Il passero africano, grande costruttore di alveari

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Questi piccoli uccelli sudafricani, della stessa famiglia dei passeri, hanno la capacità innata di costruire case-alveare su larga scala. Non a caso, il nido del Philetairus socius (Tessitore Socievole) si riconosce da lontano: ha le stesse dimensioni e l’aspetto di un gigantesco covone di fieno, sospeso a metri da terra, disposto ad arte sulla cima di un albero alto e spoglio.  L’ideale, per loro, è un tronco senza appigli o rami bassi, come quello dell’acacia, dell’aloe o della capparea (l’albero del pastore) ma, come tutti gli altri esseri sociali, sono anche dotati di una certa intelligenza e capacità di adattarsi. A loro basta, in fondo, trovarsi al di fuori della portata di serpenti ed altri mangiatori di uova, i predatori naturali dell’arido ambiente sub-sahariano. Lo sa bene Dillon Marsh, il fotografo sudafricano che ha raccontato, in un’affascinante serie di fotografie, la più curiosa delle loro abitudini. Metter su casa, fra tutti i posti immaginabili… In cima ai pali del telefono. Se queste fossero tane di vespe o termiti, ci sarebbe ben poco da sorridere. Ma basta avvicinarsi per scoprire l’adorabile verità: centinaia di graziosi piccoli uccelli che vivono in colonia, come fossero i membri operosi di un soave e armonioso formicaio. Si ritiene che il progressivo ampliamento dell’infrastruttura telematica, giunta in quei luoghi insieme alla modernizzazione, abbia addirittura favorito l’aumento della loro popolazione, oggi più numerosa che mai.

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Guidando agili nel Pozzo della Morte indiano

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Difficile trovare un senso spirituale nella guida. I veicoli a motore e le strade asfaltate sono, il più delle volte, quanto di più lontano possa esistere dalla meditazione e la poesia. Ci si mette al volante per raggiungere un luogo, trasportare cose, trionfare su pista in gare di natura sportiva. Eppure in uno dei luoghi più sacri della terra, nel pieno svolgersi di un importante momento collettivo dedicato all’arricchimento religioso e alla celebrazione induista, il Mauta kā Ku’ām (Pozzo della Morte) sembra assumere un valore nuovo. Sarà l’estetica rimediata ma entusiastica dell’arena in cui si svolge, quasi una reinterpretazione orientale della Sfera del Tuono del cinema post-apocalittico Mel Gibsoniano. Sarà l’approccio spericolato di ogni parte coinvolta, dai folli guidatori di vecchie utilitarie ai centauri dotati di moto e motorini potenziati in casa, con parti improvvisate o prese in prestito da qualche amico. Da un certo punto di vista questa peculiare forma d’intrattenimento, molto amata nel sub-continente indiano, è anche il più perfetto incontro tra la cultura americana degli sport estremi e la trascendenza tipica di alcune filosofie orientali, capaci di reinterpretare a modo loro i concetti stessi del rischio e del pericolo. Fermata per un attimo la strana giostra, uno di loro declama solenne “Non sono un eroe, è solo il pubblico che mi ritiene tale” Poi ricomincia a girare.

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La prova dell’amico: una terribile candid

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È la vicenda drammatica di un/una ragazzo/a come gli altri che, cedendo alla tentazione del facile guadagno, finisce per indebitarsi giocando a poker con gente dalla natura poco raccomandabile. Gaglioffi talmente minacciosi da risultare quasi comici, un poderoso concentrato di manierismi mafiosi provenienti da ogni parte del mondo. Ora, il problema è che a quel punto il/la giovane si ritrova bloccato al terzo piano di un vero e proprio palazzetto degli orrori, temendo sinceramente per la propria vita. Molte delle cose che si vedono in questo video sono il frutto di un’abile montatura: l’atmosfera noir tra crimine organizzato, gioco d’azzardo e tornei di lotta clandestini. Sono falsi i galli da combattimento, gli spiedini di scarafaggi, il cuoco mangiafuoco e la prostituta furiosa dentro all’ascensore. Ma l’amicizia, quella si, non puoi inventartela da un giorno all’altro. Perdoneresti un comune conoscente che ti chiama nel profondo della notte? Gli presteresti 300 euro? Lo andresti a prendere in una bisca malfamata perché possa rivedere casa? Ok, si tratta in fondo di una semplice candid camera ma, volendo credere alla premessa, stiamo pur sempre assistendo alla più notevole delle prove di coraggio moderne.

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Il vero volto di Popo-chan, gufo trasformista

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Tra gli animali resi famosi da Internet va sicuramente citato l’assiolo faccia bianca di nome Popo-chan. Piccolo rapace notturno di origini sudafricane, comparve nel 2010 sui teleschermi giapponesi in quello che sarebbe diventato uno dei video di YouTube più famosi e amati al mondo. Eternamente diffuso, tradotto in più lingue,  lo spezzone ce lo mostra mentre reagisce in modo singolare a due diversi gradi di minacce simulate, schierate sul braccio in rapida successione, con scopo dimostrativo, dalla sua addestratrice: un barbagianni e un altro gufo, molto più grande. Dietro l’aspetto benevolo e inoffensivo, difficile dimenticarlo, Popo nascondeva infatti l’anima di un trasformista d’eccezione. E due versioni alternative di se stesso. Questa è la storia dello Ptilopsis leucotis, l’unico volatile in grado di cambiare aspetto. Con una versione normale (simpatica), un’altra arrabbiata (terribile) e la forma finale, un concentrato d’intento assassino e sguardo magnetico, in grado di gettare nello sconforto anche il più determinato dei predatori.

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