Elicotteri senza coda: un capitolo poco noto della storia dell’aviazione

Verso la fine della seconda guerra mondiale negli Stati Uniti, una particolare questione iniziò a diventare evidente per tutti coloro fossero coinvolti, anche soltanto in maniera passeggera, con lo sviluppo dei nuovi prototipi per l’aviazione: che i dispositivi ad ala rotante, dopo tutto, erano lì per restare che Igor Sikorsky, l’immigrato russo a capo dell’omonima compagnia, avrebbe condotto la marcia verso questo nuovo modo di vedere il volo. Decollare ed atterrare su un’imbarcazione? Trasportare rifornimenti verso il fronte di guerra? Volare a bassa quota alla ricerca di sommergibili? Tutto questo, e molto altro, diventava adesso possibile, al punto che ogni altro tentativo di applicare il concetto di STOL (decollo e atterraggio in uno spazio limitato) d’improvviso, appariva drammaticamente obsoleta. E con essi, le aziende che si erano dedicate primariamente a un tale obiettivo ingegneristico: tra tutte, la Kellett Autogiro Corporation, che a partire dagli anni ’30 aveva lavorato a diverse iterazioni del concetto di un piccolo aeromobile (800, 1.000 Kg al massimo) che come meccanismo per generare portanza faceva affidamento su un rotore, mentre un secondo lo spingeva innanzi verso la destinazione selezionata. Stiamo parlando, in gergo tecnico, del cosiddetto girocottero. Perché in quale modo, altrimenti, si potrebbe prevenire la rotazione fuori controllo del mezzo non appena finisce di staccarsi da terra? Devono sempre esserci DUE rotori perfettamente sincronizzati, grazie a un complesso sistema di alberi di trasmissione, il secondo dei quali ha la mansione di contrastare la coppia di quello principale.
Perciò il colpo di genio dell’uomo venuto dal freddo, tanto per usare uno stereotipo cinematografico, fu di concepire il secondo come una sorta di ventilatore sottodimensionato, posizionato a una distanza sufficiente perché il principio della leva gli permettesse di mantenere in assetto l’intero apparato. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, del rotore di coda. Ma se vi fermate un attimo a pensarci, tra tutte le configurazioni possibili per un giro/elicottero, quella che oggi consideriamo “normale” è senz’altro la meno efficiente. Quanta energia potenziale, nei fatti, viene letteralmente impiegata per il solo compito di contrastare la coppia del volo, quanta potenza impiegata per spingere di lato un qualcosa, piuttosto che in alto oppure in avanti! Questo avrebbe potuto dire un altra figura di spicco della storia quel brillante ingegnere di nome Anton Flettner, che purtroppo per il Comando Centrale, era nato dall’altra parte dell’Atlantico, nel paese nemico per eccellenza: la Germania nazista. E fu li che costui, sotto la supervisione e protezione speciale di Himmler (dopo tutto, apparteneva a una famiglia di discendenza ebraica) ricevette i fondi necessari a mettere in pratica la sua innovativa idea, che nessun altro avrebbe mai potuto concepire: mettere i due rotori l’uno a fianco dell’altro, entrambi puntati, più o meno, in direzione perpendicolare al suolo. Già, un approccio piuttosto sconveniente. Perché gli elicotteri non sono larghi, normalmente, svariate decine di metri e le pale rotanti, prima o poi, tendono a urtarsi l’una con l’altra, causando conseguenze non troppo difficili da immaginare. Se non che il suo Fl 282 “Kolibri”, destinato a diventare il primo elicottero prodotto in serie della storia, presentava una serie di espedienti concepiti espressamente al fine di evitare una simile problematica: in primo luogo, l’asse di rotazione delle pale era lievemente inclinato verso l’esterno. E poi, i rispettivi sistemi di trasmissione erano stati sincronizzati, affinché l’espressione della rispettiva potenza potesse trovare sfogo senza mettere a rischio l’integrità dell’apparecchio volante.
A questo punto, oggi penseremmo che un’idea tanto valida e innovativa sarebbe stata copiata puntualmente dai tecnici cinesi, pronti ad immetterla sul mercato ad un prezzo sensibilmente inferiore. Ma quelli erano gli anni del conflitto senza esclusione di colpi, quando ogni paese mirava ad accaparrarsi il benché minimo vantaggio in ambiente conflittuale e logistico, ivi compreso il potente e orgoglioso paese dello zio Sam. Nel 1944 quindi, la Kellett Autogiro Corporation produsse il suo primo sincrottero (vedi immagine e video d’apertura) un’interpretazione di nome XR-8 che pur assomigliando superficialmente all’originale, non era esattamente la stessa cosa…

Leggi tutto

Il catartico banchetto dei macachi thailandesi

Occorre prestare attenzione, mantenendo il giusto grado di rispetto, ogni qualvolta si pretende di avere a che fare con le scimmie. I primati più intelligenti del pianeta che a differenza di noi, si sono mantenuti vicini all’esistenza selvatica di una ferocia primordiale. Capaci di atti di grande altruismo. Ed assoluta, travolgente devastazione. Ebbe modo di scoprirlo il signore dei demoni Ravana, all’epoca degli antichi Dei, che per sua somma sfortuna aveva scelto di rapire la bella Sita, moglie del principe guerriero Rama. Il quale aveva un amico di nome Hanuman, che era due cose contemporaneamente: un imbattibile guerriero e un irsuto rappresentante della genìa degli alberi e delle banane. C’è una storia prima di tutto questo, che culmina con la liberazione da un maleficio, e la riscoperta da parte del signore di tutti i macachi dei poteri divini che gli spettavano per nascita dal giorno della creazione. Ma saltando questa parte, poiché non molto rilevante ai fini del nostro discorso, possiamo passare direttamente al giorno in cui Hanuman usò la stregoneria per diventare grande come una montagna, saltando il canale che divideva il subcontinente indiano dall’isola di Lanka, dove la consorte del suo principe era tenuta prigioniera. Per poi ridursi alle dimensioni di una formica eludendo i terribili Asura con le loro armi sovrumane, ed introdursi nel boschetto dove ella era tenuta prigioniera. Ovviamente, in attesa di essere costretta a sposare il suo crudele aguzzino. Quando Sita tuttavia, mostrando una notevole modestia alquanto fuori luogo dinnanzi all’amico, affermò che solo il suo amato marito avesse il diritto di salvarla, lo scimmiotto né fu comprensibilmente adirato e iniziò a distruggere il giardino con la sua incommensurabile possenza. Per poi gridare all’indirizzo di Ravana, nella sua alta torre: “Trema, malvagio, poiché Rama sta arrivando!” Soltanto per udire la sua risata cavernosa, poco prima di venire messo in catene dai potenti Asura, i quali avevano ricevuto l’ordine di legarlo e dare fuoco alla sua coda per punizione. Allora Hanuman, facendo ricorso ai poteri di cui era insignito, fece crescere l’appendice articolata in modo esponenziale, affinché i demoni che tentavano di avvolgerla in panni inumiditi d’olio non riuscissero a completare la loro mansione. A quel punto, una volta che gli era stato appiccato il fuoco, diventò di nuovo piccolo e sfuggì ai suoi legami, per balzare fuori da una finestra e fin sopra i tetti di Lanka. Segue scena semi-apocalittica in cui l’eroe animale, balzando in giro per la città-isola, dà fuoco alla maggior parte degli edifici con la sua coda infuocata, per poi assumere di nuovo le proporzioni di una montagna, e fare ritorno con un balzo in terra d’India. Il giorno e l’ora della grande battaglia finale per salvare Sita, da quel momento, sembravano sempre più drammaticamente vicini.
Questa è la storia alla base del culto più che millenario tangente alle discipline induiste, ma anche a quelle buddhiste, potendo essere considerato intrinseco di molte delle genti d’Asia, incluse quelle che abitano la parte Sud-Est di questo grande continente. Come possiamo facilmente desumere dai molti resti archeologici che hanno attraversato i secoli, ivi compresi i grandi templi fatti costruire nel XII secolo da Jayavarman VII, uno dei più grandi e venerati re della civiltà degli Khmer cambogiani. Il quale, durante le sue guerre contro il popolo dei Cham, aveva portato l’impero fino alla Thailandia, giungendo a costruire i templi della propria religione fino in prossimità dell’attuale capitale Bangkok. Luoghi come Phra Prang Sam Yot, il “Santuario delle tre cime” della città di Lopburi, che pur non avendo la maestosa immensità e precisione astronomica dei ben più celebri templi di Angkor, presentava anch’esso il suo corredo di notevoli statue, sculture e sale adibite alla venerazione degli antichi dei. Per un luogo che originariamente vedeva, si ritiene, la pratica del culto shivaita, per poi essere trasformato in un tempio dedicato a Buddha dalla maggioranza locale, senza tuttavia dimenticare il ruolo e l’importanza di una piccola figura scolpita in prossimità delle sue fondamenta: la raffigurazione, rozza ma accurata, di Hanuman la scimmia degli dei, intenta a sostenere la possente struttura edificata per oltrepassare le ere. Così i secoli passarono, ed altrettanto fecero le diverse organizzazioni del clero locale, lasciando una costante di questi luoghi solamente la devozione nei confronti di quell’antica genìa animale, a noi tanto simile eppure, così fondamentalmente interessata alle forme più basiche di guadagno personale. Così un poco alla volta, tra le scimmie della penisola iniziò a girare la voce che c’era solamente un luogo, in tutto il regno, in cui avrebbero ricevuto un trattamento degno del prestigio del loro antico eroe. E ben presto, accorsero in quantità letteralmente spropositata.
Fast-forward di quasi un migliaio d’anni, fino all’epoca relativamente recente 1989. Il proprietario di un hotel locale, popolare tra chi desiderava risiedere a distanza di pochi minuti da Bangkok pur rimanendo fuori dal suo cacofonico bailamme, desiderava incrementare la popolarità turistica del suo paese. Così decise, inizialmente soltanto a sue spese, che l’ultima domenica del mese di novembre sarebbe stata un giorno di festa, nel corso del quale le scimmie di Lopburi avrebbero ricevuto tutto quello che avevano sempre desiderato. In altri termini, montagne decorative di frutta, dolci, cibo spazzatura, bevande e altre delizie, del tipo che esse si erano abituate a rubare agli umani. Così ebbe origine l’usanza del buffet delle scimmie sacre, una delle ricorrenze più bizzarre, e stranamente affascinanti, di questa eclettica regione del mondo…

Leggi tutto

L’arte russa di combattere cadendo giù dalle scale

Ecco una scena che sembra prelevata direttamente da un film cult d’azione: Arkadiy Alexeevich Kadochnikov che scivola, fucile d’assalto alla mano, giù da un pianerottolo, presumibilmente sotto assedio dai nemici della madrepatria. Senza distogliere lo sguardo dai possibili punti di contatto, mette un piede oltre il primo degli scalini sul suo sentiero, quindi compie un altro passo ed a quel punto, pare eclissarsi nell’aria. Come un ninja giapponese, egli ha misurato l’interrelazione tra il suo peso corporeo e la gravità terrestre, computando la maniera più efficiente al fine di raggiungere la meta: pancia sotto, rotazione, schiena trasformata in una slitta, gambe piegate ad angolo retto e braccia protese verso l’alto. Testa in avanti senza un briciolo di paura, virando a due centimetri dall’elemento verticale della balaustra. Nessuno può colpirlo. Nessuno può fermarlo. Come attuale capo della scuola ci combattimento appartenuta al padre, possiede l’assoluta sicurezza di un suo Systema.
Anche nell’ottica del più assoluto pacifismo, nella ragionevolezza e pacatezza della mentalità contemporanea, è impossibile negare che la guerra ideale possegga un certo grado di eleganza. Soldati di professione addestrati a gestire situazioni di conflitto, che si affrontano a viso aperto l’uno di fronte all’altro, le uniformi scintillanti, le armi che fendono l’aria, emettendo sibili dal suono sincopato. Ma quanto spesso, davvero, le cose si svolgono in tale maniera? Quanto spesso ci s’incontra nell’equivalenza sostanziale di un’arena, in cui tutto appare chiaro e controllato, senza l’opportunità di agire fuori dagli schemi, per accaparrarsi un qualche tipo di vantaggio? Esistono essenzialmente, a questo mondo, due tipologie di arti marziali: quelle create come uno sport, per l’accrescimento filosofico del proprio modo d’interfacciarsi con gli altri: Judo, Karate, Taekwondo. Ed altre concepite, in modo mutualmente esclusivo, per gettare il proprio avversario nella polvere, possibilmente nella sicurezza che non possa rialzarsi troppo presto. Sto parlando, come forse già saprete, di tecniche come il Krav Maga, il Muay Boran o il Sambo nella versione praticata dagli Spetsnaz, le pericolose forze speciali russe.  Ma anche degli innumerevoli accorgimenti senza nome, nati dalla semplice necessità dei casi, e tramandati all’interno delle unità di combattimento di ogni nazionalità e bandiera. Come immobilizzare, come sfuggire alla cattura, come sfruttare l’efficacia di una baionetta, il modo per gestire l’infinita pletora degli imprevisti di una situazione di battaglia. Eppure, c’è un imprescindibile limite a quanti approcci possa prepararsi sfruttare, persino il più abile guerriero, mentre si trova in bilico in una situazione di vita o di morte.  “Fornite a un’uomo una tecnica, lui potrà difendersi da un’altra tecnica. Ma dategli un concetto, e potrà sconfiggerne 10.000.” Non è realmente chiaro se questa citazione appartenga a Kadochnikov padre, Aleksey Alekseyevich, il canuto protagonista d’innumerevoli video risalenti all’epoca della guerra fredda, in cui gli agenti sovietici venivano mostrati la meglio delle loro condizioni fisiche, mentre si sfidavano l’un l’altro nel sorpassare i propri limiti, mulinando in aria ogni sorta di arma informale o frutto d’improvvisazione situazionale. Eppure è indubbio che si tratti di un’espressione largamente descrittiva nei confronti di ciò che il “nonno”, come viene tutt’ora chiamato dai suoi seguaci, ha saputo elaborare e proporre nel corso della sua carriera d’istruttore militare. Iniziata soltanto negli anni ’80, dopo una gioventù trascorsa facendo il meccanico aeronautico, e gli anni investiti frequentando il Politecnico di Krasnodar, per apprendere i concetti che avrebbe, in seguito, applicato nel Systema. Già perché l’arte marziale di costui, lungi dall’essere un’accozzaglia di approcci istintivi, è fondata su precise ed inflessibili regole, che il praticante è chiamato ad applicare in base alle esigenze di ogni specifico momento.
Ovvero per quanto ci è dato di comprendere, primariamente grazie a una vecchia intervista del suo allievo americano Matthew Powell, essa si basa principalmente sul concetto fisico delle macchine semplici: leve, verricelli, paranchi, pulegge, argani. Nient’altro che punti nei quali, determinate condizioni vigenti permettono alle forze in gioco di trasformarsi e incrementare la loro portata, molto spesso con un immediato guadagno da parte di chi sa comprendere il funzionamento. Ed a quanto pare il fondatore ormai veterano, simili concetti li conosceva in maniera estremamente approfondita. Se è vero che il suo nome, oggi, risuona della stima d’innumerevoli anni di gloria…

Leggi tutto

Il magico bicchiere che sostituisce le previsioni del tempo

Si tratta di uno degli scherzi più famosi nel mondo della meteorologia: il sasso che indica le condizioni atmosferiche. Generalmente appeso a un filo, talvolta dinnanzi ad un pub inglese e accompagnato da una targa che ne descrive l’impiego… Se il sasso è bagnato vuol dire che piove. Se il sasso è bianco, sta nevicando. Non riuscite a vederlo? Nebbia piuttosto intensa. Se invece è caldo, vuol dire che c’è il sole. Quando nessun sasso è presente, di recente è passato un tornado. E così via. Nella versione tedesca, d’altra parte, s’impiega una corda, talvolta definita “la coda dell’asino” e conseguentemente posizionata nel punto corrispondente su un’illustrazione dell’equino, voltato di spalle. L’associazione con le bevande alcoliche è generalmente piuttosto stretta, poiché si ritiene che soltanto un ubriaco possa prendere sul serio simili strumenti, effettuando “consultazioni” formalmente precise e traendo le debite conclusioni del caso. Ciò che egli spesso non può sapere, tuttavia, come del resto molti di noi, è che questo approccio per così dire empirico alla meteorologia ha in realtà origini ben precise, mirate a prendersi gioco di un antico sistema, risalente almeno al XVIII secolo, benché nessuno ne conosca effettivamente l’origine geografica precisa. Per non parlare dell’inventore. Motivo per cui esso viene identificato in maniera inesatta come “Barometro FitzRoy” dal cognome del nobile minore e capitano, successivamente ammiraglio della marina inglese Robert, che fu alla guida a partire dal 1828 dei viaggi scientifici della HMS Beagle. La nave famosa per aver condotto Charles Darwin verso il Sud America e da lì, fino l’elaborazione della sua teoria delle specie. Così mentre il grande scienziato annotava le sue scoperte nel ponderoso taccuino destinato a fare la storia del metodo scientifico, caso vuole che il comandante fosse solito ritirarsi nella sua cabina, dove anch’egli era intento a porre le basi di un testo che avrebbe cambiato negli anni a seguire il corso stesso della sua vita. E nel contempo, quello di molti altri: “Il libro del tempo [atmosferico]” occupato in buona parte dalle sue osservazioni sul funzionamento di svariate tipologie di barometro, tra cui quello da lui preferito, in sostanza nient’altro che un semplice barattolo sigillato ricolmo di un liquido misterioso.
Notazioni del tutto simile a quelle riportate da quest’uomo, oggi, ricompaiono nei bigliettini allegati ai prodotti di siti di curiosità scientifiche e gadget, per indicare il corretto impiego dell’apparato. La somiglianza con la teoria del sasso o della coda dell’asino appare davvero lampante! Tranne che per l’associazione con l’immediato futuro, piuttosto che il presente: se il liquido contenuto all’interno appare limpido, vuol dire che uscirà presto il sole. Se invece si opacizza, nubi fosche si addensano all’orizzonte, con l’estremo di un temporale nel caso in cui perda del tutto la trasparenza. Piccole particelle nel brodo di sospensione lasciano presagire gelo. Talvolta, la lettura di un tale barometro può trasformarsi in una vera e propria arte, con precipitazioni sul fondo immediatamente associate alla neve, o filamenti prossimi alla superficie, associati all’insorgere di situazioni ventose. Il che potrebbe ragionevolmente sembrare un’associazione fantastica fondata pienamente sul nulla: dopo tutto, che connessione potrebbe mai esserci tra i mutamenti dell’atmosfera e il contenuto di un barattolo sigillato? Se non che in qualche maniera, le mutazioni effettivamente avvengono, giorno dopo giorno, e questo per una ragione estremamente precisa. Sto parlando del contenuto dello stesso, tutto, fuorché ordinario. Fu lo stesso FitzRoy, per primo, a metterne nero su bianco la “ricetta”: mezza oncia di cloruro di ammonio, mezza di nitrato di potassio, un’oncia di alcol puro, due once di acqua distillata. E per finire, l’ingrediente primario: una quantità variabile di canfora, sostanza di origine vegetale famosa per l’impiego nel campo dei cosmetici ed il suo odore intenso, nonché la sua propensione chimica, tipica dei chetoni, a cristallizzarsi. E sarà proprio questo in effetti, il fenomeno a cui ci troveremo ad assistere, ogni qualvolta si verifica un cambiamento nel contenuto della bottiglia, secondo un catalogo di possibilità che scaturisce dall’osservazione diretta, lungo un periodo sufficientemente esteso. Molti studiosi del clima, a partire da quell’era remota, si sono applicati nell’approfondimento di questo meccanismo ancora in parte misterioso, giungendo a conclusioni discordanti, e generalmente piuttosto deludenti sull’effettiva affidabilità del barometro, definito dal capitano stormglass (bicchiere della tempesta). Ma a nessuno di essi è mai davvero venuto in mente di mettere in dubbio dell’importanza che avrebbe avuto, al ritorno della HMS Beagle, una simile invenzione nel far progredire di molti anni la scienza a quell’epoca altamente informale delle previsioni del tempo…

Leggi tutto