Costruita la super-macchina di Homer Simpson

The Homer

Il pater familias per eccellenza non diventa per forza un’antonomasia positiva. Homer Simpson è un uomo pieno di risorse, che mantiene una famiglia di 5 persone con un lavoro di alta responsabilità, possiede una grande casa, ama sinceramente sua moglie e dimostra una notevole capacità di adattamento agli imprevisti. Nonostante questo, tutti tendono a ricordargli i suoi fallimenti. Come la volta in cui (seconda stagione, quindicesimo episodio) progettò un’automobile, da lui giustamente denominata “The Homer”. Il successo di una serie TV o cinematografica di lunga durata, in genere, è misurabile dal suo valore citazionistico. Ovvero, quanto la gente si ricordi, piuttosto che i caratteri generali, le singole situazioni. Il prototipo creato su schermo dal più amato dei Simpson è la realizzazione di questo concetto ideale: compare per un totale di 2 minuti, comodamente sufficienti ad imprimerlo nella mente di un’intera generazione. A tal punto che, dopo 22 anni, potrà finalmente mordere l’asfalto vero. Questa è la BMW E30 del 1987 personalizzata da Jeff Abides, partecipante dell’ultima edizione della gara dilettantistica americana The 24 Hours of LeMons. La somiglianza è lampante. Ci sono gli enormi portabibite esterni, la cupola posteriore d’incapsulamento per non sentire i bambini che discutono, il mega-spoiler nello stile delle auto anni ’50, il clacson a tromba sul tetto che suona la cucaracha (pezzo di ricambio prelevato da un trattore) e la vistosa presa d’aria sul cofano verde avocado. Il progetto originale prevedeva anche un suono del motore che ricordasse la fine del mondo, caratteristica fortunatamente soprasseduta dal costruttore. Se Homer può dirsi l’americano medio, nonostante abbia fatto l’astronauta, il missionario, il commerciante, il contrabbandiere, la mascotte, il baby sitter, il barman, il critico d’arte, l’insegnante, la rockstar, il giostraio etc, etc…  Allora questa folle accozzaglia veicolare è altrettanto rappresentativa di un’industria, quella automobilistica, che attraverso generazioni successive tende a perdere e ritrovare la sua strada. Un giorno, fra diversi milioni di anni, guideremo macchine volanti alimentate dalla deriva geo-magnetica dei continenti. In TV, probabilmente, daranno ancora i Simpson.

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La collezione degli orologi radioattivi

Orologi radioattivi

Un uomo entra in una stanza con un contatore geiger e misura una dose di radiazioni equivalente a 1.25mSV/ora, superiore a quella rilevata nei dintorni dell’incidente nucleare di Three Miles Island, verificatosi in Pennsylvania il 28 marzo del 1979. In sostanza, trovarsi in questa stanza è come farsi un esame radiologico l’ora. Al centro dell’ambiente c’è una vetrina, con dentro una collezione di pietre e anticaglie varie, in prevalenza orologi. Ci troviamo ben lontani da Fukushima o Chernobyl e questo non è un film o videogioco. Il tubo argentato di un sofisticato impianto di riciclo dell’aria, unica concessione verso l’umana prudenza, scarica attraverso le pareti gli umori nefasti e il grosso dei veleni racchiusi da quel semplice pannello di vetro trasparente. Chi tocca muore? Chi guarda, persino? Non proprio, perché siamo a casa di ALARAiswise, collezionista inglese di tutto ciò che abbia più di 50 anni e una lancetta, il quale ha trovato il modo per scoraggiare i suoi parenti e amici dall’invidargli il possesso di tali e tante meraviglie di modernariato. Semplicemente, dimostrandone la potenziale pericolosità. In effetti, non c’è oggetto di uso comune che sia più radioattivo di un orologio risalente al primo ventennio del ‘900. A quei tempi, l’entusiasmo collettivo per la chimica era come un’onda inarrestabile che si espandeva da un campo all’altro dell’industria, mietendo sulla sua strada molte vittime inconsapevoli. Tutto iniziò nel 1896 con la scoperta, da parte dello scienziato francese Henri Becquerel, di come l’elemento uranio generasse un impercettibile flusso di particelle fosforescenti. Due anni dopo Marie Curie, grazie all’aiuto di suo marito, rilevò l’esistenza del radio e del polonio, sostanze rarissime in natura e ancor più potenti, tanto da emettere una fievole luce per tutta la durata della loro emivita. La migliore prestazione a lungo termine, da questo punto di vista, era quella offerta dal radio, che mescolato ad altre sostanze poteva brillare a distanza di anni. Così, le compagnie di allora ci fecero una vernice detta Undark (il non-buio) che avrebbe risaltato in ogni condizione di visibilità. Poi, la misero da tutte le parti, compresi i polsi e le tasche delle persone.

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Vent’anni di Power Rangers, danzanti su fondo nero

Power Rangers

C’è un tipo di supereroe molto particolare, che quando i mostri attaccano la Terra non si cambia semplicemente d’abito, ma esce di scena, chiama un’esperta controfigura vestita di pregevole spandex giapponese, rigorosamente rosso, giallo, blu, verde o nero e aspetta con pazienza, nascosto da qualche parte, il ritorno di uno stato di quiete. I Power Rangers, a causa di quel particolarissimo modus operandi, sanno rappresentare al 100% due degli aspetti più determinanti delle modalità di scambio intellettuale fra Stati Uniti ed Estremo Oriente. Si tratta del fascino internazionale per la fantasia estetica di un paese esotico e la distanza, talvolta incolmabile, tra i reciproci presupposti culturali. Con questa favolosa danza, coreografata secondo le modalità di un kata di arti marziali e basata sul classico effetto speciale del morphing, si realizza un interessante tributo per il ventesimo anniversario della serie, celebrato mediante la fluida evoluzione del più popolare fra i protagonisti, il ranger rosso.
La storia inizia nel 1993, con la compagnia di produzione occidentale Saban Entertainment che, acquistati i diritti di una popolare serie TV nipponica per bambini, Super Sentai, si ritrova ad affrontare una problematica spinosa: come introdurre al pubblico le vicende narrative di un gruppo di personaggi nati e vissuti nel Giappone moderno, esperti utilizzatori di tecniche ispirate alle arti marziali di quei luoghi ed altrettanto legati, nelle vicende vissute quotidianamente nella loro identità alternativa, a dei presupposti sociali così fortemente nazionali. Attraverso le ultime generazioni dei fumetti, delle serie TV e dei molti cartoni animati importati verso l’Europa e gli Stati Uniti, l’adattamento propositivo e la censura degli editori, in situazioni analoghe, hanno portato a cambiamenti anche significativi, non sempre per il meglio. Galeotto fù, questa volta, il casco integrale con la visiera fumé. Saban, sfruttando l’irriconoscibilità dei protagonisti durante le fasi d’azione, scelse una soluzione (secondo loro) geniale, ovvero quella di sostituire in toto l’intera parte recitata del telefilm con dei segmenti realizzati a partire da zero – Stranamente, quello che riuscirono a trarne, in certi ambienti, è leggenda. Teenager che affrontano i classici problemi della vita scolastica americana, fra bulli, pupe, esami, football e cheerleader, che si radunano occasionalmente in una caverna sotterranea, indossano le loro tute aderenti e partono per dare battaglia a mostri di gomma vagamente godzilliani, dall’interno della cabina veicolare di valide alternative a Goldrake o Mazinga. Mecha, tokusatsu e i valori preferiti del popolo americano. Puro surrealismo televisivo.

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Come farsi lo shampoo nello spazio

Karen Nyberg

Nello spazio cosmico infinito, non c’è aria, non c’è gravità e mancano i barbieri. Proprio per questo, chi lascia l’atmosfera della Terra ha sempre un piano. I capelli te li tagli oppure… Nell’immaginario comune della prima epoca spaziale, tra gli anni ’60 e ’70, l’astronauta era un tipo ben preciso. Imponente, virile, mascella quadrata: l’ideale personificazione di un eroe dei romanzi fantascientifici del genere pulp, pieni di mostri alieni e pianeti misteriosi. I capelli erano generalmente corti, perché questo ci si aspettava da un eroe in carriera, proveniente da un ambito, l’aeronautica sperimentale, particolarmente affine a quello militare. La corsa allo spazio, del resto, era un modo fondamentale per imporre il predominio tecnico di una nazione sulle altre, una ragione di contrasto, piuttosto che di aggregazione. I motori erano potenti, la Luna pericolosamente vicina e i capelli sempre, invariabilmente, corti. Ciò ha una sua logica: in assenza dei presupposti fisici di un pianeta come il nostro, persino i gesti più semplici possono diventare complicati. Diffusa è la leggenda secondo cui la NASA avrebbe investito milioni di dollari per produrre una penna biro con serbatoio pressurizzato, mentre i russi preferirono usare le matite. La storia è falsa, ma il problema tecnico è pervasivo e onnipresente. L’unico modo di superare questo tipo di ostacoli è fare come Karen LuJean Nyberg, l’astronauta statunitense che oggi ci mostra come si lava la testa ogni giorno (o quasi) da quando si trova sulla Stazione Spaziale Internazionale orbitante, a 460 Km dal livello del mare. Lo shampoo impiegato è, ovviamente, a secco, perché le scorte di acqua sono limitate. Spremendo la bottiglietta argentata con il tubo, simile a quella di un succo di frutta, lei depone qualche preziosa gocciolina sulla cute, mentre altrettante volano via come biglie impazzite. Poi aggiunge il sapone e si strofina energicamente con l’asciugamano per “Aiutare lo sporco a venire via”. Un colpo di pettine sarà quanto basta a restituire la giusta compostezza. Il risultato finale non è niente male, specie considerate le implicazioni complesse dell’ambiente in cui si svolge l’operazione. Liberi dalla continua attrazione della forza di gravità, i lunghi capelli della Nyberg si disperdono in alto come quelli di una bambola troll, in attesa di essere nuovamente intrappolati, all’interno di una più pratica coda di cavallo. Nello spazio bisogna sempre avere un piano.

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