Fortezza e centro del potere nell’Età del Bronzo: Arkaim, dove la Russia cerca il mito della sua storia

Alle origini del concetto stesso di civiltà può essere individuata la doppia realizzazione da parte dell’uomo di essere contemporaneamente il più potente alleato, ma anche il peggior nemico di se stesso. Per cui qualsiasi traguardo possa essere raggiunto da una collettività indivisa, con altrettanta facilità potrà venirgli sottratto, in un secondo momento, da una quantità pari o persino inferiore di persone, fermamente intenzionate a percorrere la strada più bassa delle interazioni tra i diversi gruppi sociali. Quegli stessi appartenenti ai luoghi d’incontro che, nell’epoca del Paleolitico, avevano costituito funzionali roccaforti contro gli animali e gli altri pericoli della natura, e che grazie alla lavorazione successiva dei metalli avevano imparato a trattarsi vicendevolmente nello stesso modo. La punta della lancia, la freccia incoccata nell’arco, il filo tagliente della spada e a un certo punto, come corollario delle tecniche di predominio e accerchiamento, l’invenzione prototipica del carro da guerra. Forse la prima macchina nella storia dei popoli, nonché un gradino verso la creazione del concetto di città e stato. Poiché in quale modo sarebbe stato possibile sfuggire all’odio del tuo vicino, supportato dal potere dall’energia equina, se non costruendo mura alte e solide, possibilmente difendibili da una posizione sopraelevata? D’insediamenti come quelli ritrovati in grande numero nella zona Trans-Uralica, tra le città di Magnitorgorsk e Chelyabinsk, il più grande dei quali avrebbe dato il nome alla cultura dei Sintashta, gli antenati delle genti Indo-Iraniche che durante il secolo scorso iniziarono ad essere associati col concetto vagamente trasversale di “Ariani”. In buona parte scoperti e studiati dall’importante archeologo di epoca sovietica Gennady Zdanovich, il quale nel 1987 si sarebbe trovato innanzi ad una delle sue scoperte più importanti: la doppia fortezza concentrica con quattro porte, densamente popolata, che potrebbe anche costituire l’osservatorio più sofisticato costruito prima dell’Età Classica: quel sito di Arkaim chiamato non a caso, in particolari ambienti, la Stonehenge della Russia europea. Oggi poco più che un cerchio di pietre parzialmente ricostruito, dall’estensione di 20.000 metri quadri, ma che all’epoca ospitava oltre 60 abitazioni con focolai, cantine, pozzi e fornaci metallurgiche. Circondate da mura in mattoni d’adobo essenzialmente impenetrabili, nonché inerentemente difficili da incendiare. Il che rende ancor più misteriosa la maniera in cui attorno al XVI secolo a.C, dopo almeno 200 anni di utilizzo, la città venne probabilmente devastata dalle fiamme ed i suoi 1.500/2.500 abitanti decisero di trasferirsi altrove, in quella che doveva costituire all’epoca una delle regioni più densamente popolate dell’intero continente eurasiatico…

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Limpida è la zattera della lumaca sospesa tra cielo e mare

La scena di una grande battaglia persisteva presso il margine di un mondo: le dozzine di migliaia d’imbarcazioni, con le vele parzialmente ammainate o abbattute ad estendersi sul bagnasciuga della Sardegna. Ed i letterali cumuli appuntiti dei loro nemici, in un susseguirsi di spirali quasi inanellate tra le sabbie e i sassolini dell’inconcepibile clessidra del tempo. Giorni, minuti, ore: concetti ormai scomparsi per le moltitudini di questo luogo e che d’altra parte, nessuna delle due fazioni aveva mai davvero incapsulato come schema del pensiero latente. A cosa potrà mai servire, d’altra parte, contare le albe ed i tramonti, quando non si ha nessuna capacità di vederli? O l’effettiva inclinazione a distinguere il sonno dalla veglia, come attimo transiente in cui le membra smettono di muoversi e in maniera imprescindibile, cala l’oblio. “Ah, quanto dev’essere complessa la vita degli organismi di superficie. O che vivono al di sotto, della superficie.” Avrebbero potuto dire i violacei soldati dallo stolido elmo di colore viola, la cui intera esistenza della vita adulta era consistita nel galleggiare continuando a compiere la sequenza d’azioni che più d’ogni altra era capace di definirli: trarre un singolo respiro, emettere saliva e avvolgerla solidamente intorno al pegno risultante. L’ultima perlina di una sorta di tenda, costituita di traslucidi filari sovrapposti. In un certo senso, l’approssimazione del mollusco al concetto di un uscio di casa. In un altro, la sua astronave verso le regioni di un infinito cosmo Mediterraneo. L’oscura prateria capace di costituire, generosamente, l’ultimo scenario delle sue prede.
Giacché proprio questa è la testimonianza, ovvero lo scenario oltre la lente offerta dalla grande livella dell’incomparabile tempesta, destinato a palesarsi innanzi agli occhi dei potenziali bagnanti per un giorno di maggio nell’anno 2017 (e molti altri prima o dopo di esso) come riportato nello studio di Betti, Bavestrello, Bo e Coppari, sul tema del comune ultimo destino delle due specie, Velella velella e Janthina pallida T, rispettivamente un tipo di medusa trasportata unicamente dalla corrente e il flusso delle maree, ed una lumaca semi-galleggiante destinata più o meno allo stesso destino. Due rappresentanti della categoria di esseri viventi noti neston, per la loro propensione ad occupare, e trarre beneficio, da due elementi allo stesso tempo. Di cui la seconda risulta essere, di gran lunga, quella maggiormente ostile nei confronti della placida e passiva controparte…

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La porta del trionfo brutalista che adorna il distretto della Nuova Belgrado

Un tempo c’era una palude da questo lato del fiume Sava, totalmente scevra di elementi artificiali o alcuna traccia delle industriose mani umane. Finché nel XVIII secolo, durante la dominazione nazionale austriaca, non si diede inizio ad un massiccio processo di bonifica e urbanizzazione, che avrebbe permesso il manifestarsi di uno dei principali esempi di città pianificata nell’Est Europa. Oggi denominato con il nome emblematico di “Nuova” capitale della Serbia (Ex Jugoslavia) l’agglomerato di edifici pubblici, commerciali e residenziali fu edificato sulla terra prelevata per svariate generazioni dall’isola di Malo Ratno Ostrvo sul Danubio. Finché di quest’ultima non sarebbe più rimasto altro che una sottile striscia di terra. E adesso, guardate il risultato: lo si scorge come primo panorama cittadino, mentre si procede verso il centro partendo dal moderno aeroporto che porta il nome dell’inventore e scienziato Nikola Tesla. Si tratta, assai probabilmente, del più grande cartellone pubblicitario del suo paese. Alto più di cento metri e largo quasi una trentina, con variopinti richiami a compagnie telefoniche, marchi d’abbigliamento, l’automobile o profumo di turno… Talmente imponente da coprire quasi totalmente il grattacielo che lo fa stagliare contro il cielo distante. Se non fosse per la presenza, in parallelo, di una seconda torre lievemente più grande, dalla stessa forma stabilmente quadrangolare dalle proporzioni imponente. Collegata inaspettatamente all’altra grazie a un ponte su due piani, visibilmente contrapposto a ciò che potrebbe sembrare per un paio di respiri un perfetto disco volante. Finché l’autista del taxi, oppure il semplice buonsenso, non pronunciano all’indirizzo delle nostre orecchie due salienti parole: “Ristorante… Rotante”. E chi non vorrebbe avere l’occasione, almeno una volta prima di lasciare questi lidi, per vedere la grande Belgrado da un simile punto di vista privilegiato, all’altezza significativa di ben 36 piani. Siamo pur sempre in Europa, dopo tutto, e di palazzi così grandi non ce ne sono parecchi. Mentre di esteriormente simili a quella posta in essere col nome di Porta Occidentale, a dire il vero, assolutamente nessuno. Il che rientra a pieno titolo nelle probabili intenzioni dell’architetto serbo Mihajlo Mitrović, vincitore di un appalto negli anni ’60 per la costruzione di una palazzina ad utilizzo misto di 12 piani nella Via degli Eroi Nazionali. Ma che in forza della sua notevole fama pregressa e i molti successi di una lunga carriera, sarebbe riuscito ben presto a convincere l’amministrazione cittadina di poter utilizzare lo stesso spazio per costruire qualcosa di molto più imponente, ed a suo modo straordinariamente significativo. Pura storia, egregiamente stolida ed inadulterata, dell’architettura….

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Cosa farete quando la cometa diabolica sfiorerà con le sue corna l’orbita del pianeta Terra?

Che l’uomo antico amasse le metafore e la creazione di similitudini eleganti, mentre quello contemporaneo cerca soprattutto di coinvolgere ed intrappolare l’inconscio ad un livello quasi istintivo, è largamente desumibile dai rispettivi criteri utilizzati per denominare le diverse tipologie di corpi celesti. Laddove il primo, pensando alle costellazioni delle stelle fisse, decise d’identificarle con i termini di animali, figure mitologiche o i personaggi del suo canone di leggende. Mentre l’ennesima questione prettamente scientifica, relativa ad un’anomalia di media rilevanza nel comportamento di una cometa di corto periodo relativamente simile a quella di Halley, ha visto accumularsi nel corso degli ultimi mesi termini come diabolica, infernale, apocalittica ed esiziale. “Grande tre volte il monte Everest” o “Più vasta di un’intera città” Con continue menzioni di corna, braccia infuocate, scie minacciose… Nonché notazioni formalmente corrette, vedi quella relativa alle multiple esplosioni verificatosi nel corso dell’ultimo anno. Che vedendo accelerare ulteriormente il bolide denominato 12P/Pons–Brooks fino alla velocità di 65.000 chilometri orari, l’ha vista perfezionare ulteriormente la propria rotta dirigendosi con fare minaccioso all’indirizzo del pianeta Terra. Il che, approcciandosi alla questione da un punto di vista meramente statistico, non basterebbe in alcun modo a incrementare il senso di pericolo che incombe sulle nostre teste. Ma poiché un’aspetto della mente umana che accomuna sia gli antichi che i moderni, da che sussiste l’intenzione pratica di approfondire e studiare il mondo, è una capacità non particolarmente sviluppata d’interpretare istintivamente le probabilità inerenti, sarebbe irrealistico non menzionare come l’intento minatorio implicito sia effettivamente riuscito, almeno in parte, a centrare il punto.
C’è d’altronde più di un mero fattore estetico nel tratto distintivo il quale, di contro, caratterizza e connota questo ricorrente ospite del nostro cielo stellato, probabilmente notato per la prima volta nel quindicesimo secolo da astronomi cinesi ed italiani, per venire in seguito scoperta formalmente solo nel 1812 dal francese Jean-Louis Pons. E poi di nuovo, in modo autonomo, nel 1884 dall’americano William Robert Brooks che costituisce la seconda parte di quel nome scevro di ulteriori connotazioni. Diversamente dall’identificativo mediatico impiegato in epoca corrente, fatto derivare dalla caratteristica in questione, consistente in una doppia coda curvilinea parallela al senso di marcia, la cui forma e orientamento ha favorito l’invenzione ed utilizzo reiterato dell’associazione con il grande maligno. Non che mucche, capre o simili creature erbivore sarebbero state meno calzanti, se ancora a qualcuno fosse parso pratico indirizzare l’associazione poetica verso una proporzione più ottimistica e tranquillizzante. Benché un tentativo, per lo meno, sia stato fatto grazie all’evocazione da parte di un gruppo di scienziati e pubblicisti (difficile capire chi sia stato il primo) di un altro oggetto cosmico dall’iconica forma di un ferro di cavallo: l’astronave cinematografica del Millenium Falcon, istantaneamente riconoscibile per tutti i fan di Star Wars. Il che d’altronde offriva molti pochi appigli, per cominciare ad approcciarsi al tema dell’effettivo funzionamento e ragion d’essere di questa insolita cometa…

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