Vecchia rassegna di strane macchine volanti

Flying machines

Quante persone hanno perso la vita tentando di librarsi? Geniali inventori, temerari, avventurosi sperimentatori dediti a un sogno, la sublime visione dell’uomo che restituisce al mittente l’imprescindibile vincolo della gravità. Raggiungere l’obiettivo di un’idea avveniristica, il più delle volte, richiede un certo numero di sacrifici. Jean-François Pilâtre de Rozier, pilota di una delle prime mongolfiere, sospinto dal vento delle sue brame precipitò con il suo mezzo, mentre tentava di attraversare il canale della Manica, sul finire di un cupo 1785. Franz Reichelt, sarto di origini austriache e inventore del paracadute, nel 1912 ottenne dalle autorità francesi il permesso di provarlo mediante l’impiego di un manichino. L’avrebbe lanciato da sopra la svettante torre Eiffel; un tonfo terribile annunciò la sua sconfitta. Eppure era così certo… Tanto da essersi scambiato col pupazzo, rimettendoci le ali, il futuro e il bene prezioso della sua stessa vita. Mongolfiere, dirigibili, ornitotteri a pedali, bizzarre viti volanti… Nel regno di una scienza esatta, l’aerodinamica, non c’è un grande spazio per gli eccessi di una mente sregolata. Oggi, un centinaio di anni dopo, ci ricordiamo dei migliori prodotti e dei più sfortunati pionieri, sacrificatisi presso l’altare del progresso, le cui creazioni hanno sancito valide scoperte e nuovi approcci metodologici al problema; guardiamo indietro al genio di costoro, soddisfatti e cautamente grati, seduti durante un comodo volo tra i diversi continenti. Che secolo, quello dell’aviazione! Nessuno potrebbe mai disconoscere tali e tanti meriti, empirici e trascendenti, sospesi tra la filosofia e il più profondo suolo. C’è un qualcosa, però, che non viene spesso celebrato. Tutte le vie di mezzo, i mille alti e bassi di chi ha sfidato ogni regola, creando qualcosa di straordinario come la neve di agosto, altrettanto destinato a sciogliersi per l’effetto di un clima avverso. I dissennati, i capoccioni e i pitagorici costruttori di aggeggi sconclusionati. “Quei temerari, sulle loro [strane] macchine volanti”. La folle raccolta di cinegiornali in cima al presente post, gentilmente pubblicata dal Museo dell’Aviazione di San Diego, ci aiuta nel rimetterli sul giusto piedistallo.

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La pubblicità peruviana che riversa l’aria in un bicchiere

UTEC

La regione in cui si trova Lima, capitale del Perù, rappresenta una delle grandi anomalie climatiche del pianeta. Racchiusa tra le fertili valli dei fiumi Surco, Chillón, Rímac e Lurín, dovrebbe in teoria godere di  temperature tropicali e piogge abbondanti, se non fosse per due fattori molto particolari: la corrente di Humbolt, proveniente dall’Antartico, che raffredda di molto l’Oceano Pacifico e l’incombente vicinanza della cordigliera delle Ande, principale catena montuosa al mondo, in grado di creare assembramenti di nubi a bassa quota, ovvero circa 500 m di altezza, che bloccano di continuo la luce del sole e impediscono il formarsi di temporali. Fa freddo, quindi, e poi c’è un’altro problema, ancora più grave: la mancanza d’acqua potabile. I circa 8 milioni e mezzo di abitanti della città, non a caso, hanno da tempo rinunciato all’uso sconsiderato del più prezioso degli elementi. Il fatto è che non ne hanno abbastanza: si calcola che nel corso di un anno intero, sopra Lima, non si verifichino più che 2-3 cm di precipitazioni atmosferiche. Quando si è fortunati. Risolvere una questione come questa, che affonda le sue radici in epoche geologiche pluri-millenarie, non è un’impresa da poco; tutto quello che si può fare, in effetti, è contrastarla gradualmente, magari sfruttando l’arma della tecnologia. E l’ultima a provarci, con un secondo fine (comunque meritevole) è l’istituzione ingegneristica dell’UTEC (Universidad de Ingeniería & Tecnología) con l’aiuto dell’agenzia pubblicitaria Mayo Draft fcb, di Santiago del Cile. L’idea geniale, a qualcuno, ricorderà le trappole del vento del pianeta Arrakis, nell’epopea fantascientifica di Dune: si tratta, in buona sostanza, d’integrare in un cartellone pubblicitario, creato per l’occasione, con dei filtri e un condensatore, al fine di generare: dall’aria > l’acqua. Il ciclo degli elementi è una realtà imprescindibile che non ha mai fine e la vicinanza del mare, dei fiumi, la possente copertura nuvolosa di questi luoghi nascondevano un grande tesoro potenziale: la cifra spaventevole di un 80/90% d’umidità, impalpabile, inutile e persino fastidiosa. Perché allora non portarla giù, per toglierci la sete?

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La frenesia dell’uccello sghignazzante

Kookaburra

Difficile descrivere il verso del chiassoso kookaburra. Come un ululato, una risata, mille scimmie impazzite o il delirio derisorio di una iena innamorata sul finire dell’estate. Hollywood, nonostante le sue molte prerogative creative e immaginifiche, tende a riciclare di continuo certi elementi. Tutti avranno sentito, almeno una volta, il celebre grido di Wilhelm, l’ululato in dissolvenza prodotto da un personaggio colpito da qualcosa, che cade rovinosamente dentro l’abisso senza fondo. E se tale gemito è da sempre un elemento fondamentale dei film western o d’azione, puntualmente riemesso dai cattivi sconfitti in prossimità del pirotecnico finale, ecco qui una prestigiosa controparte, altrettanto importante eppure decisamente meno nota. Lo produce naturalmente questo uccello, altamente stimato in funzione della straordinaria dote. Sarebbe il classico suono di sottofondo per ogni scena ambientata nella giungla, irrinunciabile in ciascun capitolo dell’eterna saga di Tarzan o negli exploit dei suoi molti imitatori. Sotto l’ombra degli alti alberi pluviali, grondanti d’umidità e di vita, risuona in questo modo: (vedi video, registrato presso lo zoo di San Diego). Se si potesse prendere tutta l’Amazzonia, concentrarla in un barattolo come quelli della serie cow-in-a-can, poi aprirlo e guardarci dentro, spunterebbe fuori uno di questi kookaburra. Ci starebbe un po’ strettino, poco ma sicuro. Una volta uscito, meglio correre ai ripari.

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Millepiedi non bastano per arrivare prima

Millipede

Neanche l’artropode miriapode più grande al mondo può sottrarsi alle regole del codice della strada, specie qualora debba confrontarsi con delle dispotiche formiche legionarie. La scena si svolge nel parco nazionale di Bui, nel Ghana meridionale. Archispirostreptus gigasanche detto il millepiedi gigante africano, quella mattina si era svegliato con un proposito importante. Andare verso una specifica direzione, per un tempo indefinito, verso mete vagabonde. Difficilmente questo essere, che può raggiungere la ragguardevole lunghezza di 38 cm e i 7 anni di età, pensa profondamente a qualche cosa. Già le sue 256 zampe, di un numero equivalente ai colori grafici di un vetusto standard VGA, occupano la parte principale della preziosa materia cerebrale nascosta nel suo capo corazzato. Lentamente, tastando il suolo con le antenne, si volge verso sera. Una volta pronto, zampettando se ne va. Gira intorno ai tronchi degli alberi, in cerca del materiale putrescente di cui si abitualmente ama nutrirsi. Serpeggiando evita le pozze e i pochi torrenti delle regioni sub-sahariane, in cerca di un pascolo gradevolmente ombroso. Se incontra un predatore più grande di lui si chiude a spirale, lasciando scoperte unicamente le rigide placche dorsali, simili all’armatura a scaglie di un cavaliere medievale. Vive nella più totale serenità di un singolo momento, sapendo che in caso d’emergenza può anche secernere un fluido speciale, urticante per gli occhi e il muso degli eventuali mammiferi affamati. Tra l’altro non ha nemmeno un buon sapore. Tutti lo ignorano. E lui degli altri, non se ne cura. Finché, distrattamente, non giunge a contato con la sua perfetta antitesi: un formicaio, comunità brulicante fondata sul senso pratico e la determinazione. E li, beh, sarebbe servito l’aiuto di un semaforo.

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