La costante accelerazione lineare dei treni nell’evoluzione delle ferrovie francesi

C’è un fascino difficile da sopravvalutare, nelle immagini in cui viene documentato un qualche pregresso record di velocità, particolarmente se del tipo rimasto imbattuto per un periodo attualmente pari ad esattamente 15 anni. La maniera in cui il veicolo, ripreso alternativamente con prospettive interne ed esterne, le seconde offerte almeno in parte dalla telecamera montata su di un jet a reazione Aérospatiale Corvette, coi motori a regime nell’impegnativa mansione di mantenere la corretta distanza dal sottostante serpente di vetro, plastica e metallo. Perché pur sempre di questo si tratta, nonostante le modifiche e soprattutto la rimozione di una larga parte dei suoi vagoni, al fine di raggiungere un rapporto di peso-potenza sensibilmente più vantaggioso. E benché i rettili striscianti non possano essere, in natura, creature particolarmente rapide, va da se che tale limite decada in situazioni tecnologiche, grazie al valore concesso dall’utile invenzione umana delle ruote. Interfacce ferroviarie, in senso più specifico, del treno modello TGV POS (Paris-Ostfrankreich-Süddeutschland) attivamente adibito alla ricerca del più prestigioso dei risultati nel mondo dei trasporti: la dimostrazione pratica di poter fare prima, in un’ideale confronto tra i sistemi semoventi, nel raggiungimento della meta finale. Così l’appassionante sequenza risalente al 2007, che mostra la sua duratura e impressionante fase di accelerazione, viene accompagnata dall’indicazione di un riquadro alfanumerico in alto a sinistra, indicante l’effettivo regime raggiunto a fronte di misurazioni tachimetriche innegabilmente precise. Dagli zero ai 100, e poi 250, 380, 495 e così via a seguire… Quando i pantografi del mezzo ad alimentazione elettrica vengono ritratti al fine di ridurre l’attrito, permettendogli di accelerare ancora per inerzia, ed il numero si ferma infine al ritmo demoniaco di 574,5 Km/h: abbastanza da spostarsi tra Los Angeles e San Francisco in poco meno di un’ora. Se soltanto negli Stati Uniti esistessero infrastrutture altrettanto solide e mezzi ferroviari di una comparabile potenza situazionale.
Così la storia ci ha abituato, nella ricerca delle eccellenze veicolari, di guardare unicamente ai trascorsi di determinati paesi come quello, cui si aggiungono in tempi recenti Giappone, Cina… Quando l’evidenza ci dimostra come, ancora oggi, esistano dei campi in cui è sovrana la cara vecchia Europa. Vedi quello, largamente ineccepibile, del trasporto ferroviario ad altissima velocità. O per dare il giusto a Cesare, francesizzando l’espressione, il Train à Grande Vitesse/alias TGV, lungamente associato a una reiterata serie di traguardi, a partire dall’ormai remoto 1981, mediante i quali la corona è ritornata più e più volte all’ombra dell’iconica Tour. Che poi sarebbe un eufemismo per chiarire come, tra tutti i metodi utilizzato per perfezionare il trasferimento di cose o persone oltre il tragitto di una prototipica strada ferrata, nessuno meriti gli stessi riconoscimenti di questo, perseguito attraverso le ultime quattro decadi eliminando fino all’ultimo margine d’errore inerente. Verso l’acquisizione dell’assoluto e incontrastato primato mondiale, per lo meno all’interno di una serie di linee guida, sinonimo di ragionevolezza procedurale…

Leggi tutto

L’avamposto del futuro che precorre il terzo millennio della città di Valencia

Un richiamo pratico ed alquanto evidente all’architettura monumentale delle grandi capitali del mondo antico; l’iconica ed idealizzata rappresentazione di quello che potrebbe essere, un giorno molto lontano, il canone del corso principale della scienza che ridefinisce il senso logico degli spazi dedicati all’umanità. Tutto questo e molto altro, può essere desunto dalle ardite geometrie e le frastagliate ombre disegnate sull’asfalto dal più incredibile complesso di edifici della Spagna, forse il più avveniristico di tutta Europa. L’eccezionale congiunzione di pensiero, materia, personalità ed intenti, tutto ciò guidato a destinazione dalle proiezioni operative di una mente fondamentalmente dedita all’eclettismo. Di Santiago Calatrava, l’architetto con il nome di un ordine cavalleresco ed una discendenza aristocratica, molte cose sono state dette: in merito alla sua ambizione che esula talvolta dalle circostanze, la visione inflessibile che tende a dominare il cliente, la palese convinzione che la scelta della soluzione maggiormente semplice, nella maggior parte dei casi, possa indurre in errore. Qualcosa di spiazzante e spesso indesiderabile in qualsiasi capo di un progetto, particolarmente quando questo implichi svariati anni e molti milioni di euro d’investimento. Eppure camminando lungo il letto del fiume Turia, prosciugato dopo la devastante inondazione del ’57, è difficile non sorprendersi ad alzare lo sguardo al cielo ed ammirare le intriganti “cose” che ci sorgono attorno. La straordinaria serie di strutture, almeno in apparenza edificate con finalità paragonabile a quelle di un arco di trionfo o vasto e inusitato mausoleo marziano, fatto di archi di cemento, finestre riflettenti e vistose forme paraboloidi che s’intrecciano come i contrafforti di una cattedrale. La cui genesi risale alla seconda metà dell’ultima decade del Novecento, per l’iniziativa nata da una fortunata serie di contingenze: l’allora presidente del Governo Autonomo di Valencia, il socialista Joan Lerma, che ritorna da una visita ufficiale alla Cité des sciences et de l’industrie di Parigi, immaginando quanto avrebbe potuto significare per il turismo della sua metropoli poter fare affidamento su un’istituzione simile da dedicare alla divulgazione dell’ottimismo nei confronti del domani. Un sentimento accompagnato, per una volta, da ingenti fondi concessi da un periodo economicamente positivo per la Spagna, coerentemente alla presa di coscienza collettiva dell’esistenza di un lungo e stretto spazio vuoto in prossimità del centro storico di quella grande città europea. Ragione sufficiente per coinvolgere, in prima battuta il fisico dell’Università di Valencia Dr. Antonio Ros, incaricato di stendere un piano di fattibilità del progetto, procedendo progressivamente nel coinvolgimento delle figure tecniche ed autorali necessarie alla sua effettiva realizzazione. Tra cui finì per figurare, molto presto, il già famoso costruttore d’avveniristiche infrastrutture di trasporto, ponti e l’occasionale museo, tutte strutture destinate a diventare celebri come “opere di Calatrava”, grazie al possesso di quello stile inconfondibile ed emozionante. Destinato a trovare terreno fertile, e una quasi letterale carta bianca negli anni a venire dell’intera Città della Scienza, fatta eccezione per il singolo contributo del collega e connazionale Félix Candela, coinvolto per la costruzione dell’Oceanogràfic, lo svettante acquario e delfinario completato nel 2003 con la forma di un fiore di ninfea tratteggiato dalle facciate paraboloidi ricoperte da scintillanti pareti di vetro. Ma non prima che i tre elementi principali della spropositata attrazione cittadina, uno dopo l’altro, venissero inaugurati entro il volgere del nuovo millennio…

Leggi tutto

E non dimentichiamoci dello speoto, cane dall’aspetto ursino e il profumo d’aceto

In un’ideale elenco dei felini più riconoscibili del mondo, le possibili forme e metodologie di sviluppo dei suddetti animali non parrebbe variare in modo particolarmente significativo. Giacché ogni gatto a questo mondo, possiede artigli, orecchie triangolari ed erette, una coda smilza (sebbene la lunghezza possa variare) il muso relativamente piatto e una schiena che s’inarca per esprimere la propria inclinazione comportamentale. Osserviamo nel complesso, di contro, la questione tassonomica della singola tribù sudamericana dei cerdocionini: undici specie, suddivise in tre generi, non meno diversificate di quanto potrebbe esserlo un concorso canino. Con due zorros – la volpe andina e quella mangiatrice di granchi, che si affiancano all’anomalo ed affascinante crisocione o “lupo dalla criniera” la bestia elegante a metà tra un levriero e il Pokémon Suicune, meno la propensione a lanciare magici dardi ghiacciati all’indirizzo dei propri feroci rivali. A connotare ulteriormente l’eterogenea famiglia, nel frattempo, è possibile individuare la presenza del più prossimo parente di una simile creatura, che potremmo definire in una singola espressione come all’estremo opposto delle possibilità canine; basso e tarchiato, come un bulldog dal peso approssimativo di 7-8 Kg, ma del tutto autosufficiente nel suo rapporto con l’ecologia selvatica del cosiddetto bush. Una definizione usata in questo caso per riferirsi, contrariamente all’abitudine, all’umida boscaglia e le distese cespugliose del Costa Rica, la Bolivia, Brasile e Paraguay. Dove sussistono le multiple popolazioni, ormai in regime disgiunto e frammentario, di un animale che ormai può essere soltanto definito come raro nell’intero areale, per l’implacabile riduzione del suo areale e la sostanziale ostilità di chi è incline a trarre il proprio sostentamento dai contesti rurali. Questo perché lo Speothos venaticus alias bush dog, suddiviso in tre sole sottospecie molto simili tra loro, è quello che può esser definito in senso pratico il perfetto super-carnivoro, quel tipo di predatore che assale e fagocita ogni cosa più piccola o debole di lui… E molte altre, potendo sfruttare la quasi del tutto infallibile collaborazione del branco. Tutto ciò nonostante l’aspetto placido che tende a suggerire un’inclinazione poco aggressiva, impressione d’altra parte almeno parzialmente valida per quanto concerne i rapporti coi suoi simili e l’occasionale mano degli umani, durante il soggiorno all’interno degli zoo e simili circostanze di condivisione dei propri giorni. E a tal punto, in effetti, questo canide risulta specializzato nel consumo pressoché esclusivo di carne da essere uno dei soli tre rappresentanti della sua vasta famiglia, assieme al cane selvatico africano e il dhole indiano, a possedere il “tacco tranciante” (trenchant heel) una specializzazione del primo molare inferiore fatta per strappare le parti più coriacee di una carcassa. A patto di avere abbastanza tempo, e relativa tranquillità, dal potersi mettere a farlo…

Leggi tutto

L’audace passatempo d’incontrare da vicino l’uccello più velenoso al mondo

Serpenti alati: tutti conoscono l’aspetto del potente Quetzalcoatl, Dio del quinto sole, gemello prezioso, spirito del vento sudamericano. Ma dall’altro lato del pianeta, nelle terre emerse della seconda isola più grande al mondo, c’è una ragione differente per guardare in alto e preoccuparsi di possibili animali tossici, capaci in linea teorica d’indisporre in modo significativo un elefante. Se soltanto tale pachiderma fuori sede, in un’impeto di carnivora imprudenza, tendesse la proboscide verticalmente verso il cielo. Cogliendo al volo la creatura di passaggio, ali, becco, coda e tutto il resto. “Ridicolo” mi sembra quasi di sentire gli aspiranti biologi dal coro: “Gli elefanti non mangiano gli uccelli! Ed anche se lo facessero, di sicuro questi ultimi non potrebbero arrecare alcun danno al più imponente sistema digerente posseduto da un animale dei nostri giorni.” Orbene son qui oggi per dirvi, che se in merito alla prima affermazione siete sulla strada giusta, nel caso della seconda i fatti vi sono nemici. Come già sapevano studiosi della filosofia naturale quali Aristotele, Filone di Alessandria, Lucrezio e Galeno; ciascuno dei quali, all’interno dei propri scritti, ebbe la ragione e sensibilità di citare la condizione medica da tempo nota come coturnismo: vomito, paralisi muscolare, insufficienza respiratoria e renale. Il tutto come conseguenza del consumo poco accorto, di quantità eccessive di quaglie selvatiche europee (Coturnix Coturnix) durante il periodo delle loro migrazioni primaverili. Quando transitando oltre le montagne che dividono i confini arbitrari delle nazioni, mangia ingenti quantità dei semi della pianta che i latini chiamavano Conium e i moderni, molto più semplicemente, cicuta. Il cui contenuto tossico, grazie al perfezionamento evolutivo, non può nuocere al volatile. Ma colpisce e annienta gli organi di colui che ne fagocita le carni avvelenate. Ora la quaglia, in circostanze normali ed al di fuori di quella stagione maledetta, risulta essere perfettamente commestibile ed invero anche apprezzata, come una versione occidentale del potenzialmente mortale pesce palla o fugu cucinato dai giapponesi. Ma se ora vi dicessi che ci sono uccelli, altrettanto immuni all’effetto di una particolare pietanza letale, che risultano pericolosi tutto l’anno? I cosiddetti Pitohui ed Ifriti dell’Indonesia. Ma soprattutto una particolare specie dei primi nota come P. dichrous, simile ad un merlo nero e marrone dalla cresta erettile e sbarazzina letteralmente intriso, fino alla radice delle proprie piume bicolori, della temutissima sostanza nota come BTX o per esteso batracotossina, un termine che viene dalla parola usata scientificamente per riferirsi alle cosiddette rane-freccia, usate per avvelenare le armi degli indigeni colombiani. Col che non voglio certamente affermare che il volatile in questione, un passeriforme della famiglia degli orioli del Vecchio Mondo non più lungo di 22-23 cm, sia solito ghermire e fagocitare l’orribile anfibio che raggiunge una percentuale significativa della sua dimensione totale. La soluzione è molto più semplice, ed al tempo stesso inaspettata, di così. Trattandosi effettivamente di un rarissimo caso di convergenza evolutiva tra classi distinte, avvicinate dall’inclinazione a fare un singolo boccone (avvelenato) di un insetto della famiglia Melyridae, rappresentato nel caso della Nuova Guinea dal diversificato genere degli scarabei Choresine. L’origine, nonché una zampettante concentrazione, del Male…

Leggi tutto