Il conflitto armato: forse il capitolo più oscuro tra i molti possibili frangenti della condizione umana, per sua inclinazione dedicato alla compromissione dell’altrui incolumità e future prospettive di sopravvivenza individuale. Ed altrettanto spietato nei confronti del mondo naturale e tutto ciò che questo contiene, posto inevitabilmente in secondo piano, di fronte alle necessità di colpire, distruggere ed annichilire ogni tratto di terreno oggetto delle rispettive manovre. Una contingenza nella cui realizzazione, al tempo stesso, risulta possibile individuare interazioni fortuite e transitoria, qualche volta conduttive a un senso di armonia che nutre l’anelito verso un possibile ritorno allo stato di quiete. Questo è dunque il presupposto, alquanto inaspettato, alla base di una serie di pubblicazioni social digitalizzate da parte di alcuni rappresentanti di quel vasto collettivo dei giovani soldati, tristemente al centro di una simile tempesta, che ormai da più di un anno continua ripetutamente a battere sui margini di ciò che siamo incoraggiati a definire “Europa”. Proprio là dove sussiste, fin da tempo immemore, l’estremo occidentale dell’area abitata dalla specie coprotagonista di queste registrazioni, il grazioso piccolo carnivoro che viene chiamato perevozchik in russo, myshovka nel dialetto cosacco terek, chokha in calmucco e fessyah in arabo (che vuol dire maleodorante). Termini tradotti normalmente in modo poco letterale quando non si sceglie, piuttosto, di ricorrere alla definizione scientifica di Vormela peregusna. Uno dei rari binomi tassonomici che non utilizzano il latino, sfruttando invece l’etimologia della parola tedesca würmlein (piccolo verme, per via della sua forma allungata) e quella ucraina perehuznya che vuole dire puzzola ed a cui si aggiunge, normalmente, la definizione di “marmorizzata”. Per distinguerla, in funzione della sua caratteristica livrea, dai più comuni abitanti striati o marroni dei boschi d’Eurasia, il Vecchio Continente ancora in grado, dal punto di vista degli animali, di sorprenderci con la sua biodiversità e le notevoli caratteristiche di un ecosistema non del tutto compromesso dall’invasione della civilizzazione moderna. Creaturina che compare in questo modo, con il suo peso raramente superiore ai 500 grammi e una lunghezza tra i 15 e 22 centimetri, tra le braccia dei soldati ed in almeno un caso intenta ad esplorare una delle loro trincee, all’interno della quale aveva probabilmente finito per cadere durante le proprie peregrinazioni prossime al sorgere del sole. Giacché nessuno potrebbe sognarsi, al primo accenno del suo verso sibilante, di mettere in dubbio un carattere assolutamente capace di farsi rispettare di queste sia pur graziose, quasi esageratamente accattivanti protagonisti nelle accidentali condivisioni di quei momenti…
Un singolare contributo giroscopico al sogno dell’auto volante
Nel mondo della tecnologia moderna gli eventi si susseguono rapidamente, al punto che talvolta non è facile comprendere se chi promette l’astro lunare abbia una base solida per le proprie ambizioni, piuttosto che l’intento di comunicare il sogno della pipa, ovvero la chimera di un futuro meno prossimo di quanto vorrebbe farci credere a vantaggio dei propri progetti aziendali e l’acquisizione di una fama che sconfini dal suo mero ambiente di partenza. Esistono però passaggi, a loro modo, necessariamente utili a fornire concretezza ad ogni nota della sinfonia dell’apparenza, come l’effettivo riconoscimento che deriva da una certificazione necessaria, per quanto preliminare e scevra d’ulteriori commenti. Soprattutto quando a fornirla, come nel caso specifico, è la Federal Aviation Administration (FAA) l’ente preposto a regolamentare l’utilizzo dei cieli statunitensi, ad opera di aerei, elicotteri e… Strane soluzioni ibride al problema di sfuggire alle catene della gravità terrestre. Così risale a tre giorni a questa parte la notizia del permesso speciale consegnato dall’ente suddetto alla compagnia californiana della Alef di Jim Dukhovny, cittadino di Palo Alto dalla discendenza ucraina, per il loro prossimo prototipo dell’EVTOL dal nome Model A, imminente evoluzione della già mostrata Model Z. Veicolo a decollo verticale elettrico (ciò significa la sigla) ma anche l’ultimo contributo all’annosa fissazione collettiva per qualcosa che tutti credono di desiderare, pur non disponendo di un’effettiva casistica d’impiego quotidiano: quel caposaldo della fantascienza, “l’automobile” capace di staccarsi dal suolo. Laddove l’utilizzo delle virgolette è d’obbligo, vista la somiglianza della maggior parte di questi veicoli ad aerei dotati di ruote, le ali ripiegate verso l’alto o all’indietro come quelle di una libellula ipertrofica con le scarpe da corsa. Fino ad ora: basta uno sguardo alla creazione in oggetto, per il momento nella forma di un semplice rendering in tre dimensioni, per realizzare di trovarci a tutti gli effetti innanzi ad un qualcosa di fondamentalmente diverso. Una “scocca” o struttura reticolare con funzione di carrozzeria, con forma niente affatto condizionata dalla sua doppia funzione. E la capacità di sollevarsi da qualsiasi luogo, senza la necessità di piste di decollo, eliporti o altre strutture designate nell’indistinto paesaggio urbano. Mediante l’effettiva realizzazione di quella che potremmo definire l’arte del Transformer, piuttosto che un vero e proprio gioco di prestigio. Di cui possiamo prender atto grazie ai video di presentazione, in cui l’oggetto volante formalmente identificato si solleva in senso verticale per poi ruotare su due assi fino a ritrovarsi perpendicolare ed orientato di taglio. Grazie alla cabina sferoidale stabilizzata e finendo per assomigliare, a tutti gli effetti, ad una sorta di bizzarro biplano privo di coda. Il cui atterraggio può avvenire col procedimento invertito, una volta che il pilota avrà deciso di poter tornare a fare uso dell’asfalto come qualsiasi altro essere umano. Grazie all’utilizzo di una serie di tecnologie che definire eclettica sarebbe, a conti fatti, un eufemismo…
Il verme di un millimetro che vola grazie all’elettricità del calabrone
È imprecisa l’idea che il verme nematode, parte del suo phylum ragionevolmente distinto da quello degli anellidi o qualsiasi altra creatura strisciante del pianeta Terra, debba necessariamente costituire un parassita o pericolo per la salute degli umani. Laddove se finissimo per bere uno di questi Caenorhabditis elegans, caduto accidentalmente in un bicchiere, nulla di avverso potrebbe accadere al nostro organismo. E forse finiremmo per assumere, persino, qualche proteina da una delle pochissime creature in grado di sopravvivere al vuoto spaziale. Già, non è malvagio. Anzi potremmo definirlo, addirittura, utile alla presa di coscienza delle implicite caratteristiche del proprio gruppo tassonomico, composto da esseri che di lor conto tendono, in effetti, a causare un sufficiente novero di problematiche pendenti. Ed era proprio nell’intento di condurre l’ennesima serie di rilevamenti su questo importante tema, che nel corso dell’ultimo anno in laboratorio Takuya Chiba dell’Università dello Hokkaido, Etsuko Okumura e colleghi hanno iniziato notare qualcosa di assolutamente poco prevedibile. Ovvero la maniera in cui le larve immature a lungo termine di questa specie, dette dauer, tendevano a non rimanere sul fondo delle colture in agar realizzate per l’osservazione al microscopio elettronico. Ma piuttosto balzavano o venivano attirate, in maniera largamente misteriosa, verso il coperchio di quei piccoli recipienti, cui si attaccavano come un palloncino strofinato alla parrucca di un clown del circo. Eventualità capace di suscitare più di qualche interrogativo e che una volta portata (tanto tardivamente) all’attenzione di un gruppo di fervide menti, portò ad esaminare una dopo l’altro i possibili fattori scatenanti. Fu dunque presto scoperta la maniera in cui i vermetti NON strisciavano fino ad una simile collocazione, comparendo piuttosto in modo pressoché istantaneo a ridosso del soffitto trasparente. Lasciando come spiegazione possibile, in base al principio della “spiegazione improbabile” di Sherlock Holmes, che un qualche tipo di forza invisibile, intangibile ed inarrestabile stesso portando le creature a sollevarsi, qualche volta da sole, altre tutte assieme, costituendo una sottodimensionata analogia al famoso paradosso di una fila d’elefanti dal nostro pianeta fino al principale astro notturno. Lunare, inteso come un’ambiziosa metafora o ausilio all’elucubrazione, tutto ciò d’altronde non sembrò in alcun modo esserlo. Permettendo d’acquisire l’evidente ispirazione che costituisse parte dello stile di vita del nematode al centro dell’inquadratura, e in quanto tale un frutto periferico, così ostinatamente trascurato dalla scienza, della lunga marcia dell’evoluzione…
L’ornato attrezzo che accompagna l’ingrediente più pregevole della gastronomia mexicana
Ogni guerriero ha il suo implemento da battaglia e nella guerra ininterrotta per riuscire a dare il gusto necessario all’elezione di una splendida pietanza, ogni oggetto è lecito, qualsiasi architettura pratica può dare un senso alla sua funzione. Purché le mani che lo impugnano possiedano un intento puro e ragionato, frutto dell’esplorazione pregressa dell’inesauribile fontana della conoscenza. Così che sono le cose semplici, molto spesso, a custodire i metodi dalla maggiore versatilità procedurale, proprio perché in grado di adattarsi ad ogni circostanza, qualsivoglia tipo di occasione che precorre l’apparecchiatura di una tavola che possa dirsi, sotto ogni punto di vista, perfetta. E non c’è un vero modo, entro i confini del grande paese mesoamericano e fino alle propaggini che in esso confinano con gli Stati Uniti, per poter dire di aver dato soddisfazione a quel bisogno, senza il prodotto fatto con i semi di quel frutto affine alla divinità, il Theobroma cacao che per secoli, millenni, fu considerato un (sacro) gusto acquisito. Prima che l’aggiunta dello zucchero, verso la metà del XIX secolo, potesse renderlo notoriamente irrinunciabile per ogni fascia di popolazione interessata a soddisfare il proprio palato. E quando la sua forma maggiormente apprezzata, come ancora avviene in alcuni stati del Messico, era quella liquida all’interno di appositi contenitori, dove veniva miscelato con il mais e la masa, versione nixtamalizzata (bollita e fatta riposare nell’acqua di calce) di quel cereale. Ma miscelato come, esattamente? È qui che nasce la disquisizione di una fondamentale scelta di campo. Tra quella di chi, come il filologo Esteban Terreros y Pando, afferma che il molinillo (“piccolo mulino”) non venne inventato prima dell’anno 1700, successivamente all’arrivo degli ingegnosi coloni europei, che quindi ne insegnarono l’impiego alle popolazioni indigene della Nuova Spagna. Laddove il missionario cristiano Alonso de Molina, di lì a poco, sarebbe stato pronto a giurare che attrezzi simili fossero stati in possesso già da tempo dei cosiddetti Indios e le altre genti ai confini estremi dei grandi imperi meridionali, ipotesi avvalorata dall’esistenza di almeno due parole utili a indentificarlo nell’antica lingua nahuatl: chicali e aneloloni. Laddove l’ottimale preparazione, con conseguente ottenimento di una schiuma in grado di donare morbidezza e sapore alla miscela, può essere almeno in linea di principio frutto di uno spostamento ritmico e reiterato all’interno di multipli vasi o bicchieri. Ma può essere portato a compimento con efficacia molte volte superiore grazie all’utilizzo di questo buffo arnese. Una mazza, un pomello, una gamba del tavolo, uno strumento musicale. Il cui suono riecheggiante e quello della lingua che sobbalza nello spazio di sua competenza, precorrendo il desiderio di assaggiarne l’insostituibile risultanza…