Niente ruote, atterraggio perfetto: il segreto è usare portaerei ricoperte di gomma

Nella collezione dell’ideale appassionato di modellini aeronautici inglesi, può comparire un esemplare del Sea Vampire alle prese con una particolare contingenza. La versione ottimizzata per l’imbarco nautico del seminale caccia a reazione della de Havilland, secondo entrato in servizio nel 1946 dopo il Gloster Meteor, con la sua doppia coda e fusoliera compatta, spinto innanzi dall’avveniristico e singolo motore Halford H.1, così riprodotto con il gancio d’atterraggio abbassato. Ma alquanto stranamente, ed in maniera assai preoccupante, senza che nessun accenno di carrello sporga dalla parte inferiore della sua fusoliera. Stava forse per tentare, dunque, un atterraggio d’emergenza? Uno chiaramente effettuato, in situazione niente meno che disperata, sul ponte di una delle piccole portaerei della sua Era? Niente affatto o comunque non necessariamente. Poiché l’impressione che un appassionato riesce a trarre da una simile configurazione di volo, tanto rara quanto inevitabilmente problematica, è quella di un inconfondibile riferimento ad un preciso momento nella storia dell’aviazione. La mattina del 17 marzo del 1948, quando il celebre pilota britannico Eric “Winkle” Brown, universalmente riconosciuto come uno dei più grandi che siano mai vissuti, ha intenzionalmente condotto la carlinga del suo mezzo ad impattare sullo spazio d’atterraggio offerto dalla light carrier HMS Warrior, nave di classe Colossus preventivamente ed appositamente modificata. In una maniera che sotto molteplici punti di vista, parrebbe sfidare e mettere in difficoltà la stessa portata dell’immaginazione ingegneristica del senso comune. Perché nessuno avrebbe mai detto né pensato, prima di un certo Maggiore F. M. Green durante la celebre conferenza dell’ente per la ricerca aeronautica inglese RAE (Royal Aircraft Estabilishment) di Farnborough, che fosse in qualche modo utile o possibile impiegare una grande quantità di manicotti antincendio gonfiati d’aria, per disporli in modo ordinato e parallelo nel senso d’atterraggio di un velivolo da 5 tonnellate. Che avrebbe potuto in questo modo risparmiarne un valido 5-6%, aumentando conseguentemente il suo carico massimo e/o prestazioni finali. Un’idea apparentemente folle ma che derivava in larga parte dalla presa di coscienza del nuovo standard di volo successivo ai motori a pistoni, in cui l’impiego di ugelli a reazione permetteva di adagiare una carlinga senza frantumare l’elica impiegata per tirare innanzi gli antichi aeroplani. E che aveva portato in quello stesso frangente alle proposte, seriamente prese in considerazione, di un ponte di volo ricoperto di sabbia o un qualche tipo di materiale galleggiante sull’acqua, una rete o cavi tesi per assorbire l’energia cinetica di chi fosse abbastanza scriteriato da tentare il rientro. Tutte iniziative che mancarono di andare avanti fino allo stato di prototipo, fatta eccezione per l’unica ritenuta almeno in linea di principio praticabile dagli uomini del comando maggiore. E fu così che il primo test a terra venne effettuato il 29 dicembre dell’anno 1947, sulla pista di Farnborough ed ai comandi del pilota collaudatore di maggior successo della RAF. Che molti anni dopo, con il caratteristico piglio dialettico e l’abilità letteraria in grado di caratterizzarlo, ne avrebbe parlato estensivamente nel suo diario…

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Il Diablo sul soffitto dipinto: vera chiesa del Rinascimento usata per pubblicizzare l’atteso videogame

È un fatto acclarato che le rappresentazioni del demonio nella storia della pittura risultino essere tutt’altro che rare, con molteplici e altrettanto validi approcci nel donare l’impressione al pubblico di un personaggio al tempo stesso orribile ed affascinante, in grado di ammaliare poco prima di tradire e condannare l’umanità. Come dimenticare, ad esempio, l’immagine di Sant’Agostino che affronta l’orribile Satana rettiliano nell’opera del 1475 del tedesco Michael Pacher, mentre quest’ultimo tenta d’imporgli l’inclusione del suo nome all’interno di un pesante tomo? O ancora la trionfante interpretazione di Raffaello (1518) in cui l’arcangelo Michele infilza Lucifero caduto con la sua lancia, mentre lo tiene a terra puntando il piede tra le scapole esattamente nel mezzo delle perdute ali. Simili creazioni d’altra parte, anche quando create per un contesto ecclesiastico, difficilmente avrebbero trovato il posto principale all’interno di una casa del Signore, vedendogli preferiti soggetti più consoni come episodi della Bibbia o le vite dei santi. Difficile immaginare perciò quale sarebbe stata l’impressione dell’arcivescovo di educazione gesuita van der Burch (1616-1644) principale finanziatore e committente per la versione finale della Chapelle des Jésuites di Cambrai, nel nord della Francia, nel vederla così come compare a partire dalla scorsa settimana: con il soffitto letteralmente dominato da una particolare interpretazione della dea Sumera trasformata in diavolo, Lilith la tentatrice, circondata da una serie di figure non propriamente affini alla visione collettiva del sacro. Una… Guerriera, potenzialmente ispirata alla figura d’Ippolita della mitologia greca. Un druidico individuo con l’elmo cornuto di Cernunnos, egli stesso non meno satanico della presunta antagonista della scena. Un brutale barbaro che impugna un’ascia bipenne, affiancato dalla versione vagamente punk di Giovanna d’Arco. E poi lupi mannari, morti rianimati, gargoyles ed altre entità ragionevolmente affini a un’incubo di autori come Bosch o Brueghel il Vecchio. In un’apparente glorificazione della violenza, che sarebbe ancora oggi vista come fortemente inappropriata all’interno di un simile contesto, non fosse per i lunghi anni trascorsi dall’ultima volta in cui l’edificio in questione è stato utilizzato col suo ruolo presunto, dopo aver trovato a partire dall’epoca della Rivoluzione più volte l’impiego di magazzino, caserma, deposito per le armi e persino cinema. Essendo in altri termini, fatta eccezione per un breve periodo durante il restauro della cattedrale di Cambrai a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, probabilmente la singola chiesa più sconsacrata di Francia, che a partire dal presente momento sembrerebbe aver trovato un ulteriore compito nel novero pregresso delle molte mostre d’arte organizzate al suo interno. Quella di promuovere, come parte di un’acrobazia notevole del marketing contemporaneo, il quarto ed attesissimo episodio della notevole serie di videogiochi A-RPG (Action-Role Playing Game) Diablo, tanto antologica per i moderni appassionati, quanto possono dirsi tali le biografie del Vasari per gli estimatori dei Vecchi Maestri. Tutto ciò grazie al coinvolgimento, niente meno che essenziale, di alcuni veri ed abili artisti…

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Nuovo approccio anisotropico conferma l’esistenza di una sfera di metallo al centro del nucleo terrestre

Un agglomerato di materia mantenuta assieme unicamente dalla forza imperscrutabile dell’attrazione gravitazionale, mantenuta sul binario di un tragitto relativo alla sua principale fonte d’energia: l’astro solare della propria antica stella. I cui strati superiori, come ben sappiamo, restano costituiti dagli stessi gas portati a un plasma riscaldato, in forza dei processi di fissione atomica che vengono prodotti nel suo nucleo interno. Ma le cose, tra i due poli contrapposti di quel sistema, sono forse meno distinte e contrapposte di quanto potremmo essere indotti a pensare, laddove ogni singolo pianeta incluso il nostro, contiene in se il seme possibile di un altro valido riferimento per costellazioni di una civiltà distante, semplicemente troppo piccolo e poco pesante, per poter dare inizio al processo produttivo di una quantità di luce ed energia bastanti a renderlo una fonte. Una prova? Arde al centro esatto di questa palla di terra (lo sferoide… Chiamato per l’appunto Terra) un oceano semi-solido con 2.260 Km di diametro, pari a circa due terzi rispetto a quello dell’astro lunare, al cui centro abbiamo saputo individuare, fin dagli anni ’30 dello scorso secolo, un nocciolo di ferro e nickel totalmente solido ed indipendente ampio a sua volta circa 1.120 Km, costituito principalmente da metalli pesanti, tanto remota quanto fondamentale per la nostra sopravvivenza. Ciò almeno in base alla teoria, attribuita nella sua forma contemporanea a Walter M. Elsasser (1904-1991) secondo cui la magnetosfera responsabile di proteggerci dalle più pericolose radiazioni del cosmo, tra cui soprattutto quelle del sopracitato ed idealmente “divino” astro e Dio dell’Alba, sarebbe il prodotto di una vasta dinamo alimentata proprio dalla rotazione che determina il succedersi di ogni singola giornata del calendario. Un sistema tanto complesso, in linea di principio, da aver visto la sua elaborazione matematica subordinata progressivamente all’introduzione di calcolatori sempre più potenti e che persino alla luce dei potenti computer odierni, ancora attende d’incontrare la prova finale e inconfutabile della sua esistenza. Ciò che gli studi pregressi sul tema del nucleo interno hanno lungamente saputo dimostrare, tuttavia, è che spesso l’elaborazione di metodologie ed approcci nuovi possono accelerare non poco il compiersi di tale processo tecnologico, fino all’ottenimento di rapidi e non prevedibili cambi di paradigma. Situazioni come quella per la prima volta prospettata dai geofisici Adam Dziewonski e Miaki Ishii nel 2002, quando presentarono al mondo accademico la fondata ipotesi dell’esistenza di un terzo strato del suddetto nucleo (e quinto dell’intero pianeta, includendo il mantello e la crosta) con un diametro possibilmente collocato tra i 300 ed i 400 Km, che loro chiamarono IMIC – Innermost Inner Core o “Nucleo interno del nucleo interno” tanto compatto e solido da risultare in qualche modo paragonabile alla singola biglia di un cuscinetto a sfera. Un modo particolarmente ingegnoso di vedere le cose, necessariamente supportato da diverse deduzioni empiriche non necessariamente, né completamente valide a convincere gli scettici di un tale tipo di spiegazione. Categoria il cui sacro compito ereditario parrebbe essere diventato ora esponenzialmente più difficile, a partire dalla pubblicazione lo scorso febbraio di un nuovo studio scientifico sull’argomento, opera di due scienziati dell’Università Nazionale d’Australia, a Canberra…

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La sgargiante spietatezza dell’appariscente gambero torturatore di stelle marine

Probabilmente il più celebre personaggio della commedia dell’arte nata nel XVI secolo in Italia, assieme al meridionale Pulcinella dal contegno astuto e fantasioso, il variopinto Arlecchino bergamasco vanta già a partire dal suo nome delle origini di un tipo più sinistro e misterioso. Con un’etimologia che viene ritenuta germanica, dal binomio Hölle König (“Re dell’Inferno”) il servo dal costume variopinto viene rappresentato come infedele e imprevedibile, avido e ambizioso nella sua ricerca di un qualche tipo di ricchezza terrena. Che molto spesso finisce per concretizzarsi in grandi quantità di cibo, sottratto ai suoi legittimi destinatari tramite l’impiego di perverse metodologie frutto di uno studio d’incessante spietatezza situazionale. Ciò che gli stimati autori di quel genere non hanno mai pensato per i protagonisti delle loro storie, tuttavia, è il tipo di vicenda culminante con l’omicidio e la tortura apparentemente insensata di una vittima, per giorni o addirittura settimane, con l’unica finalità di perseguire un qualche tipo di vantaggio personale immanente. D’altra parte senza troppe requie o il tipo d’ostacoli dettati dall’umana empatia, a fare questo sembrerebbe proprio averci pensato la Natura. Proviamo perciò a spostarci nella nostra trattazione sotto la superficie pellucida dei mari, fino agli ambienti a noi perfettamente noti degli 1-30 metri di profondità, presso i confini tropicali dell’Oceano Indiano o il Pacifico Occidentale. Dove l’utilizzo dell’appellativo carnevalesco di cui sopra trova facilmente un valido destinatario, sia dal punto di vista metaforico che convenzionale, nella creatura monotipica da 5 cm classificata con rigore come Hymenocera o H. Picta, parte dal punto di vista tassonomico dell’ordine dei crostacei decapodi, infraordine dei gamberetti di mare. Pur possedendo un appariscente dello stile che lo porta ad distinguersi con il suo variopinto a macchie blu, gialle e rosse, neanche fosse un fantastico mostro a cartoni animati, tanto interessante quanto, in linea di principio, privo di effettive intenzioni apparentemente malevole nei confronti di altre specie a lui vicine. Il che permette nella fattispecie, come dicevamo, di tracciare una linea netta tra la fantasia e la verità, visto come il nostro eccentrico amico possa dirsi in grado di personificare, col suo stile di vita puramente istintivo, una delle entità più spietate facenti parte della nostra intera cognizione animale, fatta potenzialmente eccezione per la stessa ed almeno qualche volta empatica razza umana. Laddove chi per sopravvivere può uccidere soltanto un tipo di creature, e tende a farlo in maniera tale da garantirgli più validi propositi di sopravvivenza, smetterà ben presto di considerarla come un essere dotato di un proprio obiettivo, aspirazioni e valide capacità di raziocinio. Per quanto possa risultare sofisticato, il pensiero astratto di un echinoderma, nella fattispecie appartenente alla vasta categoria delle stelle marine. Che semplicemente e puramente esistono, frantumando i rigidi coralli della barriera, finché non vengono avvistati da qualcosa, o qualcuno di molto più terribile e affamato di loro…

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