Il dilemma del cavolo e del cane

Maymo Vegetables

E del broccolo e della banana. Del porro, della rutabaga e della salvia. O della mezza melanzana. Può il cane, divorare i peperoni? Il limone da cui prende il suo colore? La scaròla, un pezzo di radicchio, lo spinacio e la biancastra foglia dell’indivia belga? Certamente, che domande. Se gli piace, addirittura. Ma non tutto fa verdura: ogni valida primizia della terra, nell’ultimo video di Maymo “The Cute Dog”, viene posta sulla cima della sua graziosa testa e soppesato. Affinché i principi maggiormente nutritivi di ciascuna cosa possano acquisirsi per osmosi, dallo sguardo di quel muso bianco e un pò rosato. Carico di un bizzarro sentimento, della devozione e di pazienza, soprattutto quest’ultima, nonostante le bizzarre imposizioni del padrone, in dura marcia verso la celebrità. Sembra di sentirlo articolare una parola, a un tale cane…A me, ancora! (Di salvezza).
È del resto un lemon-beagle, questo, che ben conosce le ragioni della fama digitale: ogni settimana, sospinto dall’aspettativa di ricevere una manciata di biscotti, si lascia coinvolgere in diverse situazioni. Molto differenti dalla vita quotidiana, l’insegna di un quadrupede comune. Ti sorprenderò. Disse l’uomo senza volto al suo migliore amico: c’è un continuo crescere dei presupposti, tra lo tsunami di palline, l’incontro con lo squalo-dirigibile, gli abiti ridicoli e le corna di renna e così via. Che, per l’appunto, mai furono particolari come questi dell’ultimo exploit, né tanto carichi di controsensi. In quanto è noto che, nonostante sia teoricamente onnivoro, il cane non gradisce le verdure. Nella ciotola, né tantomeno innanzi ai propri occhi, come capita coi cuccioli, posti a confronto con oggetti poco adatti ai loro teneri palati. Ma che lo sembrano, dal primo sguardo e dall’odore. E chi non ha presente la classica scena del cagnolino, oppure cagnolone mai cresciuto, che saltella intorno ad un limone, ad un fagiolo o una noce dentro il guscio. Devo…mangiare…ma?! Il nesso ultimo di un irreale show: dare prova finalmente, in barba a tutti i cani militari sottoposti a duri addestramenti, che l’unica salsiccia che profuma è quella della mente. Ed è inutile, invero, sventolarla come prova irresistibile d’autocontrollo. Il cane vuole, sopra ogni altra cosa, che sia soddisfatto il suo padrone. Non la patria, né la divisa o il medaglione del suo battaglione. Soltanto quando ciò è impossibile, talune volte pensa a se. [Bark, bark!] E così via, cocomero e carota. Quanto dura, dannazione? Cento, CENTO tra frutti e verdure, dall’A di asparago alla Z di zucchina, l’aureo cane ha ricevuto, alla media di uno per secondo, collocati attraverso alcuni lunghi mesi di lavoro, tentativi e la ricerca, lo sviluppo di particolari soluzioni. Alcuni degli oggetti alimentari in questione, troppo tondeggianti per poter trovare posto sopra il cranico emisfero della belva, sono stati lavorati come fossero cappelli. Da una mano sempre posta fuori della scena, affinché sia chiaro chi è il protagonista: solamente lo stupendo tavolino, vivido e vivente, ma pacifico, latente. Che parrà, di volta in volta, un pompiere o un poliziotto, il centrotavola di un pranzo luculliano. Piuttosto che l’improbabile ballerino, di un pomeriggio a perder peli, presso il carnevale di Rio de Janeiro. Quanta calma, ci dimostra. E quale pace d’animo assoluta. Finché, dopo un lungo pazientare, non riceve in dono un cavolo indifeso, da fagocitare:

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Gli stregoni del projection mapping giapponese

PICS Onna Nobunaga

Nel 58° anno di regno dell’Imperatore Suinin, tradizionalmente corrispondente al 29 d.C, un cane sbranò uno dei tassi della specie detta muinin, presso il villaggio di Kuwada, nell’ancestrale Tamba. Siamo, qualora dovesse interessarvi, pressapoco nell’odierna prefettura di Hyōgo, presso la sezione sud-occidentale del Kansai. Tale bestia selvatica, ovviamente, era una creatura magica in grado di mutare forma a piacimento – non che questo artificio sia servito a qualche cosa, in un tale caso dell’improvvido destino. Né ci è nota, del resto, la razza del carnefice canino: sarà stato forse un kaitoraken, cacciatore indipendente dalle strisce simili a una tigre. O magari il fido akita, difensore antico delle case contadine. Piuttosto che il minuto ma agguerrito shiba, dal rossiccio ghigno, carico di sottintesi… Poco importa. Trascorso un pomeriggio di angoscioso senso del rimpianto, il proprietario dell’animale, un tale di nome Mikaso, si decise infine a macellare la pelosa vittima delle pesanti circostanze. Ritrovando, con sua estrema sorpresa, un corposo calcolo di giada nello stomaco della creatura. Tale oggetto era grande all’incirca, per usare un anacronistico termine di paragone (benché assai diffuso, vista l’estrema adeguatezza) quanto… Una palla da baseball. E aveva la forma esatta di una virgola, con un foro nella parte larga del suo ghirigoro. Tale miracolo della natura, parimenti a un frutto generato dalla sommità di un albero divino, venne presto dato in dono al saggio governante Suinin, discendente della relativa Dea. Che portatolo su un monte, vi eresse attorno un santuario, il tempio shinto di Isonokami. Dove si dice che sia ancora custodita tale sacro tesoro, il venerando magatama.
Tra i tre emblemi della nazione giapponese, che includono la spada biforcuta della forza e lo specchio bronzeo della saggezza, nessuno è misterioso quanto quello strano manufatto, continuamente riprodotto, in mille forme e dimensioni, nei tumuli preistorici Kofun. Tombe di nobili, guerrieri e generali, la cui storia è andata persa tra le sabbie di un’arena troppo antica, priva di testimonianze scritte o durature. A parte le leggende come questa… Ma presente, in recondita potenza, tra le regioni occulte dell’immaginifica realtà. Ricostruite, ai nostri giorni, grazie all’uso del moderno proiettore?  Basti soppesare questo fatto: nella gemma c’era un buco. Dietro ad essa, fin dalle origini del mondo, la figura della suprema signora del Sole, Amaterasu, fonte di ogni lucido barlume di sapienza. A metterci davanti un libro, lei sarebbe presto diventata una candela, utile ad espandere la mente anche di notte. Ma collegaci un computer, per vedere cose che…
P.I.C.S.Co è l’azienda mediatica di Tokyo, qui egregiamente rappresentata dal creativo e direttore tecnico Nobumichi Asai, che si specializza in una recente e straordinaria forma d’arte, molto usata in campo pubblicitario: il projection mapping, che consiste nella mappatura di una superficie tridimensionale, sia questa un palcoscenico, un palazzo, un antico monumento (persino il volto umano) e proiettarvi sopra delle immagini create grazie agli strumenti digitali. Qualcuno ricorderà l’impiego che ne aveva fatto l’onnipresente multinazionale Sony in quel di Roma, appena l’anno scorso, per lanciare la PS4 usando le utilissime mura di Castel Sant’Angelo. Le alternative sono innumerevoli: persino un paravento, così facendo, può trasformarsi anch’esso in un castello. Un kimono nella veste fiammeggiante di un signore degli Inferi, finalmente rivelati al mondo della superficie. O persino di una signora, perché no, avvolta da un turbine di petali e di sangue rosa-fuchsia. Vedi la risoluta protagonista di questo memorabile segmento, realizzato per la promozione del recente serial televisivo Onna Nobunaga, in cui il massimo conquistatore giapponese, che aveva nome Oda e visse nel XVI secolo, veniva trasformato nella sua ipotetica sorella, qui l’unica figlia dell’anziano patriarca Nobuhide. Un interessante gioco sulle implicazioni della storia pre-moderna, questo, che trovava modo di concretizzarsi nell’onnipresente “regola 63” del web: “Per ogni personaggio di sesso maschile, qualcuno avrà probabilmente ipotizzato una versione al femminile.” A meno che costei non fosse, in realtà, solamente un tasso mutaforma della specie muinin. Chi lo sa.

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Porto a spasso il pappagallo con la moto

Macaw Bike 2

Quest’uomo comprende la reale potenzialità dell’orgoglioso e variopinto Ara ararauna, il tipico ornamento di un salotto degli amanti degli uccelli, sopra trespoli monumentali e circondati dallo sterco. Novanta centimetri di lunghezza. Oltre un metro di apertura alare. Eppure, tutto quello che può fare è dire il nome del padrone? Chiedere un bramato e piccolo croccantino? Da sgranocchiare, pian pianino, con quel becco ricurvo in grado di sollevare facilmente una valigia bella piena? Piuttosto che imbarcarla e andare in viaggio, come niente fosse, oltre le regioni del domestico languìre… Per giungere alla fine, sui limiti dell’orizzonte. Tra i pietrosi monti di una campagna del Mediterraneo, a pochi metri dell’asfalto e innanzi ai fari di un veloce motociclo, da cui si ode quel richiamo un po’ insistente: “Halŏ? Halŏ?” Non è un videogioco ma un destino di scoperta. Per segnare il tempo della scena o della scienza: è in fondo questo, uno stupendo esperimento. Che dimostra come, ebbene si, è possibile portarsi in giro il proprio uccello prediletto. Senza l’uso del guinzaglio, né di differenti imbracature. Purché ci s’ingegni per volare, pressapoco come lui.
Siamo presso la spiaggia di Kolimbithres, nel bel mezzo del barbagliante Mar Egeo, presso l’isola di Paros. Tra le Cicladi, probabilmente la migliore. E l’autore del video, nonché proprietario del protagonista, si fa definire su Internet con l’handle Waterskyzone. Un nome che suggerisce una passione importante per lo sci d’acqua, benché qui messa in secondo piano, brevemente, a vantaggio di un indimenticabile giretto su due ruote. In sella assieme a Vito, il pappagallo. La vista di un uccello tropicale come questo, per una volta libero di vagheggiare per l’aere sconfinato, susciterebbe normalmente l’immagine di ombrose foreste presso l’equatore e ricche di alberi con accoglienti cavità. Presso cui nidificare, ben lontani dagli umani. Perché è piuttosto raro, per non dire inaudito, che una simile creatura possa un dì tornare libera, una volta assaporata la comodità del vivere dentro una casa. Di essere serviti e riveriti, come un raro gioiello, privo di altro senso che la propria mirabile esistenza. Le ali, allora, si riducono ad un manto di nebbiosa sussistenza. Mentre l’occhio tondeggiante, attento al minimo dettaglio, scruta occasionalmente oltre i pannelli delle porte a vetro, verso il mare o il mondo assai distante. È questo il nostro stesso fato, oltre a quello delle bestie nella casa, se si perde la voglia di rischiare, mettendo in discussione i quotidiani presupposti.
L’evidenza è un torvo consigliere: può sembrare, raggiungendo la maturità, che portare fuori casa il pappagallo, come fosse un Fido quattrozampe, sia un rischio immeritevole di considerazione. Che certamente, un grosso gatto se lo mangerebbe. O un falco se lo prenderebbe, una faina, una formicaleone lo risucchierebbe. E quanto spesso si odono qui a Roma, i versi dei raminghi che si annidano, sperduti, tra gli alberi di Villa Borghese…Ma sono liberi, per le loro penne, addirittura!

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Fabbrichiamo qualche punta con il vetro di ossidiana

ossidiana

Se soltanto potessi avere, come il cacciatore primitivo, un’invitante masso della pietra lavica effusiva, liscia e nera, frastagliata all’occorrenza…Ossidiana, oh si. Ne taglierei un corposo pezzettino, usando come cuneo l’ultima propaggine di un corno d’artiodattile, forse un cervo eppure non si sa. Magari un dinosauro! Lo percuoterei più volte con un piccolo sassetto, ricavandone un goccione dall’aspetto affascinante. Come l’orecchino di un gigante dignitoso. Quindi lentamente, accanendomi su quell’oggetto, lo renderei alla fine triangolare; ma con due tacche, per legarlo meglio ad un bastone. Poi lo lancerei…
I nostri antenati non erano di certo stupidi, anzi! Avevano soltanto meno mezzi ereditati dai progenitori. Anche noi, privati dei portali dell’e-Commerce di settore, dovremmo andare in giro per comprare gli strumenti della caccia. E magari senza i centri commerciali, invenzione anch’essa assai recente, finiremmo dentro a piccole botteghe di artigiani, dediti a quel campo da generazioni. O addirittura prima delle specializzazioni umane, un chiaro segno del progresso, saremmo andati in giro per i boschi, alla ricerca della pietra adatta al nostro anélito del giorno. Che avrebbe risposto, di volta in volta, ai bisogni di ciascuno: pensate a quegli ominidi Australopitechi, parecchio scimmieschi nell’aspetto, che si ritrovarono a scoprire l’uso degli attrezzi. Loro che per primi e soli, bipedi dominatori, decisero di stabilirsi in una Valle ormai Perduta. Non avevano una casa, né una valida misura d’umiltà. Ma il desiderio e soprattutto lo strumento, per trovare la ragione: l’antica pietra, palaios lithos, simbolo del Paleolitico di 2 milioni e mezzo di anni fa.
Fu probabilmente trascinante, addirittura epocale, l’attimo in cui la prima bestia cadde sotto il proiettile di una frana mai avvenuta. Bensì emulata, per mangiare, dalla mano lanciatrice di qualcuno; i cui figli, forse pronipoti (allora la tecnologia nasceva al giro di generazioni) arrivarono a capire che, si, non tutti i sassi sono uguali. Ce ne sono di pesanti, opachi, leggeri o trasparenti. E in rari casi, dotati della punta per trafiggere la dura scorza delle cose. Fossero anch’esse, metti caso, con gli zoccoli e gradevoli da consumare, sopra il fuoco di un primévo barbecue. Quindi perché non favorire l’occorrenza di una tale fortuita coincidenza? Anche se ci vuole olio di gomito ed applicazione, tanto vale trasformarle, tali pietre, verso il non-plus ultra della caccia. Era, questa in particolare, la Smith & Wesson degli antenati, un vantaggio nella vita vera. Si trovava esclusivamente nei dintorni dei vulcani. I primi strumenti fatti con un tale materiale, secondo gli studi archeologici più accreditati, risalgono soltanto a quel Neolitico di un intero milione d’anni successivo, quando già i cacciatori maggiormente coraggiosi si arrischiavano a sperimentare la fusione dei metalli. Un procedimento complesso e macchinoso. Niente a che vedere con la valida certezza, la perforazione di una freccia d’ossidiana.

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