli guerrieri dello stagno…

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Il mistero tassonomico del procione vegetariano

“Ispettore, credo che la dinamica degli eventi risulti essere piuttosto chiara.” Lo sguardo del vice si alzò un’altra volta verso il soffitto ombroso della foresta, indicando il ramo dell’albero di ficus direttamente sopra il punto in cui si stava svolgendo l’indagine di polizia. “L’animaletto stava cogliendo un frutto, quando improvvisamente ha perso la presa ed è precipitato a terra, da circa 25 metri di altezza. L’urto l’ha ucciso causando la frattura immediata della sua colonna cervicale. Una morte rapida. E indolore.” La sua controparte, vice-capo di un distretto periferico di Sorocaba, nella regione di São Paulo, si portò allora pensierosamente la mano alla lunga barba, valutando la precisa dinamica dell’incidente. L’esemplare in età evidentemente avanzata di kinkajou (Potos flavus) giaceva perfettamente immobile, in una posizione del tutto innaturale: la testa rivolta verso l’alto e il quarto posteriore ruotato esattamente di 180 gradi, con le zampe allargate sul terreno a vaga imitazione di un disegno anatomico leonardesco. La lunga coda, nel frattempo, pareva disegnare un punto interrogativo. Tra le due manine anteriori, stranamente simili a quelle di una scimmia, stringeva ancora il fico fatale all’altezza del petto orsino, sul quale erano visibili  le tacche inflitte dal paio di canini eccezionalmente appuntiti della creatura. Mentre veniva a patto con le caratteristiche della scena, l’espressione perplessa del vice-capo lasciò il posto a un comprensibile senso di rammarico per la vetusta vittima (poteva avere almeno 35-40 anni) mentre estraeva dalla tasca della divisa la macchina fotografica per le realizzare le foto da inviare alla Protezione Animali brasiliana. Fu allora che a un tratto, notò qualcosa: la lingua dell’esemplare deceduto, lentamente, era fuoriuscita dal suo muso semi-aperto e scimmiesco, avvicinandosi alla sommità del frutto. “I-Ispettore…” Sentì esclamare il suo aiutante: “Possibile… Che?”
A questo mondo popolato d’infinite variazioni sul tema di ogni forma di vita immaginabile dalla mente umana, ci sono esseri snodati e ce ne sono di MOLTO snodati. Quindi, in una categoria a parte, rientra il dorato “lemure/gatto/leone” o cercoletto, noto in buona parte del Sudamerica per le sue scorribande arboricole notturne, la pacifica grazia e la capacità di appendersi a qualsiasi ramo, non importa quanto rigido, verticale, obliquo e/o oscillante. Un traguardo raggiunto tramite un’ampia serie di adattamenti evolutivi, non ultimo dei quali la capacità d’invertire completamente, come il galletto di una banderuola segnavento, ciascuna parte terminale dei propri arti, facendo presa con le affilate unghie sulla scivolosa corteccia delle sue giornate. Per non parlare poi del suo tronco, caratterizzato dalla stessa insolita capacità funzionale. Questo in funzione del fondamentale “quinto arto” di cui è dotato, la coda della lunghezza di 40-50 cm, pari al resto dell’animale, dalla muscolatura possente e capacità prensile simile a quello di un piccolo primate o di un’altra nostra vecchia conoscenza, il binturong (Arctictis b.) del Sud-Est asiatico, l’unico appartenente all’ordine dei carnivori che condivide la stessa propensione ad appendersi a testa in giù. Chi dovesse ritenere le due creature in qualche modo simili, dimensioni maggiorate a parte, potrebbe restare tuttavia sorpreso: la piccola controparte sudamericana non ha infatti alcunché a che vedere con i viverridi (genette, zibetti etc.) rientrando invece a pieno titolo nella famiglia dell’arcinoto ladro quadrupede, con tanto di mascherina e subdola coda a strisce, che funge da antonomasia scientifica per l’intera famiglia dei Procyonidae degli Stati Uniti.

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Questo fungo è l’oro afrodisiaco del sottosuolo tibetano

Ogni anno in primavera sulle distese erbose degli altopiani dell’Himalaya, nella regione al confine con la Cina di Dolpo, le femmine delle falene cosiddette fantasma si alzano in volo dopo il loro lungo stato larvale, iniziando un fine bombardamento a tappeto. Si tratta di uno dei processi riproduttivi più ad ampio spettro dell’intero regno animale, durante il quale un singolo esemplare può arrivare a disseminare fino a 29.000 capsule, ciascuna contenente il principio generativo di un futuro figlio della prateria. Alla schiusa della prossima generazione, quindi, i piccoli bruchi di Hepialidae strisciano per qualche minuto, prima che il loro istinto li conduca senza falla verso il basso, l’unica direzione che possono considerare sicura. Con mandibole specializzate smuovono la terra, nella piccola quantità necessaria ad eguagliare l’ingombro del proprio corpo. E laboriosamente, iniziano a nutrirsi della fitta rete di radici delle stesse piante sopra cui, in quel giorno fatidico, i loro genitori ebbero la fortuna di trovarsi l’un l’altro. Eppure nonostante i lunghi secoli d’evoluzione, che hanno garantito a un così furbo insetto di scavarsi  (a tutti gli effetti) una nicchia lontano dai pericoli del proprio ambiente, su 500 di questi bruchi, almeno i 4/5 andranno incontro a una fine particolarmente atroce. Non per l’opera di uccelli affamati, e neppure l’intervento di una qualche vespa predatrice. E neppure in forza degli artigli scavatori di un mammifero affamato, come topo, mustelide o felino. Bensì a causa, questa volta, del più inaspettato dei colpevoli del mondo naturale: quella creatura che non è un animale, minerale o vegetale; benché condivida, con questi ultimi, una significativa parte del suo ciclo vitale. Sto parlando di un fungo, chiaramente, cos’altro? L’Ophiocordyceps sinensis, parassita che negli anni a partire dal 1993, si è trasformato in una sorta di leggenda.
Tutto ebbe inizio con la serie di vittorie estremamente significative di tre ragazze provenienti dal Nord-Ovest della Cina ai campionati di atletica di Stuttgart, tenutosi ad agosto in Germania, dove la loro straordinaria performance nella corsa ebbe il risultato di lasciare nella polvere una nutrita schiera di favorite. Evento a seguito del quale, approfonditi test cautelativi per il doping non diedero alcun tipo di risultato positivo. Il loro coach, quindi, rispondendo con orgoglio alle numerose interviste, diventò famoso per una specifica frase: “Non c’è alcun segreto. Le mie ragazze sono più veloci delle altre solamente perché assumono ogni giorno una speciale zuppa energetica, composta di sangue di tartaruga e dōng chóng xià cǎo” (冬蟲夏草un composto lessicale che significa, letteralmente, “verme d’inverno, erba d’estate” eppure nessuno poté inizialmente credere, che dovesse trattarsi davvero di un ingrediente tanto insolito e particolare. Ovvero quello che nel suo paese viene chiamato yartsa gunbu o yarsagumba (due diverse traslitterazioni, stesso significato) ed è costituito in egual misura dai resti mummificati del bruco di falena fantasma e un’escrescenza vegetativa appartenente al succitato fungo, che attraverso un procedimento spietato l’ha infettato con le proprie spore, trasformando ciascun organo interno in nutrimento per il suo micelio. Qualcosa di orribile a descriversi, eppure proprio per questo, straordinariamente prezioso per quel mondo letteralmente impossibile da definire che è la medicina tradizionale d’Asia. Fin dagli scritti del dottore e lama tibetano Zurkhar Nyamnyi Dorje, che nel XV secolo descrisse il mistico rimedio nel suo testo “Un oceano di qualità afrodisiache” anticipando già di molti secoli l’espressione destinata a diventare una parola chiave contemporanea di “super-viagra tibetano”.

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