La cultura che indossava pesci palla per proteggersi la testa dai colpi delle mazze di squalo

L’inizio del combattimento giunse nel momento concordato, per risolvere il complesso contenzioso territoriale. Mesi, anni addirittura, trascorsi dai reciproci capi villaggio a conferire in merito al possesso di un piccolo appezzamento di terra, insignificante per gli standard continentali ma di enorme valore qui, tra i limitati confini dell’atollo corallino di Tarawa, dove risiedeva l’antica discendenza di Tabukaokao. Finché l’acredine residua, per non chiamarlo vero e proprio odio latente, non si trasformò nel seme combattivo di un pretesto. Non che a loro servisse veramente una ragione, per confrontarsi facendo uso di violenza e le armi acuminate frutto di una raffinata tradizione: i giovani guerrieri, riceventi dei segreti marziali del clan. Il gigantesco Betero, a quel punto, fece il suo ingresso nella radura, girando attorno all’alto tronco della sua palma. Dietro la quale, assistito da un gruppo di scudieri, aveva indossato l’armatura simbolo di Nabakai, il leggendario eroe capace di parlare coi granchi. Le spalle coperte da un’impenetrabile pannello di cocco intrecciato, stesso materiale da cui erano ricavate la maniche e calzoni di spessore significativo. Il petto coperto da una pelle di razza porcospino. Sulla testa un copricapo dall’aspetto spaventoso, costruito con il corpo intero del barantauti, pesce palla velenoso degli oceani antistanti. Stretta nella mano, la pesante mazza a forma di tridente, i cui denti si diceva che lui stesso avesse estratto a mani nude dalla bocca del koro, lo squalo mangiatore di pescatori. Un coro d’insulti si levò a quel punto dalle donne del clan Tabiang, mentre il loro campione Ioteba faceva un passo avanti, già abbigliato con un tipo più leggero di panoplia. Tutta realizzata in sennit, resistenti fibre di quell’albero decorate con figure triangolari, oltre ad alcune conchiglie sferoidali appese per decorazione, che tintinnavano rumorosamente con un senso latente d’aspettativa. La parte delle spalle e del capo protetta da un alta barriera legnosa, con una singola fessura per guardare fuori. E le maniche terminanti in un paio di tirapugni, intrecciati con capelli usati per fissarvi un’altra pletora di denti, affilati come pericolosi coltelli. Tutto ciò per onorare, doverosamente, il credo del suo clan consistente nell’affermazione: “Per ogni pugno che ricevo, ne assesto quattro.” Che egli si affrettò a lanciare all’indirizzo del suo rivale, seguito da un disarticolato grido battagliero d’incitazione. Ci fu soltanto il tempo per gettare un ultimo sguardo all’indirizzo della spiaggia, dove alcuni marinai stranieri e preti dall’abbigliamento cupo li guardavano con espressioni miste di rimprovero e spavento. Prima che sassi e rami appuntiti iniziassero a volare da una parte all’altra del campo di battaglia e i due guerrieri, Ettore ed Achille delle oceaniche circostanze, iniziassero a cozzare con la furia ereditata in secoli di tradizioni e orgoglio.
La natura guerrafondaia e cruenta delle genti delle cosiddette isole Gilbertesi fu in effetti nota fin dai primi contatti con la civiltà occidentale, avvenuti solamente tra il XVII e XVIII secolo. Quando in tali territori recentemente trasformati in un protettorato inglese già sussisteva da molti secoli una raffinata cultura collegata al combattimento, per certi versi paragonabile a quella delle arti marziali asiatiche, particolarmente quelle provenienti da Cina e Giappone. Con vere e proprie “scuole” ereditate segretamente, dai depositari di precise tecniche d’offesa e contrattacco, variabili tra pugni, calci, prese e chiaramente, l’utilizzo di una vasta serie di armamenti. Il che solleva un’imprescindibile questione preliminare, relativa a come esattamente il popolo degli I-Kiribati, del tutto privo di risorse minerarie o conoscenze per lavorare i metalli, nonché grandi quantità di legno, corno o tendini animali, potesse costituire gli strumenti materiali necessari ad innalzare il tono della battaglia. Giungendo alla sola possibile risposta che dovessero, necessariamente, provenire dal mare. Il che, come spesso avviene, può essere soltanto definito come il primo capitolo della storia…

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Una festa dalla Cina che dimostra lo splendore pirotecnico del ferro fuso

La testa e la coda, l’alfa e l’omega, la cima e le radici. Non sempre chi pronuncia le fatidiche parole: “Buona fine e buon principio” riesce a realizzare il presupposto conflittuale contenuto in una simile prerogativa, il senso battagliero e fondamentalmente disarmonico che viene generato dall’incontro tra due fasi tanto differenti di un processo in corso di realizzazione. Come quello, per l’appunto, del procedere degli anni ovvero il capodanno, ricorrenza che prevede per l’appunto l’utilizzo di una simile tipologia di auguri. Una costante logica nel senso espresso, se non nelle parole, attraverso l’ampia pletora delle culture e dei linguaggi che si affollano attraverso gli ampi angoli geografici di questo mondo. Come non riesce ad esserlo, di contro, l’effettiva scheggia del continuum presso cui si giunge all’epoca del cambiamento, intesa come il velo cronologico tra l’una e l’altra circostanza; vedi tutto il caso dell’Estremo Oriente, in cui il concludersi di un ciclo stagionale viene individuato tradizionalmente grazie alle fasi lunari, trovandosi per questo in una data variabile tra il 21 gennaio ed il 20 febbraio al conteggio gregoriano dei mesi. Casistica in corrispondenza della quale da ormai almeno 500 anni, nel villaggio non distante da Pechino di Nuanquan, prefettura di Zhangjiakou, tende compiersi un’epica e spettacolare battaglia. Cui non possono mancare di partecipare tre diverse fazioni: un gruppo di fabbri protetti da pelli di pecora e cappelli a tesa larga, il muro di mattoni refrattari dell’antica fortezza cittadina, e un enorme crogiolo di metallo liquefatto, fumante e riscaldato al calor rosso, che potrebbe vagamente ricordare il nucleo di una stella catturata per il pubblico divertimento. Una configurazione già piuttosto stravagante, ancor prima che al palesarsi di un segnale non troppo evidente, gli uomini guidati dal riconosciuto capomastro immergano le loro armi, degli enormi cucchiai in radice di salice, all’interno di quel brodo fiammeggiante. Estraendone copiosi globuli infuocati e poi gettandoli con enfasi devastatrice all’indirizzo di quella parete, che immediatamente li respinge producendo una deflagrazione, causa il significativo differenziale di temperatura offerto dalla propria impenetrabile superficie. Ciò che ne deriva, in base alla pregressa cognizione dei locali, è la rigogliosa chioma dell’albero o fiore di fuoco, metaforicamente rappresentata da un pericoloso diramarsi di scintille luminose, tali da bruciare, ustionare, purificare il male mentre scacciano gli spiriti persistenti dai drammatici e sgradevoli episodi dell’anno trascorso. Il “Colpo ai fiori dell’albero” (打树花- Dǎ shù huā) una soluzione molto… Drastica, e per certi versi irragionevole a un problema filosofico che fin troppo ben conosciamo. Ma che proprio per questo, appare caratterizzata da quel grano d’innegabile eredità culturale, che può essere individuato come patrimonio intangibile della Cina e il resto umanità intera, con tanto di riconoscimento da parte dell’UNESCO, assieme ai tradizionali ritagli di carta originari di questa regione. Tutto bene dunque, purché non capiti un piromane, prima o poi, ad occuparsi della problematica dicotomia apparente…

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Tre palle d’acciaio: lo strano secolo dei carri armati rotanti

La porzione avanzata del reggimento sovietico di Cavalleria Mongola Meccanizzata si dipanò dinanzi agli occhi di Tetsuo all’interno della valle del fiume Tumen, nella calda estate del 1945. Dozzine di carri armati, pezzi d’artiglieria, cannoni semoventi, accompagnati da una fila interminabile di uomini armati con fucili, mitragliatrici ed armi anticarro. Scrutando innanzi dall’angusta fessura del suo veicolo di fabbricazione tedesca, egli comprese come i suoi connazionali a Port Arthur avessero soltanto un’ultima possibilità di evacuare con successo il Kwangtung, sotto il comando del generale Otozo Yamada: un bombardamento strategico dei treni di rifornimento, possibilmente in grado di coinvolgere anche il munizionamento nemico. Una mansione possibile soltanto mediante l’identificazione precisa del punto da colpire, mediante l’accensione di un enorme faro notturno, l’ultimo fuoco d’artificio da lanciare prima dell’abbandono definitivo della speranza. A quel punto Tetsuo, stingendosi la fascia con il Sol Levante, osservo per un’ultima volta la foto della sua cara Asahi sopra il pesante contenitore d’esplosivo, verso l’alba splendente oltre l’oscurità di un mondo che non il significato del termine “speranza”. Egli sapeva fin troppo bene come l’armatura sottile del Kugelpanzer non avrebbe potuto resistere al fuoco sostenuto di un fronte di battaglia. Ma se tutto fosse andato secondo i piani, non ci sarebbe stato neanche la necessità di farlo; poiché un simile strumento di battaglia, rispetto a quelli nemici, aveva un vantaggio molto significativo: il rotolamento. E una capacità di movimento che mai nessuno, prima di allora, si era trovato ad affrontare. Nessun grido, né ultime declamazioni roboanti…Non ancora; “Lunga vita all’Imperatore, vendetta per lo spirito dei samurai.” Pronunciò tra se e se il soldato, preoccupato di attirare attenzioni indesiderate. Quindi con un colpo volitivo all’acceleratore, mano ferma sul manubrio, spinse innanzi quella sfera fino al punto di non ritorno. I cinque chilometri orari possibili lungo la strada orizzontale furono ben presto superati. Quindi i 10 e i 15, mentre la sella sopra cui era posizionato s’inclinava minacciosamente da una parte all’altra, lungo la scarpata in bilico sugli orizzonti di gloria. Il suono roboante del rotolamento continuava ad aumentare, quando grida riecheggiarono distanti e quale primo sparo, incerto, all’indirizzo dell’oggetto totalmente privo di precedenti. Foglie ed erba crearono un turbinìo vorticante. Gli occhi incollati alla stretta fessura di guida, Tetsuo fece il possibile per controllare la valanga, schivando prima uno, quindi due e tre forme corazzate, probabilmente appartenenti ad altrettanti T-34 o simili dispositivi corazzati. Adesso, è il momento, Tenno Heika Banzai! nell’attimo finale, non ci fu tempo di pensare ad altro che la posizione del pulsante d’innesco, e che il sommo spirito di tutti i Kami guidasse le bombe all’indirizzo del fondamentale bersaglio, temporaneamente illuminato dalle fiamme. Giunti a quel punto, non è possibile trovare un posto garantito tra le pagine della storia. Ma questo fatto, ormai da tempo, era riuscito ad accettarlo. Poiché c’era un’altra sfera, pronta a compiere l’estremo sacrificio se la sua missione non avesse raggiunto l’obiettivo desiderato. Dopo tutto, ogni palla deve avere il suo compagno.
Di sicuro, potrà sembrarvi ragionevolmente improbabile. Ecco perciò qualche altro possibile utilizzo per uno degli oggetti più bizzarri che i lunghi anni di guerra fossero riusciti a produrre: una postazione semovente di difesa (ma troppo vulnerabile) un veicolo di perlustrazione (ma troppo lento) un mezzo di avvistamento per l’artiglieria dotato di radio a bordo (ma troppo rumoroso). E così via, a seguire. Il semplice fatto che il carro armato tedesco sferoidale, il ragionevolmente iconico Kugelpanzer, sia fuoriuscito in un momento indefinito dalle fabbriche della Krupp sarebbe stato già abbastanza sorprendente. Se non fosse per il fatto che qualcuno, per ragioni poco chiare, aveva dato istruzioni di caricarlo sopra un treno e trasportarlo fino in Estremo Oriente, dove i sovietici lo ritrovarono durante le fasi culmine della campagna d’Oriente, all’interno di un deposito giapponese. Possibile che tutto ciò costituisse unicamente un errore? Chi aveva mai pensato che una cosa simile potesse servire a qualcosa, e perché?

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L’avveniristico robot umanoide creato per effettuare la manutenzione delle ferrovie giapponesi

“Le gambe… Sono soltanto una decorazione, ad ogni modo” affermava con la canonica sicurezza l’eroe oscuro Char Aznable, rivale del protagonista terrestre Amuro Ray, poco prima della battaglia per porre fine alla guerra durata un anno, presso la base asteroidale di A Baoa Qu. Di fronte a lui, il titanico mobile suite da combattimento MSN-02 Zeong, costruito al fine di massimizzare i suoi riflessi e potenzialità mentali superiori, tipiche degli umani geneticamente adattati all’assenza di gravità noti come Newtype. Un mezzo da combattimento che sarebbe stato imbattibile in combattimento, se soltanto ci fosse stato il tempo di completarlo. Ma che pur completamente privo degli arti inferiori, avrebbe dato notevole filo da torcere al nemico fluttuando nello spazio cosmico, finendo per distruggersi a vicenda col temuto RX-78-2 Gundam, eponimo robot della serie. E dopo tutto, anche in linea di principio, come dargli torto? Dopo gli oltre 40 episodi, in cui più volte il co-protagonista Hayato Kobayashi era venuto in aiuto della causa comune, ai comandi dell’ormai obsoleto Guntank, macchina d’artiglieria umanoide capace di spostarsi unicamente su una coppia di cingoli, secondo le linee guida di un comune carro armato. Ma il concetto che una tale soluzione debba necessariamente costituire un compromesso, rispetto alle movenze più “eroiche” dei robot dotati della stessa quantità di arti degli esseri umani, deriva da sensibilità tipicamente appartenenti al mondo creativo e fantastico, dove una particolare estetica dei partecipanti al dramma determina il destino delle loro gesta nel dipanarsi della vicenda. Laddove nel mondo artificiale come quello creato dall’evoluzione della biologia, ogni essere viene al mondo con uno scopo, da cui deriva l’ottimizzazione delle proprie caratteristiche inerenti.
Il che è compreso molto bene nell’ambito della moderna società giapponese, dove fin dall’immediato dopoguerra la tecnologia dei nostri giorni è vista come uno strumento privilegiato, utile a risolvere i problemi di questo mondo ed agevolare l’inizio di una nuova epoca, il cosiddetto Secolo Universale immaginato da Yoshiyuki Tomino, autore ed ideatore della serie pluri-generazionale del robot Gundam. Perciò chi meglio di loro, le Ferrovie di Stato (JR – Japan Railway) poteva mostrare l’andamento futuro di un tale percorso, grazie all’implementazione dimostrativa di un sistema che non è soltanto marketing, ma una sincera applicazione utile a risolvere un ostacolo per nulla trascurabile allo svolgimento delle sue mansioni: la quantità statisticamente rilevante d’incidenti annuali, che tendono a verificarsi durante gli interventi per la sostituzione e riparazione della segnaletica, delle stazioni e i tratti di ferrovia soggetti a maggiore usura, fino ad oggi effettuati con notevole dispendio d’energia umana, proprio perché il tipo di precisione richiesta risulta essere maggiore di quella posseduta da una macchina… Convenzionale. Ed è qui che entra in gioco la Kabushikigaisha hito-ki ittai (株式会社人機一体 – Letteralmente: Human Machinery Inc.) compagnia startup nata in grembo all’Università di Kyoto Ritsumeikan nell’ormai remoto 2007, originariamente al fine di creare macchine robotiche per la manutenzione nel vuoto spaziale. Almeno fino all’approdo in tempi recenti ad una collaborazione con la Nippon Signal, importante fornitrice di servizi della Japan Railway. Per la creazione di un nuovo, perfetto (gigantesco) tipo di operaio ferroviario…

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