La vita domestica di una serpe a due teste

Medusa

Faceva buio nel carrozzone, in mezzo ai terrari e le gabbie d’insetti e farfalle colorate. L’intera nuova generazione degli abitanti di un piccolo paese del Midwest, un gruppo di ragazzini fra i 10 e 15 anni, si assiepò insistentemente di fronte a un telo azzurro cielo, lo sguardo pieno d’entusiastica aspettativa. Il richiamo rivolto alla loro fantasia, pochi minuti prima, era stato semplicemente irresistibile “…Venghino, lorSignori, per poter assistere allo spettacolo indimenticabile di una creatura d’altri tempi…” Il vice-capo dei giostrai, con la sua giacca elegante e il cappello alto fabbricato a New York, sapeva bene come suscitare la curiosità del suo pubblico imbelle. Prelevato qualche dollaro a persona, trasportato il giovane gruppo di visitatori all’interno del Mistico Rettilario Viaggiante, stava già intavolando la seconda strofa del collaudato discorso. “…Anfesibena! Il mitico serpente staccatosi dalla chioma di Medusa, il cui sguardo pietrificava gli stolti, temuto dai greci e dai latini. Due menti che dormono, a turno, in un solo corpo condiviso, per questo perennemente pronto a ghermire la sua preda…” Jimmy, Terry e gli tutti altri sapevano che doveva esserci la fregatura. Non esistono bestie a due teste, giusto? L’uomo bizzarro continuò a parlare ancora e ancora, come se in effetti non avesse alcunché da mostrare. Poi, un lampo di luce: i riflettori focalizzati d’improvviso sopra il telo, immediatamente rimosso. “…Mirabile bestia! Davvero terribile!”. Il tempo pareva essersi fermato. Sibilante e infastidita, la serpe scrutava la piccola folla con due paia di occhi allo stesso tempo, facendo saettare a turno la coppia di rapide lingue rosso-fragola. Spostando gli occhi sbarrati dall’emozione verso l’altra estremità del suo corpo, la verità apparve chiara: spuntava una coda soltanto. Per fortuna, la parte sullo sguardo mortifero non trovò immediata riconferma, almeno quella singola volta.

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Come farsi lo shampoo nello spazio

Karen Nyberg

Nello spazio cosmico infinito, non c’è aria, non c’è gravità e mancano i barbieri. Proprio per questo, chi lascia l’atmosfera della Terra ha sempre un piano. I capelli te li tagli oppure… Nell’immaginario comune della prima epoca spaziale, tra gli anni ’60 e ’70, l’astronauta era un tipo ben preciso. Imponente, virile, mascella quadrata: l’ideale personificazione di un eroe dei romanzi fantascientifici del genere pulp, pieni di mostri alieni e pianeti misteriosi. I capelli erano generalmente corti, perché questo ci si aspettava da un eroe in carriera, proveniente da un ambito, l’aeronautica sperimentale, particolarmente affine a quello militare. La corsa allo spazio, del resto, era un modo fondamentale per imporre il predominio tecnico di una nazione sulle altre, una ragione di contrasto, piuttosto che di aggregazione. I motori erano potenti, la Luna pericolosamente vicina e i capelli sempre, invariabilmente, corti. Ciò ha una sua logica: in assenza dei presupposti fisici di un pianeta come il nostro, persino i gesti più semplici possono diventare complicati. Diffusa è la leggenda secondo cui la NASA avrebbe investito milioni di dollari per produrre una penna biro con serbatoio pressurizzato, mentre i russi preferirono usare le matite. La storia è falsa, ma il problema tecnico è pervasivo e onnipresente. L’unico modo di superare questo tipo di ostacoli è fare come Karen LuJean Nyberg, l’astronauta statunitense che oggi ci mostra come si lava la testa ogni giorno (o quasi) da quando si trova sulla Stazione Spaziale Internazionale orbitante, a 460 Km dal livello del mare. Lo shampoo impiegato è, ovviamente, a secco, perché le scorte di acqua sono limitate. Spremendo la bottiglietta argentata con il tubo, simile a quella di un succo di frutta, lei depone qualche preziosa gocciolina sulla cute, mentre altrettante volano via come biglie impazzite. Poi aggiunge il sapone e si strofina energicamente con l’asciugamano per “Aiutare lo sporco a venire via”. Un colpo di pettine sarà quanto basta a restituire la giusta compostezza. Il risultato finale non è niente male, specie considerate le implicazioni complesse dell’ambiente in cui si svolge l’operazione. Liberi dalla continua attrazione della forza di gravità, i lunghi capelli della Nyberg si disperdono in alto come quelli di una bambola troll, in attesa di essere nuovamente intrappolati, all’interno di una più pratica coda di cavallo. Nello spazio bisogna sempre avere un piano.

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La felicità è un pranzo a base di riso e kimchi

Sa chaeeobja

La gioia e contagiosa, come del resto può dirsi anche la fame. In questo video che si sta diffondendo  a macchia d’olio, neanche fosse il nuovo singolo di un big dell’industria musicale, un giovane coreano diventa l’antonomasia del mangiatore solitario, pienamente appagato dal suo cibo. La scena si svolge di fronte al PC, con il protagonista che dimostra con orgoglio le straordinarie qualità del lauto pasto appena giunto per corrispondenza, rivolgendosi con strane movenze alla sua webcam. Sembrerebbe, in effetti, essere impegnato in una complessa video-chat. E gradualmente i commensali virtualizzati lo incoraggiano nel suo delirio, forse con una punta d’invidia piuttosto che riconoscendo il suo pontenziale di intrattenitore, finendo per creare una situazione estremamente insolita, quasi surreale. Fra moine e gridolini infantili, risate sguaiate e sguardi improvvisamente seri e tremendamente concentrati, specie durante le complesse operazioni di apertura dei piatti in un luogo che non sarebbe a questo deputato, ovvero la scrivania, costui pone le basi di quel che potrebbe trasformarsi in un futuro classico del web, affine per certi versi a The Numa Numa Guy (Gary Brolsma) un altro insolito comunicatore del quale tutti ancora si chiedono se davvero fosse quello che sembrava, per lo meno al momento in cui iniziò la sua strada verso la fama. In un mondo in cui, tra gli eventi di YouTube, la diffusione via streaming di segmenti televisivi e altre trovate pubblicitarie si sta ormai cercando di monetizzare ogni angolo del web, questo nuovo fenomeno del pasto informatico spicca per almeno due motivi. Intanto viene dalla Corea, un paese che ci affascina  per le implicazioni esotiche della sua cultura popolare moderna, sempre più sfrenata e originale. E poi, soprattutto, appare con le caratteristiche di una vera contingenza del momento. Un breve sguardo nella vita dell’uomo che amava mangiare di fronte al suo computer. E buon pro gli faccia.

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Senza maglietta per colpa di un orango

Caloy Orangutan

Visitando lo zoo, ci si dimentica spesso di una grande verità: guardare gli animali è un’attività reciproca, durante la quale si viene a nostra volta osservati attentamente, da ogni lato e prospettiva. L’elefante nel suo recinto, opportunista curioso, controlla se abbiamo una nocciolina tastando con la proboscide serpentina. La gazzella, il kudu e l’antilope, erbivori ungulati, diffidenti dei gesti o movimenti bruschi, cercano in qualche modo di adattarsi alle attenzioni del grande pubblico, gettando occhiate frenetiche in tutte le direzioni. Tigri e leoni, nobiltà lese, mantengono la propria fierezza grazie all’affettata ostentazione di un distacco riflessivo, magari aspettando il momento d’imporre la propria volontà. E le scimmie? Loro sanno qual’è il loro posto. Per una specie di animali che ha oltre il 99% del DNA in comune con gli umani, capire il mondo di oggi è un vero gioco da ragazzi. Carlo, l’orango del Borneo che tutti chiamano Caloy, vive a Davao, terza città più grande delle Filippine. La sua gabbia si trova nel Crocodile Park, famoso zoo-cum-rettilario della zona. Vivere la maggior parte della vita dietro le sbarre è già piuttosto dura, senza calcolare il comprensibile fastidio di chi è fatto oggetto di continue attenzioni, non sempre desiderate. Così, un giorno come gli altri, l’amichevole creatura decise che era giunta l’ora di fare il primo passo verso il cambiamento. Un nuovo look.

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