La gente che sorride negli arborei grattacieli della Papua Nuova Guinea

Poiché in ogni pregressa circostanza immaginabile, i presupposti di una tardiva presa di coscienza erano sempre stata presente in questo luogo. Di come le caratteristiche di un’aurea e risplendente magione possano variare in base alla cultura posseduta da un popolo, in aspetto, ricchezza e solidità, ma pur sempre sia presente un simbolo particolare segno di prestigio, tanto imprescindibile da essere costante da un angolo all’altro della rosa dei venti: l’altezza sul livello del suolo, intesa come architettonica capacità di preminenza nei confronti della piatta disposizione dell’esistenza. Che vorrebbe un’effettivo insediamento come la diretta risultanza del bisogno abitativo e niente più di questo, mentre ogni ornamento, qualsiasi orpello distintivo, diventano soltanto aspetti di un ingombro addizionale a discapito dell’utilità nel dipanarsi dei giorni. Forse proprio per questo, l’elevata tipica dimora delle tribù Kombai e Korowai, situate nella parte orientale della seconda isola più grande al mondo, si presentano come un distintivo unicum nel panorama delle genti della Melanesia e non solo, motivate da specifiche ragioni strettamente interconnesse al loro stile di vita. Non cerchereste anche voi, d’altronde, di mettere una quindicina di metri tra i vostri letti ed il terreno, vivendo in una società dove il cannibalismo viene praticato abitualmente al culmine di continui e sanguinosi conflitti tribali? Col trascorrere degli anni, ed il filtrare osmotico della ragionevolezza civilizzata, simili conflitti sono per fortuna soltanto (soprattutto?) un ricordo. Ma la locale cognizione di una casa che sia irraggiungibile e perfettamente difendibile con archi e frecce, chiaramente, permane. Così da porre in alto tra le chiome, nel continuo dipanarsi delle giungle locali, l’occasionale tetto in paglia e recinto di pareti ad un altezza variabile tra i 15 e i 40 metri, tanto da riuscire a suscitare la spontanea e inevitabile domanda di come, esattamente, qualcuno possa essere riuscito a traportare i materiali fin lassù. Un’impresa impegnativa per qualsiasi gruppo d’operai dotati di moderne attrezzature, ma nient’altro che un ostacolo da superare agevolmente per coloro che ogni giorno vivono da queste parti, traendo sussistenza e addirittura prosperità da uno degli ultimi ambienti veramente selvaggi rimasti su questa Terra.
Le capanne dei cieli dunque, come potremmo poeticamente definirle, costituiscono un’importante risorsa per la difesa del territorio di ciascuna tribù, che ha l’inclinazione ad attaccare o scacciare chiunque si dimostri ostile all’interno di esso, laddove spazi abbastanza vasti vengono d’altronde lasciati tradizionalmente liberi, come augusta dimora degli spiriti a cui la loro religione è devota. I tronchi scelti come pilastro principale appartengono preferibilmente alla specie del cosiddetto albero di wamboun o il banyan (fico strangolatore) che completata la parte parassita del proprio ciclo vitale diviene un arbusto solido e svettante, in grado di resistere alle sollecitazioni del vento senza andare incontro a oscillazioni particolarmente indesiderabili o pericolose. Mentre un altro albero, al pari di questi, risulta niente meno che fondamentale per il sostentamento di tali popoli, la locale palma da sago o sagu (Metroxylon s.) dal nome dell’amido estratto dalle sue foglie per la produzione di una farina nutriente alla base della loro dieta…

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Non semplici note tra le pietre, ma una geologia sinfonica nella miniera svedese

Nel prolungarsi immoto di un persistente silenzio, durante l’epoca non ancora biologicamente diversificata del Devoniano, rimbombò d’un tratto il suono del più impressionante strumento musicale di tutti i tempi: il meteorite. Esattamente 377 milioni di anni fa, nella parte del mega-continente Baltica destinata a diventare l’odierna parte meridionale della Svezia, un concerto breve ma proprio per questo memorabile, concentrato nella singolare sublimazione di una singola e possente nota. Mantenuta, come l’acuto di un cantante consumato, fino al punto di spaccare intere faglie geologiche sui bordi dell’enorme cratere, rimescolando il contenuto dei sostrati minerali destinati agli utilizzi più disparati. Ma non prima che interi eoni di evoluzione, e qualche fugace millennio di sviluppo tecnologico, portassero noialtri a interessarci al ruolo collaterale delle sostanze, scoperchiando l’essenziale pentola del sottosuolo, senza facili scalini per accedere a quel mondo privo di pregressi appuntamenti con la civiltà umana. Risultato? Nel caso specifico, circa un mezzo secolo si sfruttamenti minerari, tali da lasciare una profonda ed antiestetica fossa a forma d’emiciclo negli spazi precedentemente incontaminati del distretto di Rättvik, regione di Dalarna. Finché la celebrata soprano d’opera Margareta Dellefors, passando di qui per caso nel corso di una vacanza nel 1991, non guardò a quel buco al tempo detto Draggängarna con occhi resi limpidi dall’esperienza pregressa. Esclamando innanzi ad una pletora di testimoni: “Qua dentro, se soltanto ce ne fosse l’opportunità, sarebbe possibile allestire un Don Giovanni o una Tosca tra i migliori al mondo. Provate soltanto a SENTIRE l’acustica di queste mura…” Detto, fatto. Ovvero detto, discusso, trasferito alle autorità di competenza, proposto al comitato di approvazione, finanziato dalla compagnia di stato, perfezionato dalla compagnia ingegneristica ed implementato grazie all’uso di un cantiere di tutto punto, poco prima di essere ribattezzato con il nome dal doppio significato di Dalhalla, ovvero “Valle [della regione] di Dal” ma anche ragionevole approssimazione del paradiso dei guerrieri, il Valhalla. E inaugurato, con gran clamore mediatico e persino trattazioni da parte della stampa estera, in quel fatidico 1995 con un pieno repertorio assai appropriatamente Wagneriano, dopo un paio di piccoli concerti di prova per gli amici ed i colleghi della cantante. In quello che potremmo definire la più vicina approssimazione, essenzialmente costruita in via del tutto accidentale, di un originale teatro all’aperto posto in essere per il rituale drammaturgico dell’antica civiltà dei Greci. In proporzioni sufficienti, ed appropriatamente attrezzate, per accogliere circa 6.000 spettatori, nei sedili strategicamente posizionati affinché il più lieve dei suoni sia perfettamente udibile dai recessi vicendevoli dell’intera struttura. Tanto che al completamento di un breve periodo di prova, le pièce lirico-teatrali cominciarono ad esservi effettuate senza nessun tipo di amplificazione acustica, potendo contare semplicemente sulla naturale tendenza delle onde sonore a propagarsi in modo progressivo, nonché il morbido riverbero offerto dalle ruvide pareti di pietra calcarea della cavea profonda ben 60 metri. Un’occasione più unica che rara…

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Il sistema millenario della capitale da cui viene quasi tutto il sale del Sichuan

Liu Linyi, uno degli ultimi fabbricanti di sale tradizionale dell’entroterra cinese, inizia le sue giornate con alcuni gesti ripetuti ed utili al fine di dar seguito alla sua antichissima professione. Una ricca colazione, qualche minuto di concentrazione psicofisica affine alla meditazione, quindi il vestimento nell’imprescindibile divisa operativa: ovvero nessun tipo di abito, fatta eccezione per l’occasionale tunica leggera e un paio di pantaloncini corti. Ciò in funzione delle infernali temperature raccolte nella sua officina, dove il prezioso fluido al centro di un impero viene estratto, cotto per purificarlo e poi di nuovo bollito, fino all’ottenimento di purissimi mucchietti pronti all’inscatolamento e successiva commercializzazione. Così come avveniva nella stessa identica maniera, in questo ameno luogo, esattamente dieci secoli a questa parte.
Tra tutti i criteri di riferimento utilizzati per discernere il patrimonio di una nazione, probabilmente nessuno è ripetuto un maggior numero di volte attraverso il corso della storia e nella varietà di culture sperimentate nei diversi territori abitati dalla civiltà, che questo. Non è in alcun modo difficile da immaginare, a tal proposito, l’importanza di quella candida sostanza di origine minerale, tutt’altro che rara in linea di principio ma non meno che necessaria, per riuscire a perseguire numerosi princìpi gastronomici nel novero delle possibilità umane. Al punto che, nel giro di una quantità del tutto ragionevole di generazioni, ogni fonte possibile di sale facilmente accessibile tende a scomparire nei territori maggiormente popolosi. Lasciando accessibili soltanto quelle riserve che sono inerentemente remote, profonde o in qualche modo essenzialmente occulte nei confronti degli occhi e delle mani di coloro che vorrebbero acquisirle. Luoghi come l’imponente falda acquifera sotterranea, la cui esistenza venne per la prima volta teorizzata durante la dinastia degli Han Orientali (25-220 d.C.) inducendo una fiorente classe di mercanti e imprenditori a modernizzare significativamente i processi industriali utilizzati per permetterne lo sfruttamento. Verso la creazione, nel giro di un paio di generazioni appena, di un centro abitato destinato ad assumere il nome di Zigong, dall’unione dei due toponimi attribuiti ai suoi due pozzi principali di Ziliu e Gong. Profondi e stretti scavi verso le profondità terrestri (pensate alla trivellazione per il petrolio) realizzati mediante un approccio particolarmente innovativo e funzionale: la percussione reiterata di un acuminato cuneo di metallo. Lo “scalpello” di un diverso tipo di scultori, pronti a trasformare le risorse della terra in denaro straordinariamente copioso e tintinnante…

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Come perdersi danzando nell’arcano dedalo della sapienza ad Haikou

Negli antichi testi dedicati all’eredità dei sapienti, la letteratura cinese parla di un’epoca in cui le persone particolarmente longeve potevano controllare la natura. Dopo aver compiuto un complicato tragitto, avendo potenziato la propria coscienza e personalità fino ai massimi livelli raggiungibili da un essere umano, essi potevano volare, respirare sott’acqua, persino rifiutare di arrendersi alla fine dell’esistenza. Disinteressati dal mondo e il vivere civile, quindi, costoro si recavano sulle montagne alla ricerca di un distante eremo, dove isolarsi totalmente dal resto delle persone. Qualche volta, sceglievano semplicemente una caverna. In certi altri casi, cantando a una particolare frequenza, o tramite l’applicazione della pura volontà e dei gesti, rendevano la pietra malleabile come fosse argilla appena estratta dalle profondità di un fiume. Ed al termine di poche, intense ore di lavoro, disponevano di un luogo adatto alla meditazione non soltanto come un semplice rifugio, in quanto valido a massimizzare il corso e la destinazione ultima dei propri ragionamenti. Una continuazione, piuttosto che il santuario della propria solitudine, di tutto quello che c’è attorno fino agli ultimi confini dello spazio e del tempo. O in casi più tangibili e attuali, dell’Oceano che riflette il principale astro celeste. Di una luce adatta a penetrare ed insinuarsi, negli strati permeabili ed assolutamente candidi della Wormhole Library di Ma Yansong. L’architetto e professore dell’Università di Tsinghua, dal 2004 a capo del suo studio MAD Architects, che potremmo definire come uno dei pochi membri della propria professione provenienti dalla Cina, ad essere famosi su scala internazionale nell’epoca corrente. In un paese dove l’attribuzione dei principali edifici costruiti localmente, per quanto eccezionale, viene dedicata ufficialmente ad una scuola o addirittura il committente, quando non coinvolge paradossalmente un celebre autore di provenienza occidentale, dimostrando un novero di doti largamente superiori alle aspettative di molti. Per progetti grandiosi ed impressionanti quali gli appartamenti organici della Hutong Bubble (2009, Pechino) l’ondulatorio Museo della Mongolia ispirato al deserto del Gobi (2011, Ordos) ed il futuro Museo della Narrativa simile ad un’astronave atterrata a Los Angeles, con un completamento previsto entro la fine dell’anno 2023. Laddove la nuova proposta per il lungomare della città isolana di Haikou, nell’estrema parte meridionale del paese, appare al confronto quasi minimalista nella sua essenzialità e l’altezza di un singolo piano. Per quanto possa esserlo una costruzione che esula da qualsivoglia tentativo d’incasellamento, rispondendo unicamente a logiche geometriche derivanti dall’interazione tra il gusto personale del creatore ed il suo specifico ambiente d’implementazione. Per 1.380 metri quadri circondati da un vasto giardino, contenenti “oltre 100.000 libri”, spazi pubblici ed una sala conferenze dedicata alla presentazione o esibizione di personaggi del mondo della cultura. Come la ballerina Zhang Qiaoqiao, coinvolta dallo studio videografico Nishinaka (a.k.a. Coppakstudio) per un video fortemente emozionale dedicato a far conoscere al mondo digitale questo recente edificio, inaugurato ad aprile dell’anno scorso dopo i circa 3 anni trascorsi dall’inizio della sua costruzione. Attraverso un eccezionale susseguirsi di spazi vasti e angusti pertugi, spesso culminanti in fori sempre più stretti con lo scopo principale di creare una continuità tra gli ambienti. Tanto che la biblioteca, chiamata Chóng dòng (虫洞 – wormhole) con riferimento alle speculative porte cosmiche di Einstein-Rosen, viene descritta come totalmente priva di stanze, rappresentando in modo atipico un tutt’uno completo ed indiviso. Nel quale, pur non trovando occulte vie di trasferimento verso le remote regioni dello spazio esterno, il visitatore è chiamato a sentirsi parzialmente immerso e in qualche modo parte vivente del notevole scenario antistante, niente meno che il tiepido Mar della Cina Meridionale. Un’obiettivo complesso per chiunque, ma (forse) non Ma Yansong…

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