Le speculari trasformazioni del poliedrico artista Darrel Thorpe

Nei meandri marginali di un’interminabile settimana, seduto alla noiosa scrivania dei nostri giorni, percepii per la prima volta una presenza. E nel guardarmi attorno concentrandomi sugli aspetti permeabili dell’esistenza, per la prima volta, vidi lui, che vide me allo stesso tempo. Si trattò di un rapido movimento nel riquadro riflettente della finestra, che aveva ruotato fino ad inquadrare obliquamente la mia figura. E ad un effetto della brezza lieve di quel pomeriggio, sfortunatamente, si spostò di nuovo. Dopo quel momento, per quanto tentassi di spiarne nuovamente le intenzioni, posizionando strategicamente il vetro prima di tornare in postazione, egli mancò di farsi nuovamente avanti presso le regioni dello scibile apparente. Almeno fino al giorno in cui fuori pioveva, dopo l’ora del tramonto, e la stragrande maggioranza delle luci erano spente. Quando soltanto il mio volto, illuminato dalla luce dello schermo, pareva fluttuare senza il minimo contesto nel riquadro di quel vetro che mandava tale immagine al mittente. E fu allora che tenendo ben fissi gli occhi verso avanti, mentre la parte girevole della mia sedia faceva l’esatto opposto, fece nuovamente la sua comparsa. L’altro “me” con l’alta fronte sormontata da un paio di corna, la metà inferiore del volto ricoperta da una folta barba, i capelli a incorniciare il tutto come nell’antica e vermiglia statua di un fauno pagano. Con un gesto del tutto spontaneo, orientai dall’altro lato il corpo e la testa. Ma qualcosa di assolutamente inusitato pareva essere accaduto; poiché nel quadro dell’immagine riflessa, adesso compariva la presenza angolosa di una Dea severa, e verdastra. Le labbra carnose del colore dell’Oceano Pacifico, così come il resto della sua pelle totalmente ed inaspettatamente glabra. Ed uno sguardo ipnotico, non meno di quello del diabolico scrutatore di pochi attimi a quella parte. Ancora e ancora, tentai di liberarmi dell’uno, per tornare nella sfera pratica del secondo. E ad un certo punto, i due divennero quattro, quindi otto e sedici, superando i limiti di ogni vetusta ragionevolezza! E fu allora che tra il soffitto suddiviso in pannelli e il pavimento di linoleum, iniziai a cantare.
Celebre resta ancora al giorno d’oggi lo spunto d’analisi meta-psicanalitico descritto dallo scrittore Pirandello, secondo cui ciascuno di noi indosserebbe una diversa quantità di maschere, a seconda delle circostanze in cui si trova e colui o coloro che si trova di fronte. Volendo utilizzare un’approccio maggiormente superficiale, o se vogliamo mirato esclusivamente a demistificare gli aspetti più evidenti del nostro sentire, parrebbe quasi che in questo sussista un mero e ancor più semplice dualismo: tra l’essenza diurna e quella notturna della mente umana, due piatti della stessa bilancia. Due lati della moneta, due punte o piume della stessa freccia, altrettante biforcazioni della lingua dello scaglioso serpente. Una realtà che appare espressa, in qualche misura, dalla più famosa performance teatrale dell’artista di Brooklyn, Darrel Thorpe, più volte dimostratasi capace d’irrompere nella sfera di percezione della grande mente-alveare digitalizzata. Lasciando in quei momenti dietro di se una scia fatta d’immaginifiche pietruzze, glitter e il sacro fluido senza una sostanza che costituisce l’anima fondamentale della realtà. Si tratta, dopo tutto, di un tipo d’espediente alquanto semplice, che d’altronde in pochi sembrerebbero aver concepito prima del suo momento. Il prototipico Gioco di Specchi, ma con quella che potremmo e dovremmo definire, una marcia in più…

Leggi tutto

L’avventura dei sei wurstel che pattugliano da 90 anni le autostrade americane

Tre Anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo che risplende, Sette ai Principi dei Nani nelle lor rocche di pietra, Nove agli Uomini Mortali che la triste morte attende. Che la triste morte attende, ma non la fine… Così l’Oscuro Signore di Mordor, dall’alto della propria torre, poté scrutare le manovre millenarie delle civiltà della Terra di Mezzo non soltanto grazie al potere del suo Occhio Senza Palpebre ma anche e soprattutto grazie all’assistenza di quei nove sovrani, trasformati dal potere dell’Unico Anello in servitori evanescenti, noti alla storia della Seconda e Terza Era come spettri o Nazgûl. Se d’altra parte volessimo tentare di spostare una simile vicenda all’interno del mondo moderno, nel contesto e le dinamiche del capitalismo, non sarebbe troppo complicato ritrovarne i princìpi fondamentali nelle scelte promozionali compiute attraverso quasi un secolo dalla compagnia dell’Illinois che porta il nome di Oscar Mayer, l’immigrato tedesco “amante delle salsicce” che a partire dagli anni ’30, accettando i termini di un patto, aveva trasformato l’effige del maiale cotto ed insaccato in un qualcosa di capace di spostarsi e trasportare le persone. Per portare in alto, per quanto possibile, i presupposti promozionali della propria antica compagnia, tra i più riconoscibili marchi della città di Chicago. D’altra molti grandi e conosciuti brand raccontano, nella loro storia pregressa, un momento in cui il fondatore girava per il paese o la metropoli di appartenenza come unico rappresentante commerciale, tentando di convincere i rivenditori e il pubblico dei meriti inerenti della propria proposta. Compito poi assunto dai propri sottoposti, ma non prima di essere passato temporaneamente sotto il controllo di amici e parenti. Così fu proprio durante tale fase all’inizio del 1936, che l’eponimo capo d’azienda ebbe un lungo e significativo colloquio col nipote Carl G. Mayer, il quale gli presentò entusiasticamente un nuovo metodo per fare breccia nella fantasia e fiducia delle persone: costruire un’automobile, diversa da qualsiasi altra avesse mai circolato su strada. Si trattava di un approccio, in realtà, piuttosto scaltro, consistente nell’impiego di un telaio fatto in casa dalla forma ben presto destinata a diventare iconica di un panino su ruote, sormontato dal curvaceo wurstel che costituiva il più celebre prodotto della compagnia. Incoronato, naturalmente, dalla “fascia gialla” che costituiva il suo principale segno di riconoscimento, assieme all’esortazione di cercarla assiduamente ogni qualvolta si varcava l’aurea porta del supermercato. Un veicolo funzionale ma poco sicuro, in cui l’autista si trovava situato con la testa sporgente verso l’alto, in maniera analoga a quanto avveniva nelle vetture da corsa di quegli anni lontani. D’altra parte con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, proprio quando cominciava ad essere famosa, la vettura andò incontro alla necessità di essere parcheggiata in garage per la mancanza di benzina, e secondo alcuni venne addirittura riciclata come materia prima per le armi utilizzate al fronte. Verso l’inizio degli anni ’50, tuttavia, Oscar e il nipote ricordarono il successo avuto in quella decade distante, decidendo di tentare nuovamente la sublime strada dell’autopromozione veicolare. Così contattando prima l’officina Gerstenslager di Wooster, Ohio, quindi il celebre carrozziere Brooks Stevens del Wisconsin, giunsero per gradi a quell’aspetto riconoscibile che l’ormai leggendaria Wienermobile, in certo senso, possiede tutt’ora…

Leggi tutto

La storia del ponte lungo un chilometro che conquistò la Dacia per l’Impero Romano

Si usa credere che, in ambito strategico, la conquista di una nazione nemica risulti essere particolarmente difficile, poiché ogni asperità nella conformazione del territorio, ciascun ostacolo degno di nota, diventa un paletto che grava in modo duplice sui propri sforzi: in primo luogo, rendendo più difficoltosa l’avanzata dell’esercito. E secondariamente rendendo più difficile, per non dire impossibile, un’approvvigionamento logistico che possa dirsi particolarmente efficiente. Così al tempo dell’imperatore Domiziano, dopo una serie di scorribande nel territorio imperiale ebbe modo di raggiungere il suo culmine dell’anno 85 d.C, quando venne deciso di affidare una spedizione punitiva al generale Cornelio Fusco. Ciononostante, fatto il proprio ingresso con le sue legioni nella stretta valle del fiume Timis, costui venne circondato e ucciso dal capo tribale Decebalo, assieme a buona parte dei suoi soldati. Il che costituì soltanto la prima di una serie di sconfitte, destinate a ripetersi ogni qual volta le forze provenienti da Roma s’inoltravano nel territorio di alcuni tra i loro più persistenti e caparbi avversari. Anche e soprattutto per l’ostacolo sostanzialmente invalicabile del grande fiume Danubio, vero e proprio avversario topografico di qualsivoglia iniziativa bellica nella zona corrispondente alle odierne Romania e Bulgaria. L’impero ereditato dal suo successore Nerva, che avrebbe regnato solamente per 16 mesi, era perciò inficiato dal significativo problema di una vulnerabilità dei suoi confini, tale da inficiare l’ideale entità del tutto invalicabile e monolitica del cosiddetto limes (limite) romano. Il che avrebbe rappresentato la prima preoccupazione del suo figlio adottivo e successore, l’uomo di carriera militare e provenienza iberica noto al secolo come Marcus Ulpius Traianus, il quale esattamente dopo 4 anni dal giorno in cui aveva indossato la porpora, decise sostanzialmente di averne avuto abbastanza. Quello che sappiamo dello svolgersi delle sue due successive campagne in Dacia, in buona parte desunto dai bassorilievi della conseguente colonna coclide (trionfale) eretta a partire dal 107 d.C, che si trova oggi tra la tomba del Milite Ignoto e la Basilica Ulpia, avrebbe quindi consistito dell’avanzata di due fronti paralleli, mediante la realizzazione di altrettanti ponti di barche oltre l’invalicabile corso d’acqua. Coordinate grazie al miglioramento ed ampliamento di un irto sentiero sospeso sulla riva destra fin dall’anno 33 d.C, lungo le alte scogliere di Kazan che giungono a costituire, nel punto di convergenza tra Balcani e Carpazi, la strettoia nota già all’epoca come Porte di Ferro (Vaskapu). Luogo giudicato perfetto, quasi 2.000 anni dopo, per la costruzione di una diga idroelettrica, ma tutt’altro che facile da attraversare mediante la tecnologia nautica del mondo antico. Il che non avrebbe impedito all’imperatore, personalmente al comando delle sue legioni, di avanzare lungo la strada maestra per la capitale regionale di Sarmizegetusa Regia, costringendo Decebalo, nel frattempo diventato re dei Daci, a una precipitosa resa e l’accettazione della condizione di cliente (vassallo) nei confronti dell’egemonia romana. Era l’anno 102 e Traiano, lungi da riposare sui letterali allori del proprio trionfo, giudicò che fosse giunto il momento di consolidare in modo irreversibile la propria egemonia nel territorio della Dacia. Così chiamò l’unico uomo che potesse realizzare la sua visione, dando ordine che fosse costruito un grande ponte. Il più notevole che l’umanità avesse mai visto fino a quel giorno, destinato a rimanere anche il più lungo per un periodo di almeno un millennio a seguire…

Leggi tutto

Un pipistrello col rossetto? L’aspetto artistico di un pesce anormale

Un chirottero che non sa volare, un batrace che non sa saltare, un pesce che non sa nuotare. Chi avrebbe mai potuto pensare, tra gli abissi del grande mare, che potesse trattarsi dello stesso animale? Aerodinamico a suo modo, idrodinamico soltanto il necessario, con quattro pinne che assomigliano alle dita troppo ampie di un guanto dismesso, ma funzionano piuttosto come le zampe di un ragno. Per un tipo di creatura che in effetti, passa la gran parte del suo tempo a contatto con il terreno. Quello del fondale, s’intende, a una profondità variabile tra i 200 e i 1.000 metri. Non così remota, tutto considerato, visto che stiamo parlando di un appartenente a pieno titolo all’ordine dei Lophiiformes alias “rane pescatrici”, tra i pochi predatori di un ambiente che risulta essere, nella maggior parte delle circostanze, quasi totalmente privo di prede. Ed ecco spiegata la funzione della loro prototipica canna da pesca, chiamata dalla scienza illicio, in realtà il primo raggio della pinna dorsale collocato in corrispondenza di quello che potremmo chiamare il “naso” e con conformazione idonea a rappresentare un piccolo regalo concettualmente non dissimile dall’insidioso cavallo di legno dei Greci. Se soltanto avesse avuto la forma di un piccolo pesciolino e il compito di “entrare” le fauci di un divoratore, per poi scomparire e far entrare, quest’ultimo, all’interno delle fauci del nostro amico. Benché non ci sia nulla nella famiglia degli Ogcocephalidae, ad una presa di coscienza della realtà delle circostanze, che sia in alcun modo riconducibile persino al suo bizzarro ordine di appartenenza. Facendo di costui l’esempio, forse uno dei migliori noti, di una letterale creatura fuori dal contesto, come una sorta di alieno prodotto da processi evolutivi totalmente diseguali e non paralleli. Declinato, per buona misura, in ben 78 singole specie e 10 generi disseminati dai Caraibi al medio Pacifico, fino ai distanti fondali dell’Oceano Indiano. Per una lunghezza media molto variabile, ma che può raggiungere al massimo i 40 cm. Sebbene la sua varietà più famosa, soprattutto su Internet, possa essere facilmente individuata nel pesce pipistrello delle Galapagos (O. darwini) il cui tratto distintivo dominante è la colorazione rossa intensa sul suo ventre, che si estende fino al contorno della bocca donandogli l’aspetto di una vecchia strega dalle labbra voluttuose e dipinte. Per un effetto complessivo, più che lievemente inquietante, ancor migliorato dall’espressione perennemente imbronciata posseduta da questa intera genìa di creature, frutto ragionevolmente apprezzabile di una più che semplice coincidenza. Sebbene sia possibile, scherza il famoso commentatore inglese di alcune tra le creature più bizzarre, ZeFrank, che si tratti di un contegno mantenuto da colui che ha fatto tutto il possibile per essere diverso dai suoi più prossimi parenti, soltanto per trovarsi soprannominato “pipistrello” esattamente alla stessa maniera di almeno una mezza dozzina di pesci dagli aspetti ed ecologie più disparate. Davvero il culmine dell’ingiustizia onomastica, se mai dovesse esistere un siffatto concetto…

Leggi tutto