La prima regola del saporito frutto dell’ackee: mai cogliere dal ramo (della morte) l’ackee

Non è mai sufficientemente discusso il rischio latente di determinate fonti di nutrimento, come il benamato frutto proveniente dalla Cina consumato in genere a Natale, che presso i nostri lidi viene definito in genere litchi. Dal piacevole sapore, nonché l’inoffensivo aspetto, nonostante contenga determinati composti chimici che se consumati in quantità eccessiva, o da bambini sufficientemente piccoli, possono alterare la gluconeogenesi degli acidi grassi, portando potenzialmente alla morte. Ma è chiaro che si tratta di un’eventualità estremamente remota, un po’ come assumere una dose eccessiva di radiazioni dal potassio delle banane. Altrimenti, nessuno penserebbe ancora di mangiare un tale cibo, giusto? Giusto? Uhm…
Negli anni ’70 ed ’80 dello scorso secolo si cominciò a discutere nella comunità scientifica, con particolare attenzione da parte di laboratori ed università caraibiche, di una strana malattia incline a colpire soprattutto gli abitanti della Giamaica. Caratterizzata da conati di vomito, grave ipoglicemia, compromissione del fegato e dei reni. Incline a colpire membri di qualsiasi classe sociale, indipendentemente dallo stile di vita, l’afflizione venne gradualmente collegata ad un’importante fonte di cibo, alla base di uno dei piatti nazionali maggiormente amati. Sto parlando della Blighia sapida o ackee, il frutto con buccia rosata prodotto a grappoli da un albero gradevolmente ornamentale alto fino a 10-12 metri, vagamente simile a una mela o pera ma che quando si procede ad aprirlo, sembra contenere dai tre ai quatto esempi di ciliegie nero-lucide come splendenti gocce di pece. Fermo restando che si tratterebbe, sempre e comunque, di una pessima idea. Qualunque abitante delle isole in effetti, vedendo un turista intento a raccogliere dall’albero o aprire una di queste capsule invitanti che non si fosse già aperta da sola griderebbe immediatamente un avviso, o più semplicemente glielo toglierebbe bruscamente dalle mani protese. Non per implicita mancanza di garbo, bensì un’encomiabile coscienza coadiuvata dalla conoscenza. Questo perché l’ankye o akye-fufuo, come veniva chiamato nella sua natìa Africa Occidentale, può rapidamente portare a conseguenze assai nefaste se mangiato in occasioni inappropriate o senza l’opportuna trafila preparatoria. Ciò in qualità di membro della stessa famiglia delle sapindacee, cui appartengono anche il litchi ed il longan. Benché nessuno delle due potenziali alternative contenga una quantità comparabile del terrificante aminoacido ipoglicina A, capace di legarsi agli enzimi necessari per il catabolismo energetico delle cellule, distruggendo totalmente la funzionalità dei mitocondri. L’inizio della fine, se vogliamo, di quel prolungato stato di esistenza che siamo abituati a definire come “umanità”…

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L’antica Torre e il nuovo regno del guardiano londinese dei corvi

Verso la metà di ottobre del 1066, soltanto cinque giorni dopo la battaglia di Hastings, l’esercito possente di Guglielmo il Conquistatore varcò i confini di Londra. La città più grande delle Isole Inglesi e probabilmente, in quel particolare momento storico, una delle più ricche ed influenti al mondo. Era la prima volta, dopo il terzo secolo avanti Cristo, che armigeri nemici si accampavano su ambo le sponde del Tamigi. Quella precedente, tuttavia, l’operazione aveva necessitato di organizzazione logistica molto più complessa, essendo stata condotta con l’approccio estremamente metodico dell’esercito romano. Tale campagna militare condotta dal generale Marcus Valerius Corvus fu d’altronde connotata da un preciso quanto incancellabile simbolismo animale. Poiché il corvo comune europeo, perfettamente reso dalla punta del becco alla coda nera a ventaglio, figurava sopra l’elmo di quest’uomo ed in seguito a guisa d’immagine ritratta nelle insegne della gens Valeria, in buona parte responsabile della colonizzazione a guida italica della Bretagna. Non è chiaro se dodici secoli dopo, il Bastardo Francese avesse chiara nella mente l’importanza di riprendere l’antico simbolismo e tali analogie persistenti. Ma nella rocca simbolo del suo potere, la cosiddetta Torre Bianca ultimata nel 1078, trovarono ben presto l’occasione d’insediarsi un certo numero di uccelli appartenenti a quella stessa schiatta. I protagonisti della celebre, quanto tediosamente ripetuta leggenda (Volassero malauguratamente via tutti assieme da questo profetizzato luogo? Niente più regno d’Inghilterra, adieu!)
Se è d’altronde vero che in quest’epoca di relativa pace lo squadrato castello è stato trasformato in una popolare attrazione turistica, credere o meno alle parole pronunciate miliardi di volte dalle sue guide non fa poi una grandissima differenza: ci sono pochi ruoli più caratteristici, ed a loro modo invidiabili di quello attribuito al ravenmaster, un particolare tipo, di un particolare tipo di guardie. Colui che per innata propensione, nonché specifico sigillo sulla manica dell’uniforme rossa e nera rinascimentale, ha il compito di nutrire, mantenere e proteggere la popolazione minima di sei (6) Corvus corax, pena caduta del sacro ponte, ribellione contro i monarchi, possibili carestie o pestilenze, etc. etc. E se c’è una cosa largamente nota in materia britannica, è che una volta che gli Inglesi seguono una tradizione sufficientemente a lungo, essa tende ad essere presa molto, molto sul serio. Così tracciata nello strascico dell’entusiasmo popolare rinnovato in seguito all’incoronazione di Re Carlo, fu assolutamente naturale per i giornali nazionali dare ampia risonanza lo scorso marzo a un’importante cambio generazionale: via il buon Christopher Skaife, titolare della carica in questione tra gli anni 2011 e 2024, riassegnato alle mansioni più usuali della altre guardie del castello, definite con piglio medievaleggiante gli yeomen. Dentro Michael ‘Barney’ Chandler, classe 1968, il membro dei Royal Marines con 24 anni d’esperienza (non meno di 20 permettono di ereditare un così prestigioso ruolo) da quel momento incaricato di seguire e assistere i pennuti nella loro sacra missione. Esistere, in primo luogo. Ma anche fare al meglio tutto ciò che tende a derivare da un gracchiante destino e paio di svolazzanti ali nere…

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Sgargianti aeroplani, canguri bellicosi: i serbatoi sul tetto che decorano le case del Punjab

Successivamente alla partizione dell’India dopo la disgregazione del Raj inglese, alcune zone di confine tra lo stato riformato e il Pakistan moderno si trovarono a gestire situazioni economiche complesse. Per non parlare di circostanze climatiche, ulteriormente esacerbate in epoca contemporanea, non propriamente valide alla conservazione di standard di vita dall’elevato coefficiente di confortevolezza. È questo senza dubbio il caso del Punjab, culla dell’originale civiltà della valle dell’Indo, dove a parte il periodo dei Monsoni, l’inaridimento dell’epoca contemporanea avrebbe concentrato copiose piogge nel periodo dei monsoni, lasciando l’estate propriamente detta, ma anche l’inverno, sprofondate in lunghi e pervicaci periodi di siccità. Basta aggiungere a questo l’attaccamento, da parte della gente di questi territori, a tecniche agricole tradizionali come l’assetata risaia nonché l’utilizzo esclusivo di acqua procurata localmente, piuttosto che fornita tramite acquedotti o canali al fine d’irrigarla, per comprendere quanto frequentemente gli abitanti di una zona come il distretto di Jalandhar possano trovarsi all’asciutto, dovendo ricorrere a soluzioni di approvvigionamento idrico tutt’altro che ideali. Facile giustificare, a questo punto, l’alto numero di strutture per lo stoccaggio sistematico dell’acqua incorporati nella maggior parte delle soluzioni architettoniche auto-gestite, principalmente appartenenti alla categoria più popolare nei villaggi, di spaziose villette o palazzine appartenenti a una singola famiglia multi-generazionale. Ingombranti serbatoi, che in altri luoghi apparirebbero esteticamente stranianti, distopici nell’incombente cozzare di forme utilitaristiche con qualsivoglia tentativo di abbellire le adiacenti mura. Ovunque, ma non qui. Diventati celebri recentemente grazie ad una mostra fotografica in Gran Bretagna del fotografo Rajesh Vora, ma anche per la loro inclusione nella trama del film di Netflix sull’emigrazione Dunki, del regista Rajkumar Hirani, i variopinti serbatoi diventati sono diventati un importante simbolo locale dall’incredibile tripudio di forme, colori e metafore appariscenti. Molti di essi atti a simboleggiare proprio l’insediamento di un membro della famiglia in paesi lontani, ed il conseguente aumento d’introiti con capienti contenitori dalla forma di canguri australiani (con tanto di guantoni da pugilato) Statue della Libertà statunitensi ed altri celebri simboli nazionali. Piuttosto che celebrazioni del concetto di viaggio in quanto tale, vedi la famosa replica in mattoni e intonaco di un jet di linea della Air India, situato presso l’insediamento di Uppal Bhupa di proprietà di Santokh Singh Uppal dalla lunghezza complessiva di 25 metri. Edificato, come la stragrande maggioranza dei suoi simili, durante la prima decade dell’anno duemila, quando iniziò a propagarsi a macchia d’olio questa ingegnosa, quanto altamente caratteristica fad popolare. La realizzazione particolarmente tangibile, di un privilegiato filo conduttore tra senso comune ed arte popolare del quotidiano…

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Ventimila vivevano nel mega-condominio. Internet ne ha fatto un argomento. Benvenuti, trentamila

Molti temono visceralmente l’istituto della riunione di condominio, come circostanza problematica in cui le difficoltà inerenti della convivenza vengono portate innanzi, cementando antipatie possibili in vera e propria ostilità. Ma il popolo che parla del futuro di un edificio convenzionale, se non altro, si compone in genere di una decina, al massimo venti o trenta persone. Limitando le interconnessioni problematiche ad un modulo non necessariamente, né in genere terribilmente complesso. Immaginate ora i possibili intrecci per un tipo di collettività corrispondente numericamente a quella di un intero insediamento dalle dimensioni non propriamente trascurabili, come un comune italiano del basso Lazio o una piccola “città” norvegese. Tutti assiepati, come soltanto in Asia può succedere, all’interno di una singola iper-struttura del contesto urbano spropositato. Questo è il New World Regent International ed è in effetti un luogo che potrebbe esistere soltanto qui, ad Hanzgzhou. Nella metropoli di oltre 10 milioni di anime dello Zhejiang, tra i cui confini la proprietà immobiliare viene concepita nella maggior parte dei casi come un privilegio appannaggio di poche, potenti compagnie di gestione. Contestualizzando e settorializzando sensibilmente i diritti degli inquilini, fino ad offrire l’opportunità di crescita in termini di affitti guadagnati. Senza bisogno di acquistare immobili ulteriori o effettuare operazioni di reale rinnovamento. Siamo qui, del resto, in quello che la stampa online ha definito circa tre o quattro anni a questa parte come “L’edificio di appartamenti delle celebrità di Internet”, lasciando ampio spazio ad interviste ai molti volti noti dello schermo digitale, principalmente operativi sull’equivalente cinese di YouTube, Douyin, per descrivere gli aspetti migliori e quelli non propriamente ottimali di un simile luogo non del tutto o necessariamente ameno. A cominciare dal distinto androne simile a quello di un hotel “multi-stella” (parole loro) con ampia profusione di marmo e rifiniture di una certa eleganza, dove si narra che nei primi tempi successivi all’inaugurazione nel 2014, durante le feste come il Capodanno o quella di Metà Autunno si accumulassero impressionanti quantità di fiori ed altre decorazioni, almeno in parte inviate in dono ai più facoltosi ed importanti abitanti dell’edificio. Una circostanza oggi in larga parte ardua da immaginare, soprattutto una volta che s’inizia ad inoltrarsi nei piani superiori, incontrando una quantità impressionante di porte silenziose, appesantite da un vago senso d’isolamento e solitudine apparente. Finita l’epoca in cui le amicizie forgiate presso i campi sportivi incorporati nel complesso e le sue piscine creavano un senso d’appartenenza tra gli abitanti, oggi semplicemente troppi e frequentemente mutevoli perché si possa immaginare di conoscersi anche tra i dirimpettai di un singolo piano. E la ragione va cercata, come spesso capita, nell’universale aspirazione al profitto (o recupero d’investimento) dei proprietari…

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