Mai sottovalutare una graffetta intelligente

Nitinol

Su palchi illuminati appena il giusto, in mezzo alla penombra, sedicenti prestigiatori ripetono la stessa scena, ormai da un secolo, per il pubblico ludibrio dei presenti: sopra un tavolo a tre piedi, una tiepida teiera, dello zucchero e un semplice bicchiere. Versato un po’ di fluido paglierino con gesto elegante, all’improvviso concentrato, gli fuoriesce dalla tasca del mantello rosso e nero un cucchiaino: “Oggetto normalissimo, signori e signore, vi sfido a contraddirmi” E con la posata nella mano destra, la gira e la rigira, prima da una parte, poi dall’altra, conducendo ad baluginìo suadente. In certi casi, addirittura, l’arnese viene messo in mano a un aiutante, che lo passa quindi ai testimoni della prima fila, affascinati. Nulla di strano! Parrebbe il tipico implemento casalingo, oppure quello di un bar, rigido metallo indeclinabile, convesso, perfettamente statico nell’apparenza. Finché non torna in mano al proprietario. Che con vaga nonchalanche, dopo un attimo di suspence, pregustando il deus ex machina, zuccherata la bevanda, lentamente mescola l’insieme. Poi ritira fuori il cucchiaino, lo fissa con gli occhi spalancati per un paio di secondi e dice con carisma: “Piegati, dannato!”
Come spesso capita in quel campo, esistono miriadi di teorie. Si sospetta l’invisibile sostituzione con occulto succedaneo, incastrato nella manica, già flessibile di suo. O di un ingegnoso meccanismo, attivato dopo un tempo fisso, in grado di sbloccare gli ingranaggi nell’impugnatura dell’oggetto. Altri non ci pensano, dicendo soltanto, a loro stessi, che il cucchiaio “non esiste” è un’illusione o una parvenza. E forse tra gli alti templi tibetani, o nei remoti abissi atlantidéi, visse, o ancora si nasconde, un essere possente che sa far piegare i cucchiaini con la mente. Benché sia molto più facile, nonché probabile in questi tempi privi d’elegiache persuasioni, che il miracolo sia frutto della scienza. O per essere specifici: dell’isteresi (dalla parola greca hystéresis, che vuol dire ritardo). Un procedimento chimico che permette a certe sostanze, generalmente artificiali, di riprendere una forma precedente, senza sollecitazioni apparenti di alcun tipo. Il segreto è tutto nel calore. Non è chiaro? Basterà guardare questa graffetta, prima dispiegata, poi messa in una semplice bacinella di acqua calda.
Ciò che era un semplice fil di ferro, in quanto tale avrebbe poche aspirazioni. Soltanto se guidato dalla forza del pensiero, per inferenza, dovrebbe poter muoversi verso l’estremo opposto: la forma utile e industrializzata, in grado di tenere assieme i fogli! O questo pensavamo tutti, prima del 1932, quando il chimico svedese Arne Ölander scoprì questa strana dote di talune cose, facendo esperimenti con le leghe di oro e cadmio. Sostanze troppo costose da produrre, perché il fatto fosse più che una curiosità. Ma il seme era stato gettato e concimato nella mente fertile degli inventori. Nel 1956 Hornbogen e Wassermann, scienziati tedeschi, notarono una lieve parvenza di ritensione della forma anche nel tipico composto del rame e dello zinco, quell’ottone che, fin dai secoli trascorsi, veniva usato per preziosi oggetti d’arte o parti d’orologi. Ma troppo debole era una simile tendenza, perché fosse possibile trovargli vere applicazioni. Il che ci porta ai giorni nostri. Al nickel, frutto delle pietre delle stelle, ed al titanio, dall’occorrenza molto più frequente ma difficile da raffinare, fino a tempi assai recenti. I quali combinati assieme, danno questa lega che si chiama nitinol.

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L’uomo con l’iPhone più veloce al mondo

Morishowta

Se ne uccide più la penna che la spada, figuriamoci il telefonino. Specialmente in questo caso. Lavorando alacremente sotto la luce argentea della luna, Morishowta ha costruito cose. Sono armi, queste, contro il crimine e la noia. È bello guardarlo mentre, come i migliori supereroi, mette alla prova simili gingilli per i vicoli e le strade di un tranquillo, eppure vasto, centro urbano. Forse Tokyo, chi lo sa. Cosa importa, dopo tutto? Ciò che conta è crederci. E lui ci crede (veramente). Si è messo al tavolo da disegno, come un formale ingegnere tecnologico, progettando la soluzione di un problema, precedentemente irrisolvibile. Solamente perché ignorato, chissà poi perché. Stiamo parlando del ritardo nel rispondere allo squillo dello smartphone, che tante telefonate, importanti occasioni di dialogo in potenza, ha condotto verso il nulla dell’oblio. Bisognava pensarci prima! Così semplice, tanto geniale: polsiere a molla con sistemi d’estrazione, che consentono, in qualunque attimo del giorno, di far culminare straordinari gesti con la nipponica dicitura: “Moshi moshi?” Ovvero: “Pronto?” Tra il silenzio dei presenti, doppiamente basiti: per l’onore di trovarsi al cospetto del prezioso logo della mela, così come per il poco riguardo usato, nel maneggiarlo. Tale successo, tuttavia, non gli bastava. Ha dunque fatto pratica di combattimento, guardandosi un’intera cineteca del chanbara, i film in bianco e nero coi guerrieri samurai. Prima di esplodere dal suo portone principale, guidato dalla fiamma dell’entusiasmo sperimentativo, per mettersi alla prova contro il vento e il sole forte dell’estate.
Ne avevamo parlato in precedenza, di questa sua inventiva via d’accesso alla celebrità. Ma con il passar degli anni e i nuovi modelli messi sul mercato dalla Apple, cambiano i normali presupposti, assieme alle aspettative rilevanti. Non ci convinceva, del resto, la custodia gommata, un tempo consentita, per proteggere dagli urti l’elettronica di bordo. Forse Wolverine ha un fodero, per i suoi artigli? Oppure Batman, prima di lanciare il batarang, lo toglie dall’incarto della confezione? Nudi alla meta, sono i loro attrezzi, proprio perché sempre pronti all’utilizzo. E nel nuovo video, parimenti, il nostro amico ha messo assieme un aggancio ad emiciclo di incorporamento, realizzato ad-hoc, che lascia scoperti gli spigoli taglienti del dispositivo. Per ferire meglio i suoi malefici nemici, credo. Tanto, come l’altra volta, quasi sempre il telefono gli cade a terra, se non peggio. C’è però, stavolta, una sorta di percorso evolutivo nel suo procedere, un senso di fondamentale progressione. Dapprima, concentrandosi sui tablet, ci dimostra i meriti di una speciale bardatura. Che diventa, più che altro, come una catapulta della distruzione. Poi si dedica alla tradizione. Con la maschera vermiglia di un tengu, abbina al meccanismo d’estrazione il den-den daiko, o tamburello a doppia corda, un giocattolo molto amato dai bambini giapponesi. Per danzare, al suono di una musica che soltanto lui riesce a udire, in mezzo alle auto ferme in un parcheggio. Da lì, prosegue in modo logico, altamente ragionevole.

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L’infernale trono di vespe

Vespe nella poltrona

Il contesto è tutto. Ci sono parole che, in base alle circostanze, possono assumere significati estremamente cupi, come: la ruota, la corda, la sedia; metti caso, ad esempio, che fossimo nel sotterraneo del castello di San Jorge a Siviglia, dove soggiornavano gli sfortunati prigionieri dell’infame Inquisizione. Quivi, il semplice nominare tali oggetti sarebbe sufficiente a farvi spalancare gli occhi e le orecchie, se non altre cose ancora. C’erano arredi e suppellettili, in tali luoghi, particolarmente peculiari. Fatti con il ferro, tanto per cominciare. E acuminati, meccanizzati, resistenti al sangue ed al calore. Le poltrone, mirabilmente, fungevano da stufe col carbone, sopra le quali l’ospite poteva ricevere almeno TRE diversi tipi di torture. Quale convenienza! Davvero gli antichi sapevano sfruttare bene i limitati spazi della vita urbana medievale. Non come noi, che dopo un salto all’Ikea, per fare posto ai nuovi acquisti, finiamo per scartare cose ancora buone, magari soltanto un poco lise, per sempre dimenticate tra i residui custoditi nel garage. Tesori di una vita passata, non ancora spazzatura ma nemmeno utili a qualcosa…
Il problema delle mezze soluzioni è che lasciano la porta aperta agli imprevisti. Quando gli spietati sovrani del passato iniziavano la loro opera di convincimento su di un prigioniero politico, senza poi finirlo, quello un giorno finiva per evadere, prima o poi. E tornando tra i suoi sostenitori, fondava un culto o un’eresia, acquisendo la noméa famigerata di stregone o fattucchiere/a. Ciò era invero giusto, dal punto di vista karmiko moderno, eppure molto problematico. Perché arrecava, come un cancro, grandi danni a quel sacro corpo della nazione, il gigante che Hobbes aveva definito Leviatano. Una creatura composita, le cui grandi braccia sono solidi soldati. Che tra i capelli, nìvei di saggezza, ospita ecclesiastici e artigiani. Sostenuto dalle ossa fatte di frumento e campi e contadini. Su cui ribellioni, dal canto loro, erano osceni foruncoli e deformità. Anche le poltrone talvolta sviluppano escrescenze maligne, ribellandosi a chi le ha messe da parte, senza però avere il coraggio gettarle via. Questa, in particolare, è diventata un crogiolo di vespe.
Gli insetti gialli e neri che gli americani usano definire collettivamente yellowjacket, sono ben diversi, nella sostanza, dalla polistes dominula, o vespa cartonaia del continente europeo. Non costruiscono, come avviene qui da noi, graziosi nidi grandi all’incirca quanto una palla da golf, ordinatamente suddivisi in piccoli comparti ortogonali. Ma vere e proprie colonie cementizie, orrori eldrichtiani semi-solidi, abbastanza grandi da sopravvivere al gelo incipiente dell’inverno. Il che è un problema, perché in natura, tutto ciò che non sparisce, diventa più grande. Anno dopo anno, finché un giorno, come capitato a questo abitante di Hobe Sound, Florida, non apri la porta della tua capanna e… Per fortuna c’era, lì vicino, un rappresentante di Waynes Bees, l’azienda locale specializzata nell’esorcismo di simili impossibili situazioni.

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Guidare l’auto tra le onde dell’Oceano Atlantico

The Atlantic Road

Lasciate che vi parli di Atlanterhavsveien, la via asfaltata che s’inoltra nel mare impetuoso diventando una parte inscindibile di esso. Non vi passa sopra, come il Golden Gate. Ne sotto, alla maniera pavida del tunnel della Manica. Come avrebbero potuto, tali sottomesse soluzioni, soddisfare i discendenti dei dimoranti asgardiani? C’è un solo contegno per percorrere, volante stretto fra le mani, il sottile nastro d’asfalto che si estende tra le piccole comunità di  Kristiansund e Molde, ben visibile dai fiordi sul finire dell’Europa…Il coraggio dei vichinghi, l’entusiasmo degli esploratori dalla rossa barba e i baffi a treccia. Ho sognato, questa notte, della strada norvegese affine al ponte mitologico di Bifröst. Lasciate che vi parli della mia esperienza.
Casa-lavoro, quasi come tutti i giorni. Stavo guidando l’argentea Bugatti Veyron che effettivamente tengo nel garage, verso una mezzanotte stranamente luminosa, sul tragitto che conduce fino a Yggdrasill, l’albero del mondo. È molto facile da ricordare, tale strada. Basta prendere l’uscita 45 dell’A90, il familiare raccordo anulare, per poi procedere lievemente di traverso, tra le regioni del sensibile, oltre la quinta o sesta dimensione. Ciò sottintende qualche giro in più, passando una seconda volta per il Via. Procedura conveniente, questa, al fine di ridurre le distanze (lo stradario non vi aiuterà). Di renderle, soprattutto, rilevanti. Nel regno della fantasia, spariscono i confini e i tratti della noia, le semplici autostrade. Restano soltanto attimi di meraviglia. Colline verdeggianti e strabilianti lungomare. Fino al passo dello Stelvio, il secondo valico automobilistico più alto d’Europa, edificato per il volere dell’imperatore Francesco I d’Austria, con la vista sulle verdeggianti Alpi Retiche, il ricordo sempre netto delle grandi glorie del ciclismo. E da qui alla Romania del Transfăgărășan, la serpeggiante via costruita in tempi di guerra, quasi in verticale, scavata con il sangue, col sudore e con la dinamite, che costò la vita a 40 giovani soldati del regime. Per poi diventare, dopo oltre 30 anni, una meta turistica di chi ama fare esperienze di guida fuori dal comune; merito delle peripezie dei tre protagonisti Top Gear, se vogliamo. E che dire della Silvrettastrasse, in Austria, o della Route Napoleon sulla Riviera Francese, che lui percorse nel 1815 ritornando dall’esilio… Racconti per un altro giorno, un’altra notte di guida senza posa. Non erano di passaggio per Yggdrasill. Dopo qualche ora, sul volgere dell’alba sono giunto dunque nel profondo Nord. Oltre la Finlandia e la Svezia, fino al gelo della notte piena d’opportunità.
Terra di antiche rocce, in cui l’erba cresce tra la neve della primavera, forte, nonostante tutto, senza dubbi o esitazioni. Qui, senza mai frenare, il potente motore tedesco che ruggiva alle mie spalle, ho risalito la Trollstigen, o scalinata dei troll. L’impervio passo montano che divide Åndalsnes in Rauma da Valldal in Norddal, dalla cui vetta, se si è fortunati, quando l’aria è molto rarefatta, già si scorge l’acqua della Fine, oltre cui vivono soltanto le balene soffiatrici. Se non fosse per il titolo e la mia premessa, potreste già pensare che il viaggio tra le strade più memorabili d’Europa, per quest’oggi, fosse terminato. Ma così non fu: mancava il culmine finale.

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