Non puoi intrecciare la paglia di riso in un agglomerato a forma di parallelepipedo, poi prendere quel blocco e ripulirlo dalle impurità, riscaldarlo al calor rosso. Un tale ammasso di materia vegetale andrebbe molto presto a fuoco. Neanche puoi, del resto, forgiarlo e piegarlo 100, 1000 volte, ricercando l’ottenimento di un tutt’uno solido, flessibile allo stesso tempo, celebrato nei testi dei guerrieri per più di 900 anni. E neppure, questo ipotetico mucchio di sterpaglie, puoi raffreddarlo lentamente, tramite l’uso di argille particolari, allo scopo di favorirne la tempra più solida e tagliente. Certi materiali sono complessi, nobili, naturalmente poderosi. Altri, come il tatami, basta bagnarli e arrotolarli, perché diano… Il massimo. Cosa che, alquanto stranamente, può bastare a vincere più d’una battaglia, tra quelle all’ordine del giorno.
A guardare, in effetti, un video come questo, ritraente una moderna sessione d’allenamento nelle arti marziali, i prosaici tappetini parrebbero piuttosto fatti d’invulnerabile titanio, di metallo-boruro, di cristallo-quarzite, d’unobtanio/anti-materia, per quanto resistono al filo tagliente di un alto numero d’inefficienti staffilate, da parte di questi giovani adepti della spada giapponese. Molto bene lo sapevano, gli artigiani pavimentisti giapponesi. Che passando per le risaie, raccoglievano questi presunti scarti, la parte non commestibile delle piante semi-sommerse, li spianavano, intrecciandoli, quindi li legavano tra loro, attraverso l’uso di una corda. Suolo delle case dei potenti, sarebbero idealmente diventati, simbolo di status e di ricchezza. Oppure questo: vittime del colpo di una spada, durante la messa in pratica del tameshigiri, o il taglio della prova. Cambiano i valori, le regole del sostrato e del contesto. Però la natura umana resta una costante, al punto che ci sono, adesso come allora, persone con congrue risorse da investire nella qualità.
Il signore del feudo, governatore di un intero clan, pretendeva di possedere una spada ben diversa dalle altre; in grado di tagliare meglio, uccidere di più. Per questo, sopra l’elsa, prima di pagare il fabbro-monaco “depositario di una tradizione millenaria” (il quale, di sicuro, non lavorava a buon mercato) controllava, sopra l’elsa (nakago), che ci fosse una scritta come questa: codesta lama ha tagliato cinque, sei, sette corpi umani. Sincerandosi accuratamente, tramite l’accertamento di tale dicitura, che l’arma non fosse vergine, ma già bagnata. Del sangue dei morti, o dei viventi.
storia
L’argenteo pennuto metallico d’Inghilterra
Passa il tempo, si compiono i gesti, ripetitivi. Mangiando, dormendo, tutti gli esseri sembrano uguali. Le stagioni corrono, inesorabili, come lancette di un orologio. Meccanismi del mondo animale, pennuti. L’identità è nei dettagli: di uccelli che cantano, volano? Ne abbiamo milioni. Splendidi e variopinti, qualche migliaio. D’argento e d’oro, bé, se ne vedono pochi. Come questi, nessuno. Il cigno d’argento del museo di Bowes vive, per così dire, dentro un alto castello. Vi giunse, attraverso le alterne vie aeree del fato, nel 1872. Al suo nido, giorno dopo giorno, accorrono centinaia di esseri umani, per trarne un ricordo, una foto, il video di un incredibile evento. Lui, con eleganza, flette il suo collo. Si risistema le penne. Mangia un pesce. Sempre lo stesso! Vanesio, magnifico cigno. Sei soltanto un automa, non potrai digerirlo…
Nel 1869, John Bowes, figlio del decimo Earl di Strathmore, e sua moglie, la contessa di Montalbo, misero in atto un enorme progetto. La costruzione di un museo delle meraviglie, con gallerie d’arte, sculture, vasti giardini e luoghi di ristoro. Investirono, secondo una stima, più di 100.000 sterline, con l’obiettivo dichiarato di far comparire magicamente, nella campagna inglese della contea di Durham, l’anacronismo di una reggia francese del Primo Impero. Tra quelle mura, progettate dall’architetto Jules Pellechet, avrebbero posto tesori di ogni tipo, dipinti e gioielli. Le manifestazioni fisiche dell’ineffabile mondo dell’arte. Questa, avevano deciso, sarebbe stata la loro eredità al mondo: un’enorme finestra sull’infinito. Come spesso capita, non mancarono le critiche. Nell’orgogliosa Inghilterra vittoriana, si pensava che l’edificio fosse inappropriato, mancasse di una giusta identità nazionale. Persino dalla lontana Germania, Nikolaus Bernhard, studioso d’arte coévo, lo definì: “Sproporzionato, più simile al municipio di un paesino della Provenza”. I tempi si allungarono, al punto che 20 anni dopo, purtroppo, la costruzione risultava ancora incompleta, chiusa al suo auspicato pubblico. I due mecenati, ormai anziani, passarono oltre. Non prima, tuttavia, di aver disseminato le vaste sale di oltre 800 dipinti, varie cose e…Almeno un uccello. Il cigno d’argento di James Cox. Ancora oggi, alle 14:00 di ogni giorno, risuona il suo canto. E quel singolo, dannato pesce nuota in un fiume di vetro, inespugnato.
Suonatore del flauto che non c’è
Distruggi tutto, annienta te stesso e raggiungi l’illuminazione. Il nulla è per sua natura un concetto ineffabile, che trascende il raziocinio umano; se c’è lui, sparisce anche la mente. E com’è possibile, dunque, che tanti saggi l’abbiano inseguito così a lungo, fondando templi, sette buddhiste, tracciando col pennello immagini e poesie? Ebbene l’astrazione filosofica è logica, ma c’è dell’altro. Serve pure un sentimento, per poter dirsi veramente saggi. Come quello provocato dalla musica, ad esempio. Mitsuhiro Mori è il giovane giapponese che ha perfezionato all’inverosimile la tecnica del flauto manuale, riuscendo a modulare note complesse col solo movimento delle sue dieci agili dita. Le tre diverse esecuzioni che effettua in questo video, tra cui figura anche il suo componimento originale Ancora la Neve, si basano sul fascino moderno di una trovata buffa e originale, intrinsicamente perfetta per la diffusione attraverso gli strumenti digitali del moderno web. Potrebbe risultare interessante, tuttavia, anche una chiave di lettura più allegorica, che si richiami agli usi e costumi del suo antichissimo paese. Basta un attimo, per trovarla.
Il flauto dello Zen, tradizionalmente, è da sempre legato al concetto dell’annientamento. Nel settimo secolo dopo Cristo, in Cina visse un gran maestro, forse fra i pochi che seppero realizzare quel concetto di cui parlavo in apertura, l’astrazione della non esistenza pura. Il suo nome era Puhua, ma i suoi discepoli d’oltremare, monaci viaggianti del Giappone, lo chiamavano Fuke. Sui suoi insegnamenti avevano fondato un’intera scuola di pensiero, la Fuke-shū, che vantava anche un prezioso codice procedurale. Chi sceglieva di seguirlo, avrebbe vagabondato per tutto il paese, chiedendo l’elemosina, al fine di garantirsi la più basilare sussistenza e niente più. E perseguendo questa missione, mentre camminava sulla lunga via del Tōkaidō, oppure in piedi, magari ai margini della stessa, l’aspirante avrebbe suonato quel particolare flauto di bambù, detto shakuhachi. Così, costoro si erano proposti di raggiungere la buddhità: attraverso una tipologia di meditazione che viene detta suizen (soffiante), in contrapposizione con quella precedente dello zazen (da seduti). E benché fosse ritenuto, giustamente, che la musica potesse condurre a uno stato di coscienza superiore, soltanto questo non fu giudicato sufficiente. Occorreva, prima, cancellarsi dal mondo del sensibile, ridurre grandemente la propria individualità. Per questo, gli adepti del Fuke-shū, che venivano chiamati komusō (monaci del nulla), portavano una cesta di vimini sulla testa, per nascondere la loro identità. Da essa spuntava soltanto quella cosa: il flauto. Se mancavi di considerarlo, spariva la persona, tutto quanto. E se invece fosse diventato invisibile lo strumento, lasciando il solo suonatore? Impossibile pensarlo, a quei tempi. Non avevano YouTube.
Il drago robotico più grande del mondo
Ci sono diversi modi per mantenere una tradizione; forse il più suggestivo è questo. Nel comune tedesco di Furth Im Wald, al confine con la Repubblica Ceca, da cinque secoli a questa parte si tiene la processione, festa e rappresentazione teatrale del Drachenstich, l’Uccisione del Drago. Le caratteristiche del programma parlano da se: 1500 persone coinvolte tra attori, figuranti e organizzatori. 750 bambini che sfilano in variopinti abiti d’epoca. 200 cavalli seguiti da quasi altrettanti carri storici, non allegorici. Tornei e accurate ricostruzioni di giostre medievali. E poi…Lui. Un robot animatronico, che sarebbe degno di un film de Il Signore degli Anelli non fosse che oggi, in quel campo, si fa tutto al computer. Che quasi ricorderebbe una macchina teatrale creata per il ciclo operistico dei Nibelunghi, se non per quel piccolo dettaglio. Ovvero l’essenziale capacità di muoversi liberamente attraverso un intero paese, camminando su quattro realistiche zampe. La sua performance, infatti, si svolge all’aperto. Tradinno è il dragone verdeserpe, scaglioso, sputafuoco, cornuto (e mazziato) del peso importante di 11 tonnellate, che dal 2007 ha preso il posto di quattro attori in costume, diventando il protagonista indiscusso di una delle più antiche rappresentazione folkloristiche di tutto il centro Europa. Piuttosto che da una caverna della Foresta Nera, Tradinno, il cui nome sarebbe un’amalgama tra “tradizione” e “innovazione”, proviene dalle officine tecnologiche della Zollner, rinomata compagnia di prototipazione e messa in opera meccatronica, con quartier generale nel pieno mezzo del land della Baviera. È frutto dell’appassionata progettazione da parte di 15 massimi esperti del settore, che dentro ci hanno messo di tutto. Nove unità di controllo modulare, ciascuna dotata di due processori DSP; un motore turbo-diesel da 2.0 lt, con la capacità di erogare 80Kw di potenza, più 10 di energia elettrica; due poderosi circuiti pneumatici, finalizzati alla deambulazione; l’organo fiammeggiante, che poi sarebbe una bombola del gas e l’essenziale sistema “di sanguinamento” con 80 litri di acqua colorata, da trafiggere all’occorrenza, con conseguente inzaccheramento dell’eroe di turno, fra il tripudio di tutti i presenti. Il drago è telecomandato.
Un conto è creare sistemi tecnici di supporto all’atmosfera di un evento, ma qui si è andato davvero oltre; un mostro simile, così perfettamente funzionale, toglie la voglia di fare gli eroi. Chi non vorrebbe, piuttosto, cavalcarlo?