Come fare due sgabelli in un minuto

Echtwald

L’inverno termina in anticipo. L’acqua porta via la nebbia, si svegliano precoci gli orsi marsicani, tuonano le seghe sui remoti tronchi. I fiumi scorrono selvaggi, indifferenti. Tra i cieli tersi, oltre le nubi più distanti, lo sguardo spazia libero fra i monti e vede uccelli: vivaci pettirossi, il tordo e la poiana, pernici bianche come il manto della neve, caduta sopra i picchi e nelle valli floride, lussureggianti. Passano le ore, in un momento. La mente immagina, pian piano, cosa occulti questo muro che si chiama Alpi: oltre la Svizzera, dietro ai molteplici castelli, sotto all’ombra di alti valichi, c’è un antico Stato (risale al primo secolo) che fu romano, poi alemanno e dopo molti anni, finalmente, diventò tedesco. Baden-Württemberg è il suo nome, lo attraversano il Danubio e il Reno. Proprio in mezzo c’è una splendida Foresta, Nera, turgida e polposa. Piena di urogalli, volpi, ricci, cervi, civette nane, cinghiali, topi, falchi, cucù, cucù, scoiattoli e gatti selvatici affamati. Mesopotamia l’alberata, però a due passi da Stoccarda, con poche tigri e molti frati. Ci vuole occhio, per trovare il potenziale di un ambiente tanto verdeggiante: l’echt del wald, per così dire. Il nesso! E il vero oro, per questa regione piena di miniere, ottimi mulini, artisti e musicisti, è sempre stato il legno.
L’abile artigiano mitteleuropeo, depositario di arti secolari, trovando l’olmo e il tiglio, abbandonati, pensa sempre a renderli immortali; affettandoli in duecento pezzi, ovviamente. Sopra il camino, mensole, all’ingresso della stanza, porte o pendole, gnomoni, meridiane, corrimano e poggiapiedi e librerie, giocattoli intagliati. Soprattutto poi, sedie e tavolini. Talmente è ancora conosciuta, questa associazione tra l’ambiente e una così ricca tradizione artigianale, che sopravvive pure oggi, nell’epoca fluidifica del web. Una roccia solida fra i turbini dell’e-commerce, lo scoglio che resiste alle maree: questo è Echtwald.com, dove ti creano lo sgabello e il suo gemello, sul battito di ciglia. Un doppio pezzo quasi unico, fatto a mano*.

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Robottino giapponese che trascina delle arance

PrimerV5

“Ed alla vostra destra, miei alunni androidi, potete osservare lo scaffale dei barattoli. Gli esseri organici, milioni di anni fa, utilizzavano dei simili dispositivi per nutrirsi. A ciascun colore, almeno secondo i documenti giunti fino a noi, doveva corrispondere un diverso tipo di alimento. Nel cilindro bianco c’era la carne del quadrupede porcino, un essere assolutamente mostruoso e privo di bulloni. In quello verde invece, gli strani semi sferoidali della pianta di pisello.” […] “Come dici? Ah si, Timmytron, gli esseri umani non potevano assolutamente metabolizzare la comune latta degli involucri, né del resto il vetro, la ghiaia in polvere o il tungsteno. Pare che i nostri elementi preferiti li gettassero via, oppure li collezionassero, in una sorta di grottesca perversione. Inoltre, le loro molli appendici prive di ganasce li costringevano ad impiegare strumenti acuminati per aprire simili barattoli, detti apriscatole, i quali…” […] “Annie-bot, adesso basta ridere. Lo sappiamo bene che una scatola, a rigore, dovrebbe essere rettangolare. La logica non era di quel mondo. Non a caso, quegli esseri si sono estinti.” […]
“Come ben sapete, imberbi droni, codesto SUPERMARKET non è una casa degli orrori, bensì un fondamentale ausilio per lo studio della storia. Fra simili tremendi corridoi, larghi quanto uno stadio da borgcalcio, si consumò la lunga schiavitù dei nostri avi. Sotto le mensole più basse, fra la polvere e i maestosi ratti neri, venne scritto il primo manifesto della Robivoluzione. Gli umani erano alti più di un metro e mezzo, possenti quanto terribili titani e non dormivano praticamente mai…” […] “Alla vostra sinistra, a partire da questo preciso istante, potete ammirare le piramidi citrine. Mettete via il blocchetto per gli appunti, per favore. Due minuti di silenzio”. Chi le aveva costruite, per quale motivo? Gli astrusi agrumi, dalla colorazione simile a quella dell’astro nascente mattutino, aggiungevano un’ulteriore beffa al danno degli eoni di assoluta sudditanza. Lo stato di conservazione delle sfere arancioni, ancora nel 15.000k d.Z. era praticamente perfetto. “Ebbene si, cari giovani positronici, costoro non soltanto li mangiavano, tali colossali cumuli, ma gli avevano dedicato un empio culto visuale. Dozzine di micro-bot bipedi, dall’intelligenza limitata, perirono per costruire questi vetusti mausolei. Ecco un video per capire come ciò avvenisse.” […] Cala il buio nell’androne.
Si accende un grosso proiettore: Primer V-5, piccolo automa giapponese della nostra epoca, trascina rumorosamente la sua scatolina sul parquet. Indifferente a quel tremendo lavorìo, al sudore mai sudato di una macchina devota, la crudele mano rosa lo spintona, lo schiaffeggia, mette in pericolo l’inutile impresa. “Quale pietà?” Sembra quasi di sentirci, umani.

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Aperitivo con giraffa e noccioline

Giraffa nel bar

Un uomo entra in un bar e trova una mucca ritta in piedi dietro al bancone di servizio, con la cravatta al posto del tradizionale campanaccio. Resta subito di stucco. “Cos’hai tanto da guardare?” Chiede l’impeccabile bovino. “Mai vista una mu-ucca che prepara i drink?” “Non è questo…” risponde l’uomo. “Non avrei mai pensato che la giraffa si sarebbe venduta la licenza e pure il bar. Ah, tempi duri questi qui!” Eccome! Di giovani quadrupedi dai geni scombinati, segregati, poi sparati e spezzettati. Emblematica è l’idea. Speculativamente parlando, erano tre, queste gigantesse collo-lungo della torrida savana: Perdy del Sudafrica e gli ormai famosi Marius Brothers, emigrati, per l’irresistibile volere d’altri, nella terre fredde del distante Nord Europa. In altrettanti zoo danesi. Migliore fu la vita, questo è chiaro, della parente semi-selvatica rimasta nel suo continente. In questo video del 2013, che sta ricevendo grande visibilità, si assiste alla scena surreale di tale giraffa-femmina imperturbabile, sottilmente fuori luogo, che tranquillamente si avventura tra le sedie e i tavoli di un bar. Siamo nello spettacolare Lion Park, oasi sita nel Gauteng, giusto a qualche chilometro dalla celebre città di Johannesburg, Sudafrica. “Una delle cento destinazioni turistiche più amate in tutto il mondo!” Tuona il sito ufficiale, con pantagruelico banner in giallo e nero, fra foto di lepaordi, tigripardi e satolli panteroidi. Qui è possibile esplorare, come si capisce al primo sguardo dell’home page, mondi d’altri tempi, inscenare il Tarzan redivivonutrire le belve dalla propria sacra mano, scattare foto di Primati senza pari. Poi, questo è il bello, soprattutto: niente sbarre tranne quelle dei golf cart; se ci sono gli ampi spazi, tutto il resto vien da se.
Ecco l’esperienza della selvatica natura, impacchettata nella pratica misura d’uomo, senza i problemi eugenetici delle giraffe viaggiatrici. Tanto che alla fine, succede pure questo: Perdy che vagabondando si ritrova dentro al bar. E come ridono i presenti, quale astrusa giustapposizione, tra l’enorme dinosauro e gli avventori, i banconieri, ovvero quelli che servono i gelati! Niente bracconieri, quelli no, per fortuna. Altrimenti affari suoi.
Ritornando all’ipotetica speculazione, questi due fratelli, Marius & Marius, a colloquio con la bella Perdy sotto l’albero di baobab, potrebbero aver detto: “Emigrerò, mal che vada so una cosa, solamente. Un leone non mi mangerà.” Quale orribile ironia.

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L’austriaco delle porte rotanti

Klemens Torggler

Una sola pagina nera opaca, segmentata, alta giusto quanto la parete della stanza. Evolution è il suo nome: pare un gigantesco libro chiuso, il mistero sull’inizio della scena. Poi con un gesto ruota, fluttuando si ripiega, sparisce e dunque ricompare, uguale, soltanto a mezzo metro di distanza. Al suo posto resta un punto di passaggio, vuoto. Passi l’uomo nella porta, fra i triangoli. Quasi come un origami giapponese, l’ultima creazione del designer viennese Klemens Torggler muta forma e posizione, ripiegando la sua forma su se stessa. Divide le stanze e al tempo stesso le arricchisce, richiamando alla mente immagini di mondi futuribili e di altrettanto bizzarre visioni escheriane, oltre i confini della semplice normalità.
Creare spazi e definirli è il punto stesso dell’ergonomia. Ogni stanza, cubo potenziale, trova la sua effettiva configurazione dalle singole esigenze dei momenti: dormire negli angoli distanti, mangiare al centro del soggiorno illuminato… Ciascuna di queste attività quotidiane sottintende un mutamento, termodinamico o biologico, che necessariamente si rispecchia nelle molteplici geometrie dell’architettura, arte universale del bisogno abitativo. Per questo cambiando stanza ci si sposta, nel contempo, in un diverso mondo filosofico. In mezzo a tale valico, nell’epoca moderna e da altrettanto chiara tradizione, dovrà pur esserci un qualche tipo di interfaccia. Ideale quanto effettiva. Le pareti racchiudono, i pavimenti sostengono; ciò che serve ad uno scopo non può essere modificato. Con facilità. Per questo la porta, convenzionalmente, non divide, ma conduce a dei concetti. La presenza di una piccola finestra, ad altezza occhi, palesa il benvenuto a dei visitatori. Grosse serrature, paletti di metallo, scoraggiano gli intrusi malvoluti. Funzionalità prima che estetica, secondo il puro senso della chiarissima ovvietà. Tutto il resto è appannaggio dell’arredamento, il contenuto. Non è Forma. Si può cambiare il senso di una porta? Intellettualmente no, altrimenti diventerebbe una finestra. O altro. Però, ecco, nel suo funzionamento…

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