L’ebbrezza della caccia ed il pericolo che incombe sul fantasma dei pipistrelli australiani

La strana contraddizione dei pipistrelli è un preconcetto che deriva in buona parte dall’accumulo di miti, leggende e associazioni folkloristiche, sostenuto ulteriormente dall’aspetto stravagante di queste creature. Nate nella notte e che da essa devono ottenere il proprio sostentamento, attraverso l’evidente necessità di tratti evolutivi molto particolari. La leggiadria del volo, dunque, unita a grandi orecchie, naso ed occhi per trovare l’oggetto del proprio pane quotidiano. Ali membranose, facce demoniache, zanne aguzze per ghermire… La preda. Ma cos’è, in ultima analisi, un demone? Se non l’espressione delle nostre ataviche paure, intrinseche all’interno del cervello rettile che costituisce parte indissolubile della nostra eredità di “cose” viventi! Cose come la lucertola, che corre nella notte per tutt’altra serie di ragioni. Perché si è persa, perché non trova la sua tana, oppure non ricorda le legittime suddivisioni delle competenze all’interno del mondo animale. Grosso errore, molto spesso, ma anche l’ultimo se avviene dopo l’ora nel tramonto in un particolare territorio d’Australia. Dove sorge, assieme all’astro lunare, una particolare forma dalle tenebre delle caverne carsiche o miniere abbandonate, pallida come la morte e non meno pietoso nell’esecuzione che il destino gli ha voluto attribuire assieme ai tratti di cui abbiamo fatto cenno in apertura. Un fantasma, un pipistrello, o a dire il vero Macroderma gigas, che la gente è solita chiamare il tipico fantasma-pipistrello. La creatura che nemmeno Dracula potrebbe amare, se fosse superstizioso, figlia del soave canto della fine apocalittica dei giorni, per la sua espressione corrugata, le fauci che digrignano e si serrano sul dorso della preda che sgattaiola nel mezzo dei cespugli boschivi. Puro e non diluito terrore dal pelo grigio chiaro, per coloro che misurano all’incirca una decina di centimetri o poco più, come topi, ranocchie, piccoli uccelli ed altri esponenti dello stesso ordine dei chirotteri, che non vengono effettivamente risparmiati dalla sua ben attrezzata fame. Poiché stiamo qui parlando, in altri termini, del più carnivoro di tutti i micro-pipistrelli dell’Australia e (fatte le dovute proporzioni) il mondo intero, paragonabile ad un falco, aquila o grosso gufo per il proprio stile di vita. Con particolare tratto di riconoscimento nella maniera in cui esce a battere il suo territorio quando la “brava gente” di quei luoghi ormai dorme da tempo. Oppure regredisce, fino allo stato di assoluto e implicito terrore che deriva dall’incomprensione dei semplici processi naturali del nostro mondo…

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La catastrofica serie d’inondazioni che plasmò la genesi dell’America settentrionale

“Il mio unico rimpianto, Joseph, è che questo fatidico momento non finirà nei libri di storia.” Il Prof. J. Harlen Bretz, scienziato indipendente, si voltò verso l’esimio collega che rappresentava il Servizio Geologico degli Stati Uniti, puntando il dito verso la strana conformazione del paesaggio. I due, recentemente scesi dalla Jeep che avevano noleggiato per la spedizione, si trovavano in qualche punto non meglio definibile del contorto e irregolare deserto noto come channeled scablands, situato nella parte orientale dello stato di Washington, Pacific Northwest. La terra “segnata” e “scanalata” che da quel momento avrebbe potuto anche essere chiamata misteriosamente “ingombra”. Joseph Pardee, l’antico collega e rivale professionale dello studioso, era rimasto per una volta del tutto privo di argomenti con cui controbattere. Mentre osservava dal basso, ai margini della sua stessa ombra, il più eccezionale cumulo di sedimenti della sua intera carriera. Ghiaia, sassi e pietrisco, posti da una qualche misteriosa forza a formare la gibbosità collinare di affioramento carsico, che sarebbe stato capace di raggiungere l’ultimo piano di un grattacielo. Il chiaro residuo del passaggio pregresso di un torrente, ma capiente e rapido almeno 10 volte il corso familiare del fiume Mississippi. “È tutto vero! Adesso dovranno crederti, Bretz. Nessuno potrà più negare l’evidenza.” Dodici anni, trascorsi ad osservare mappe topografiche e resoconti di prospezione. Dopo tutto, nel 1910 non esistevano i satelliti e neppure le precise misurazioni al LIDAR usate per creare precise mappe tridimensionali di un’intera regione. Ma soltanto gli occhi per osservare, le mani per tracciare nuovi resoconti e la mente in grado di raggiungere le conclusioni finali. Giusto? Sbagliato? Forse contrario alla dominante visione dell’uniformitarianismo, secondo cui i processi del mutamento terrestre furono sempre costituiti dal ripetersi di lenti, ed ancora osservabili processi di mutamento. Eppure così drammaticamente prossimo alla linea insuperabile degli argomenti, oltre cui nessuno avrebbe più potuto avere il coraggio di confutarlo. Bretz era estatico. Pardee, in qualche modo, sollevato. Nel Pacific Northwest all’epoca dell’ultima grande glaciazione intercorsa tra i 14.000 e 12.000 anni a questa parte, bradipi giganti e mastodonti dalle zanne acuminate erano stati spazzati via attraverso una versione pienamente dimostrabile della devastante inondazione biblica o leggendaria. Durante cui molte migliaia, e migliaia di chilometri quadrati si erano trasformati nel reticolo di scorrimento non tanto di una pluralità di fiumi, bensì un letterale oceano di tipo transitorio, che nel giro di qualche anno sarebbe defluito all’interno del Pacifico lasciando tracce fin troppo evidenti del proprio avvenuto periodo d’esistenza. Una lunga opera di studio, e un’irto tentativo di convincimento del mondo accademico delle prestigiose università note come Ivy League, avevano condotti due principali sostenitori dell’ipotesi a un fondamentale disaccordo, relativo all’origine di quel fenomeno: l’area presso l’antico fiume parzialmente inaridito del Gran Coulee, in prossimità di Spokane, secondo Bretz, piuttosto che una non meglio definita parte del proprio nativo stato del Montana, nell’opinione di Pardee. Finché la collocazione dei nuovi depositi scovati nelle scablands avevano portato i due convenire, gradualmente, nella nascita del grande cataclisma a partire dal lago glaciale di Missoula, alle radici della gola del fiume Columbia. Dove a partire da quel momento, avrebbero focalizzato i propri sforzi di approfondimento.

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La scarpa intelligente che raddoppia l’efficienza bipede dell’Homo sapiens

La vita nelle grandi metropoli risolve una grande quantità di costanti problematiche sperimentate attraverso i secoli dai plurimi esponenti della civiltà umana. Relativa vicinanza dei servizi, negozi, semplicità negli spostamenti grazie all’esistenza imprescindibile, per quanto naturalmente imperfetta, dei trasporti pubblici costantemente disponibili al momento in cui ci serva di raggiungere un luogo diverso. Il progressivo diffondersi dell’automobile e degli altri mezzi a motore tuttavia, all’inizio del secolo scorso, ha imposto nel disegno della pianta cittadina il rispetto di una serie di presupposti, dettati in modo autoritario delle implicite necessità di un largo carro, per cui l’estendersi delle distanze costituisce un contrattempo relativo e meramente privo di significato. Così il proliferare dei corsi, viali, strade di scorrimento, delle rotatorie e delle grandi piazze, talvolta più simili a uno svincolo delle autostrade della vita che un passaggio necessario nei risvolti quotidiani di quest’ultima, ha reso più difficile l’esplorazione di quel dedalo, che potremmo definire una sorta di trappola nel ripetitivo incedere dei giorni. Perché si, tu PUOI raggiungere casa/scuola/lavoro facendo affidamento unicamente sui tuoi muscoli. Ma sarà meglio che continui ad allenarli, considerando l’esistenza di quel drammatico, indesiderabile ultimo miglio. Un termine usato frequentemente, di questi ultimi tempi, ai margini delle disquisizioni sui molteplici sistemi alternativi di spostamento. Perché nessuno, a quanto sembra, vorrebbe continuare a camminare lungo tratti superiori a qualche dozzina di metri. Nonostante l’efficienza frutto dell’evoluzione che ci rende tra le specie note quella meglio equipaggiata per riuscire a farlo, causa considerazioni di contesto quali tempo necessario, dispendio energetico e spiacevole sensazione di spossatezza. E non parliamo poi della corsa, rischiosa e stancante, oltre a lesiva per l’immagine causa sudorazione e conseguente bagnamento degli abiti indossati fuori dai contesti sportivi. Dal che, l’idea di Xunjie Zhang, precedente capo di un gruppo di studio presso l’Università di Carnegie Mellon passato da qualche tempo, come tanto spesso capita, ad ambizioso capo d’azienda sotto l’etichetta della startup Shift Robotics. E tramite il sistema del finanziamento online, così spesso utilizzato per raggiungere la produzione di un qualcosa che “Tutti avevano sempre voluto, ma nessuno aveva mai pensato di produrre” così frequente in qualità di slogan su portali come il suo elettivo Kick-Starter. Per pregressa mancanza di risorse, tecnologia, tempo… Sebbene approcci alternativi alla faccenda esistano, benché nessuno dello stesso livello per funzionalità e versatilità delle sue Moonwalkers, delle (sotto)scarpe dotate di motore, batteria e ben 8 ruote parzialmente sovrapposte, per poter meglio adattarsi “Ai marciapiedi dissestati in pieno stile rust belt della nostra Pittsburgh” (un riferimento al degrado post-industrialista di questa particolare regione statunitense). Mentre procedono a passo spedito, e noi sopra di esse, verso l’obiettivo sublimato di ciascuna ideale trasferta più o meno dedicata ad uno scopo ben preciso. Con una rapidità stimata di fino al 250% dell’alternativa maggiormente simile, che poi sarebbe fare affidamento unicamente sulla limitata preparazione muscolare degli individui. Certo, si è più inclini a eccellere nel perseguimento dei propri singoli obiettivi. Quando si può superare abbondantemente il centinaio di migliaia di dollari d’incasso ancor prima di aver immesso un singolo prodotto sul mercato internazionale….

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L’anfibio avvelenato che pugnala con le costole il palato dei suoi nemici

La giovane vipera d’acqua natricina percorreva il ciglio dello stagno alluvionale facendo saettare in modo regolare la sua lingua alla ricerca di un preciso odore. Mentre l’organo olfattivo situato sul palato della sua bocca, pulsando ritmicamente, filtrava e catalogava ogni genere di traccia potenziale di una fonte di cibo. Di tanto in tanto, il serpentello non più lungo di 30 cm sollevava la testa, scrutando in ogni direzione nella speranza di scorgere un qualche tipo di suggestivo movimento. Lungo ed alto, con la coda sottile, oppure piatto, largo, coda spessa e muso a punta. Quasi come il… Suo. “Topo, lucertola delle mie brame” sembrava dire, non sapendo oppur non ricordando per mera convenienza operativa, che il suo secondo pasto preferito apparteneva nella pratica realtà dei fatti ad un tipo di categoria biologica ben distinta. Che ne vede l’origine, diversamente da quei sauri, unicamente dentro l’acqua in cui continua a vivere per buona parte della sua esistenza. Soprattutto lì, nella parte meridionale della Spagna, dove il clima arido avrebbe presto seccato e crepato la sua lucida pelle. Ora questo indiretto discendente dello scaglioso responsabile sinuoso del peccato originale, almeno in parte possedeva una cognizione istintiva del problema potenziale costituito da un esponente di questa specifica categoria. Ovvero il modo in cui per morderlo, occorresse sempre prestare una specifica attenzione a non serrare troppo presto le fauci, pena conseguenze deleterie di una qualche tipologia non propriamente chiara. Eppure di lì a poco, avvistato il pasto zampettante lungo circa la metà della sua intera estensione, si precipitò saettante oltre il paio di metri che lo separavano dalla creatura. Quindi spalancò le mandibole, inghiottendone la testa prima che potesse in alcun modo reagire. Ma mentre iniziava a stringere quell’intorpidito essere con appena la forza di divincolarsi inutilmente, avvertì improvvisamente un sapore terribile seguito da un lancinante dolore. Il suo organo di Jacobson, facente funzione delle narici nei mammiferi dalla forma più imponente, era stato letteralmente perforato da parte a parte, e barbigli acuminati procedevano in direzione del suo cervello!
Di sicuro, può succedere. Nel territorio relativamente vasto, ma egualmente soggetto a problematiche d’inquinamento e mutazione climatica, abitato dalle tre specie che compongono il genere Pleurodeles alias Gallipato, alternativamente detto della salamandra dai fianchi bitorzoluti. Famose per una strategia difensiva capace di renderle letteralmente impervie ad un’ampia varietà d’aggressioni, oltre che vagamente simili al supereroe dei fumetti ed il cinema Wolverine, coi suoi artigli retrattili incorporati direttamente nello scheletro di adamantio. Il che, unito alle naturali capacità di rigenerazione possedute da questa categoria d’animali, rende oggettivamente possibile un qualche tipo d’ispirazione per gli autori della Marvel che nel 1974 lo introdussero nelle complesse narrative di genere, come rivale e successivamente amico dell’Incredibile Hulk. Con una singola, strategica differenza: quella di essere più preda che predatore, trovando quindi la collocazione ideale per la sua arma di autodifesa non all’estremità degli arti, bensì in corrispondenza del dorso che costituiva il bersaglio ideale per chiunque fosse intenzionato a fagocitarne l’invitante forma nuotatrice. Mentre le sue ossa si preparano a cambiare forma, dando luogo alla più inquietante metodologia dell’ultima risorsa, ovvero la perforazione della propria stessa pelle…

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