Il canto plurimo di una voce solitaria

Tuvan Singing

I popoli nomadi delle grandi steppe asiatiche avevano tre tesori: i resistenti cavalli mongoli, l’eccezionale arco composito di corno e il canto armonico Tuvano, in grado di sfruttare al massimo le potenzialità dell’apparato fonatorio umano. Non importa quanto fosse temibile un guerriero, quanto abile il capo-caccia di un clan, nessuno poteva dirsi più stimato di colui che fosse in grado di produrre a volontà il sibilo del vento, lo scorrere del fiume o persino la risonanza stessa del creato, almeno per come quest’ultima risultasse percettibile all’orecchio di un comune essere vivente. Si tratta, in effetti, di articolare più note contemporaneamente. Udendo da neòfiti l’abile Alexander Glenfield che riproduce ben sette diversi stili di questo canto distintivo potrebbe sembrare, in un primo momento, di stare assistendo a variazioni sul tema empirico del gargarismo. Attraverso gli altoparlanti di un comune PC, tutto quello che passa è il mantenimento prolungato di una singola vocale o consonante, RRRRR, AAAAA! Finché, quasi per caso, non si ode il flauto lontano che intona un’articolata melodia. Che sarà mai? Una registrazione di sottofondo? Niente di più sbagliato: quel ritmo acuto proviene dal profondo della sua stessa gola, assieme a tutto il resto. Trova la sua portentosa, incospicua generazione fra l’epiglottide e il mondo sensibile… La punta della lingua resta in basso, vicino ai denti, mentre la parte centrale si alza verso il palato. Le labbra sono lievemente aperte, quasi immobili, mentre impercettibili aperture o chiusure della bocca si occupano di modulare la nota bassa di sottofondo. L’avanzamento incrementale della base della lingua, con il conseguente ampliamento o restringimento dello spazio di risonanza detto vallecula, produce i toni medi o alti. Se non riuscite a sentirli, un consiglio: abbassate lentamente il volume, fin quasi a toglierlo del tutto. Ad un certo punto, improvvisamente, sparirà il rumore bianco e la musica “parallela” risalterà maggiormente, perfettamente chiara. Il procedimento è simile a quello usato per visualizzare uno stereogramma, l’immagine tridimensionale nascosta in un pattern ripetuto su di un foglio, che si allontana e avvicina gradualmente per renderla visibile ad occhio nudo.
Secondo la tradizione religiosa di certe branche del Ragala musica classica del sub-continente indiano, l’unico modo per comprendere la natura è saperla reinterpretare attraverso l’armonia sonora. Nel breve attimo in cui si emette una nota, lasciando fuoriuscire l’aria dai polmoni, si raggiungere uno stato transitorio d’illuminazione. E più a lungo trattieni il fiato, meglio riuscirai a conoscere il volto degli dei. Quindi per chi fuma, affari suoi.

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Pappagallo che fischietta la sigla di Totoro

Poko

Poko ha visto, Poko ha sentito e per finire si è pure innamorato. Stimolato dalla simpatia fiabesca di un coniglio gigante, ha scelto quindi di mettere in musica tutto il suo profondo entusiasmo. E il sentimento di quel sensibile pappagallo, candida calopsitta, coinvolge e trascina gli animi di chi lo ascolta, mentre, appoggiato sulla pianola del suo padrone, lui riproduce alla perfezione il tema principale del film Tonari no Totoro, uno dei cartoni animati giapponesi più famosi al mondo. Tutta l’armonica composizione, l’ironia narrativa, lo stile delicato di un simile capolavoro sono stati ottimizzati per un pubblico umano, eppure in quel film c’era una chiarezza d’intenti e un messaggio di fondo che potrebbero dirsi, appropriatamente, eterei, fluttuanti; lo spirito della foresta non passava certo il suo tempo all’interno di un albero di canfora. Era molto più che un roditore orecchiuto col pancione da matrioska, immagine ulteriormente rafforzata dalle due versioni in scala che sempre lo accompagnavano, costituendo una sorta di bizzarra trinità pelosa. Ogni notte, da quella svettante casa vegetale si alzava in volo, grazie all’ombrello magico, in cerca di boccioli da far dischiudere e nodi gordiani da sciogliere, seguìto talvolta anche dal suo fedele gatto gigante, un mezzo-autobus assolutamente non convenzionale. Molti degli esseri pennuti di quei luoghi, sentito il suo ruggito, presa coscienza dell’aspetto del suo entourage, devono essere fuggiti in tali spaventevoli occasioni. E il pappagallo Poko, il pappagallo Poko? Totoro affonda le sue radici nel folklore tradizionale del popolo giapponese. I kami, le antiche divinità Shintō degli alberi, dei fiumi e delle grandi rocce non erano certo entità puramente buone; in perfetta coerenza con le credenze animiste di ogni altro paese del mondo, secondo il ricchissimo leggendario che li riguarda erano anzi caratterizzati da un grado variabile di malignità e avversione ai loro “vicini”, fossero questi persone, uccelli o altri animali. Imparando a conoscerli, tributandogli un giusto grado di rispetto, dagli occasionali incontri con tali esseri era possibile trarre un qualche tipo di giovamento. Vedendo il film 10, 100 volte, ascoltando pazientemente il suo padrone impegnato di continuo sugli sfuggenti tasti del pianoforte, guadagnandosi una conoscenza musicale davvero approfondita di quel particolare, indimenticabile brano, Poko ha di gran lunga acquisito i requisiti minimi per entrare nelle volubili grazie del coniglione. Lui, crestato volatile senza un pensiero al mondo, non chiamerà magari il nome del kami per farsi aiutare nel ritrovamento di una sorellina smarrita, imitando la protagonista umana della storia originale. Forse gli basterà il piacere di poter sentire l’adorabile melodia, ancora e ancora. Facendosi eco da solo (quasi) in eterno.

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La roadster monoposto in vimini e bambù

Kenneth Cobonpue
Via

Un trionfo di linee curve, leggerezza aerodinamica e aspetto sobriamente combattivo, la Phoenix potrebbe dirsi una perfetta realizzazione del concetto di design al servizio di un mondo motoristico migliore, ecosostenibile, coscienzioso e visualmente sovversivo. Nata dalla mente di Kenneth Cobonpue, ispirato designer internazionale di origini filippine, occupa quello spazio esclusivo dei prototitipi automobilistici tanto futuribili, così originali e stupefacenti da non sfigurare nemmeno accanto alle più sfrenate creazioni di un qualunque autore di romanzi fantascientifici. L’idea è semplice: cancellare la necessità di smaltire i componenti e le carrozzerie dei veicoli destinati alla rottamazione, creando a tal fine la prima automobile biodegradabile del mondo. Ma il risultato finale è molto più di questo. Simile ad un coleottero che si prepari al dispiegamento delle sue ali, la Phoenix è stata esposta per qualche tempo negli spazi fieristici di via Tortona, a Milano, riscuotendo un successo straordinario;  quella che doveva profilarsi come una mostra di arredamento, campo principale in cui l’artista opera da molti anni, si è ben presto trasformata nel trampolino di lancio per questa concept-car che nessuno si aspettava, creata dall’artista in soli 10 giorni, grazie alla partecipazione e l’assistenza del giovane tecnico Albrecht Birkner. Oggi, incredibilmente, l’entrata in produzione non sembra più tanto improbabile. Le fiancate della Phoenix sono in vimini intrecciato, un materiale di cui Cobonpue viene considerato un grande maestro, mentre la “spina dorsale” che corre in alto al centro è fatta di bambù, con all’interno, nella parte posteriore, dei diodi al LED che fanno da luci di segnalazione. Lo chassis inferiore contiene, come inevitabili elementi di rafforzamento, alcuni pezzi in fibra di carbonio e acciaio, su cui trovano collocazione tre ruote ultraleggere.
Persino i più sfegatati sostenitori dell’auto in senso tradizionale, simbolo importante dell’industrializzazione e della subordinazione della natura all’uomo, intravedono in un prossimo futuro la progressiva scomparsa dei motori di grossa cilindrata e dei veicoli più inutilmente ponderosi. Questa splendida invenzione che viene dalle Filippine, con il suo aspetto rivoluzionario, potrebbe essere il giusto approccio al problema.

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La cavalcata dello scoiattolo rotante

Twirl a Squirrel

La dieta dello scoiattolo rosso americano (tamiasciurus hudsonicus) è sostanzialmente monotona e ripetitiva. Quando gli va bene, si nutre delle bacche o nocciole selvatiche che riesce a trovare nel sottobosco…Altrimenti dovrà accontentarsi di pigne, boccioli d’acero o larve di scarafaggio. Per questo ci riesce facile immaginare, con un certo grado d’empatia, la gioia dell’animale all’avvistamento di questa magnifica mangiatoia per uccelli, appesa da Viteacher alla grondaia di casa sua. Scalare una parete, saltellare fra una tegola e l’altra e poi discendere lungo il filo di sospensione è un gioco da ragazzi, per chi come Hardiman ha fatto dell’acrobatismo un credo, della destrezza uno stile di vita; il problema, semmai, è lo snodo. Infilata la zampetta nell’apertura pensata per il becco di un melodioso passero o cardellino, il roditore si accorge presto di aver fatto un grave errore: perché la struttura ricolma degli agognati semi è in realtà assicurata mediante l’impiego di un moschettone, in grado di girare liberamente a 360 gradi. Per effetto della stazza dell’ospite inatteso, decisamente più pesante di un visitatore convenzionale, la mangiatoia si abbandona quindi spontaneamente agli effetti della forza centrifuga, accelerando vieppiù. Al compiersi del primo giro, Hardiman appare ancora all’oscuro degli eventi, troppo preso dal gesto totalizzante di riempire il suo stomaco di materia commestibile. Fra il secondo e il terzo, la sua coda si trasforma nella pala di un elicottero peloso, mentre tenta in ogni maniera di bilanciarsi e continuare l’ebbra scorpacciata. A quel punto, è troppo tardi. Lo scoiattolo sta ormai sperimentando gli effetti stupefacenti di un trip allucinogeno: decolla insieme a un razzo della Nasa, sogna un dialogo con l’universo, gira senza posa verso l’infinito. Raggiunta la velocità di fuga, o un qualche tipo di massa critica, perde finalmente la presa e finisce all’interno di un cespuglio. Niente paura: secondo quanto raccontato dagli spettatori di una tale incredibile contingenza, lo scoiattolo ne è uscito poco dopo, senza aver subìto alcuna apparente conseguenza. Se non l’aver acquisito un certo senso di rispetto verso le imprevedibili creazioni dell’uomo, ben presto dimenticato.

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