Il coccodrillo cromaticamente anomalo nella caverna, inusitato predatore del Gabon

Penetrare attraverso gli strati del sottosuolo costituisce spesso un viaggio attraverso il tempo, come ben sapeva nel 2008 l’archeologo francese Richard Oslisly, avventurandosi oltre l’apertura dell’ingresso nelle caverne di Abanda, situate nei pressi della laguna atlantica di Fernan Vaz. Nella speranza di trovare reperti o prove del pregresso insediamento di antiche genti, nel cuore più profondo di quello che viene considerato il più antico dei continenti. Ciò che egli non si immaginava, tuttavia, era di trovarsi letteralmente trasportato fino alla Preistoria, trovandosi a stretto contatto con creature che l’evoluzione aveva lungamente dimenticato. Quando una coppia d’occhi rossi, subito seguìta da moltissime altre, comparve ai margini di una delle ampie sale allagate del complesso network sotterraneo, accompagnata da un soffio che rapidamente si trasformò in un muggito sommesso. Dopo un attimo di spiazzamento riuscì poi a comprendere ciò di cui aveva invaso il territorio: un’intera comunità lontana dalla luce degli astri, dagli alberi della foresta e dal soffio del vento, d’improbabili coccodrilli africani. Non del tipo comunemente associato al quasi-dinosauro che non si è mai estinto, lungo fino a 4 metri tra le acque dell’antico fiume Nilo. Bensì appartenenti alla specie più piccola, ma non meno aggressiva, dello Osteolaemus tetraspis o coccodrillo nano, pesante in media una trentina di Kg e dalle dimensioni spesso paragonate a quelle di un cane medio. Il che avrebbe portato l’accidentale intruso umano, responsabilmente, a battere in ritirata ma soltanto per il tempo necessario a prepararsi. Così da far ritorno, due anni dopo, accompagnato dal connazionale speleologo Olivier Testa e l’esperto americano di alligatori Matthew Shirley, entrambi entusiasti di collaborare alla pubblicazione dell’inusitata scoperta. La cui portata, in quel momento, non potevano neppure immaginare, giacché nel momento in cui, cooperando efficientemente, riuscirono a legare e trasportare all’esterno uno di quegli animali, fecero la più inaspettata delle scoperte: quel coccodrillo, assieme a circa una decina d’altri, era di un acceso color arancione. Questione alquanto inaspettata quando si considera come la specie in questione, tipicamente notturna, è nota proprio per la scurezza delle proprie scaglie e placche di osteodermi corazzati, con la funzione di passare inosservato ai predatori. Possibile che il dinamico trio avesse a questo punto, andando incontro alle proprie più rosee aspettative, scoperto una categoria completamente nuova di coccodrilli?

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L’incipiente disastro in Alaska dei fiumi che si tingono d’arancione

In un memorabile sketch, fin troppo vicino alla credibilità, del vecchio telegiornale satirico The Onion, gli abitanti di una città si riuniscono presso una diga prossima alla tracimazione. Il sindaco con luttuoso contegno, pronuncia il discorso in memoria delle vittime dovute all’allagamento, che nel giro di alcuni giorni spazzerà via un intero quartiere abitato dai suoi elettori meno abbienti. “Faremo tutto il possibile, ma con supremo rammarico ci renderemo conto che ormai sarà troppo tardi per l’evacuazione.” Se soltanto fosse stato possibile intervenire in qualche modo per alterare il corso degli eventi! Aggiunge il reporter, mentre gli addetti tolgono il telo che copriva il monumento commemorativo, dedicato alle decine di vittime destinate a morire prima della fine della settimana. Questa stessa inquietante immagine risulta perfettamente applicabile alla situazione corrente del mutamento climatico terrestre. Una “teoria” secondo alcuni, capaci di convincere le masse fondamentalmente disinteressate, grazie alla preponderante idea che se pure i segni esistono, possono essere variabilmente interpretati. Che se malauguratamente ci fosse qualcosa di vero, forse i nipoti dei nostri nipoti (che ci importa?) Potranno iniziare a percepire, con estremo senso di pregiudizio, un “lieve” aumento delle temperature nei mesi più caldi dell’anno. Certo, se davvero le cose fossero così semplici… Nel frattempo a partire almeno dal 2018, gli addetti al servizio forestale, i ricercatori ed altri utilizzatori abituali di mezzi volanti nel vasto territorio alaskano degli Stati Uniti d’America, hanno notato qualcosa di precedentemente inusitato. Una perdita di sfumature nella vastissima rete idrologica di tale stato, che ha visto il naturale cromatismo azzurrino delle acque incontaminate verso l’aspetto riconoscibile di una zuppa di piselli condita col pomodoro. Punto nodale di un fenomeno di causa ed effetto, le cui conseguenze non subito evidenti, prima di essere approfondite nel corso dell’ultimo mezzo decennio, colpivano già per la loro assoluta mancanza di precedenti. Perché di certo nessuno, prima di allora, aveva mai visto e neppure sentito parlare di un evento simile con portata così straordinariamente ampia: il Salmon River e i suoi affluenti, così come 75 corsi e torrenti nell’area fluviale del Brooks Range, con un’area complessiva ragionevolmente incontaminata dotata dell’estensione geografica del Texas intero, trasformati nel disegno fatto con l’evidenziatore su un’ideale mappa satellitare delle vagheggianti distese nordamericane. Ora è del tutto naturale pensare che se un cambiamento tanto esteso avviene in maniera così repentina, debba necessariamente costituire un effetto diretto o indiretto della mano dell’uomo. Il che lasciò inizialmente perplessi gli scienziati poiché come possiamo ampiamente testimoniare, l’Alaska è uno degli ultimi luoghi privi di fabbriche o industrie di sfruttamento al di là di specifiche zone importanti per l’industria mineraria o del petrolio. Quasi mai effettivamente adiacenti, sul territorio, alle zone coinvolte da una simile deviazione spontanea verso lo spettro vermiglio dell’arcobaleno. Lasciando così lo spazio a numerose teorie empiriche, finalmente confermate soltanto verso la metà di quest’anno con un paio di studi indipendenti pubblicati su riviste scientifiche, che il nodo del problema corrisponde effettivamente alla sua stessa fonte. Gettando l’ombra di notevoli e significative preoccupazioni future, che potrebbero anticipare di molto lo spettro incombente della conseguenza inesorabile dei nostri gesti…

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Il cuculo dal becco scanalato, demone delle battaglie tra gli uccelli australiani

Mentre i fiocchi cadono sulle città del Nord Europa, e con l’arrivo australiano dei mesi secchi ed aridi dell’avanzata primavera, ogni anno le genti di Sydney devono accettare il reiterato problema. Delle agguerrite gazze dal piumaggio contrastante, che costruiti i propri nidi sopra gli alberi, i lampioni, i cornicioni, dove capita… Diventano guardiani di quel territorio in grado di piombare, come razzi con gli artigli, contro gli occhi e il volto di chiunque abbia l’ardore inconsapevole di transitare nelle immediate vicinanze. E potrebbe allora diventare ragionevole, in linea di principio, temere tale uccello più di ogni altro volatile del continente, sebbene egli stesso, come il currawong, l’artamide ed il corvo, possiedano di loro conto un timore radicato e profondo. Di colui che giunto lieve nella sfera d’influenza, con un grido autoritario possa dare l’ordine: sarete voi a nutrire nostro figlio. Altrimenti! Grosso, grigio e con la coda che ricorda una scacchiera, mentre il becco curvo è più che altro simile a un coltello arabo jambiya, il cuculo dagli occhi cerchiati di rosso può raggiungere agevolmente il peso di un chilo. Risultando di gran lunga maggiore dei bersagli del suo parassitismo di cova, il che contribuisce paradossalmente alla percentuale dei suoi successi. Questo perché il “piccolo” neonato, una volta venuto al mondo nella conquistata dimora, non avrà neppure la necessità di uccidere gli inconsapevoli fratellastri, gettandoli fuori dal nido. Ma piuttosto sarà in grado di monopolizzare l’attenzione di quei genitori largamente giudicati intelligenti, che non possono d’altronde ergersi al di sopra della programmazione istintiva di cui l’evoluzione ha saputo dotarli, proseguendo ad imboccare il loro gigantesco e presumibile nuovo nato. Finalità, per inciso, raggiunta con un singolo e insistente approccio: produrre il proprio verso rauco dalla tonalità crescente, senza mai fermarsi in pratica neppure nelle ore notturne. Gettando, in tale modo, ulteriore sconforto tra i proprietari di dimore in prossimità di parchi e giardini.
Una creatura dunque per certi versi infernale, che contrariamente allo stereotipo di Internet non è neppure endemica dei territori australiani. Essendo tale terra dei canguri, per lui soltanto la destinazione di soggiorno dei mesi più caldi, mentre al ritorno dell’inverno di quel lato della Terra, volerà ancora una volta a settentrione verso l’Equatore per trascorrere il resto dell’anno in Indonesia, Nuova Caledonia, Nuova Guinea. Potendo prendersi quel tempo di pacata soggiacenza, per riposarsi meditando le ulteriori malefatte dell’anno a venire…

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La fragile soglia sul sentiero che protegge il piccolo pinguino dell’Isola del Granito

Trattasi del classico caso in cui: l’uomo si avvicina alla natura, facendone il suo spazio personale. Il pennuto che abitava tale luogo soffre, poi si adatta nonostante tutto alle impietose circostanze. Quindi l’uomo accompagna il perfetto predatore degli uccelli nuotatori nel miglior terreno di caccia mai conosciuto dalla sua stirpe. Poi costruisce una speciale via d’accesso, completa di pratica rampa e parapetto, per condurre presso l’ultima fortezza dei pinguini la volpe rossa.
Una strana e inconsapevole alleanza, da tutti e tre i punti di vista, eppur così drammatica nel minacciare l’esistenza di una specie che precorre lungamente l’allinearsi di questi fattori. Essendo precedentemente giunta a costituire, per le leggi della selezione naturale, l’esempio sorprendentemente poco conosciuto del più piccolo pinguino al mondo, Eudyptula minor che senza minacce pre-esistenti, configurava il suo proprio stile di vita sull’acquisizione di piccoli e pesci molluschi nella zona costiera delle coste australiane e della Nuova Zelanda. Nonché quelle particolarmente serene delle piccole isole situate nelle intercapedini di quel continente emerso. Vedi quella situata a meridione della laguna di Adelaide, chiamata l’Isola del Granito per via dei distintivi macigni che ne occupavano l’entroterra, attorno ai quali prosperava una moltitudine di alati nuotatori che superava abbondantemente le due migliaia di esemplari. Finché nel 1875 non venne malauguratamente deciso, dall’amministrazione della capitale nazionale, di estendere il molo in legno della zona portuale fino alla terra emersa antistante, facendone una delle attrazioni più apprezzate dell’Australia Meridionale nonché una pratica via d’accesso, percorsa da un tram trainato dai cavalli, per i turisti che volevano, idealmente, “apprezzare” quei luoghi ameni. La situazione tuttavia degenerò quando qualcosa di teoricamente prevedibile ebbe l’occasione d’iniziare a verificarsi. Considerate ora che uno studio demografico approfondito della popolazione dei pinguini minori non è disponibile fino al 1994, quando fu stimata attorno ai 1.600 esemplari; meno i 75, s’intende, che in quello stesso anno uno soltanto di quei temibili predatori dalla lunga coda, introdotti nel XIX secolo per fini ricreativi in Oceania, uccise nel giro di tre notti, prima di essere a sua volta finalmente trasformato nel bersaglio di un accurato fucile. Il che non fu neppure colpa della volpe, ancorché sarebbe capitato di nuovo l’anno successivo, con una seconda intrusa capace questa volta di divorare 17 pinguini nel giro di una singola notte. Il che avrebbe portato, finalmente, alla costruzione di un centro per la tutela e allevamento di questa specie non endemica ma indubbiamente singolare, mentre fuori da quelle solide mura la popolazione continuava rapidamente ed inesorabilmente a diminuire…

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