Cosa resta di davvero autentico all’interno della Casa Bianca

Osservando un grande monumento dall’esterno, qualunque possa essere stato il secolo del suo completamento, è particolarmente facile inoltrarsi con la mente nella percezione innaturale che la tabella delle epoche sia stata riportata temporaneamente indietro. Mentre il nostro sguardo può spostarsi sull’essenza stessa, di quell’ormai trascorso momento storico, condividendo l’esperienza estetica dei nostri antichi predecessori. Eppure se c’è una caratteristica importante della mente umana, è la sua semplicità nell’essere ingannata addirittura consapevolmente, ogni qualvolta ciò è proficuo nella continuità formale di un’utile illusione. Ragionamento ancor più vero quando l’asse di riferimento preso in considerazione, nell’elaborazione del teorema, include l’ampia collettività di un’intero gruppo nazionale: uomini, donne e la loro prole, riuniti sotto il simbolo arbitrario di una bandiera. E tutti gli elementi, più o meno tangibili che da essa traggono potere, come le permutazioni al termine di una sequenza di cifre immutabili nella vasta allegoria degli eventi. Campo in cui, la tradizione ce lo insegna, gli Stati Uniti riescono ad essere dei veri maestri, grazie all’applicazione di una serie di principi e metodologie che uniscono il particolare all’assoluto, il dettaglio all’insieme, le moltitudini a una singola famiglia e la sua pubblica esperienza di vita. Poche cose furono in effetti giudicate più importanti, alla pianificazione nel 1791 della nuova capitale Washington DC da parte dell’architetto francese Pierre l’Enfant, della casa presso cui avrebbe avuto l’onere e l’onore di abitare il sommo Presidente, dopo i precedenti alloggi utilizzati temporaneamente da George Washington presso New York e Philadelphia. In un letterale capovolgimento tra funzionalità e simbologia, grazie all’impiego di richiami all’arte ed all’architettura neoclassica, come del resto fatto per l’antistante e non troppo distante Campidoglio della Nazione. Ma un conto è creare qualcosa che si mostri totalmente incriticabile sulla base del suo aspetto visuale, tutt’altra cosa poter contare su dei crismi operativi tali da poterlo rendere incrollabile di fronte al rapido trascorrere delle generazioni. Ovvero solido come un’anfiteatro, acquedotto o altra struttura dell’antica Roma, a partire da quel fatidico anno 1800 del suo completamento effettivo. Soltanto 14 anni prima che un’armata inglese, durante il conflitto riacceso nuovamente nel 1812, avesse l’iniziativa di appiccare il fuoco all’edificio, permettendone la salvezza solamente grazie a un’improvviso quanto provvidenziale scroscio di pioggia. La prima di una lunga, nonché irrimediabile serie di cicatrici…
Spostando perciò la nostra lente al 1945, al momento critico e poco prima del tragico bombardamento che avrebbe sancito la fine della seconda guerra mondiale, il 33° presidente Harry Truman impugnò le redini di un paese senz’altro stanco, ma trionfale ed unito. All’inizio di un periodo di rinnovato prestigio internazionale e trionfo economico degli Stati Uniti, tuttavia, la stessa stabilità non poteva essere individuata nella sua casa più celebre e rappresentativa. Come reso palese da una serie di lettere indirizzate da parte del politico alla moglie Bess prima che si trasferisse, nelle quali raccontava di “rumorosi fantasmi” e “strani scricchiolii” udibili a tutti e tre i piani della candida magione, perfettamente capaci di suscitare un senso d’inquietudine in chicchessia. Sentimento più che ragionevole e giustificato, che potremmo ricondurre a un’istintivo senso di sopravvivenza, considerando quanto si sarebbe andati vicini al crollo dell’intero ambaradan!

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Nel giorno di festa, chi saprà resistere al sapore del melone di zucchero cinese?

Lucidi e setosi, splendidi, perfetti sotto ogni possibile punto di vista. Non presentano neppure l’ombra di un picciolo. Eppure se provi a sbucciarli per affondarci dentro i denti, non potrai fare a meno di scoprire qualcosa d’inaspettato. Perché sono vuoti dentro, e si frantumano come fossero fatti con vetro o ghiaccio! “Per fare il frutto, ci vuole il fiore” diceva un famoso botanico in maniera particolarmente facile da ricordare, usando lo strumento della musica che nello stesso modo può riuscire a risultare utile per favorire la più rigogliosa crescita dei rami. Eppure in tutto questo non è detto che per forza l’albero debba trovarsi a possedere un ruolo, se è vero che la cognizione stessa di quel minimo concetto primordiale, da cui scaturisce ogni sequenza lungo l’arco della crescita situazionale può anche prescindere dalla tangibile materia, venendo inteso come “seme” delle idee, o un “seme” imprescindibile piantato dal destino stesso, come punto di passaggio che non ha bisogno di ripetersi le volte successive alla prima. Una volta che riescono a interporsi quegli agenti straordinariamente utili e operosi, che siamo propensi ad associare al duplice concetto di una coppia di mani umane. E così via a seguire, per 18 successive generazioni rintracciabili fino alla dinastia Ming, quando gli antenati di Chen Shouxiang, a quanto lui stesso ci racconta, ebbero modo di trasferirsi presso il villaggio montano di Chenlou, nella regione di Laiwu all’interneo della vasta provincia settentrionale dello Shandong. Portando qui attorno al 1717 una semplice tecnica, molto diffusa nello Hebei di provenienza, per bollire l’orzo ed il riso trasformandolo in una sorta di sciroppo semi-denso, rapido a solidificarsi una volta raggiunta la temperatura ambiente. Nonché caratterizzato da una singolare propensione a lasciar emergere la componente zuccherina di quel cereale o qualsiasi altro incluso nel calderone, creando vie d’accesso a strade culinarie letteralmente inesplorate. Che fosse possibile creare un cibo particolarmente dolce, anche prima dell’importazione in quantità industriali della canna da zucchero dall’Indomalesia, o senza un accesso diretto alla barbabietola di concezione europea, è un concetto largamente trascurato dal senso comune dei gastronomi senza un preparazione che risalga nel tempo, benché appaia straordinariamente chiaro nella realizzazione di questo cibo molto distintivo, strettamente associato alla ricorrenza del capodanno lunare o cinese. Tutto ciò per una ragione pratica, oltre che tradizionale, vista la tendenza inevitabile allo scioglimento del prodotto finale, una volta che il termometro dovesse superare un certo numero di gradi. Il che rende ciò che viene chiamato il celebre tianggua (甜瓜) di Chenlou (陈楼) una diretta risultanza della rara commistione di luogo, momento e circostanze irripetibili nella sua particolare cognizione, molto probabilmente fatta derivare da primizie stagionali dalla provenienza assai diversa e interconnessa a costose filiere d’importazione da terre remote. Così che oggi, a quanto ci viene spiegato nei materiali di riferimento, soltanto tre produttori ancora esistono di questo cibo unico al mondo, di cui due a conduzione familiare ed una fabbrica situata anch’essa all’interno dello stesso singolo villaggio cinese. Dove le regole della natura, come niente fosse, vengono letteralmente ribaltate, sostituendo i rami alle radici…

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La fortezza tra le montagne che seppe respingere l’implacabile ambizione di Tamerlano

La Repubblica Autonoma di Nakhchivan, exclave dell’Azerbaigian situata tra Armenia ed Iran, ha molto di cui essere orgogliosa. Fautrice di uno sviluppo industriale particolarmente significativo negli ultimi anni, particolarmente incentrato nella transizione verso metodi energetici di tipo rinnovabile, essa vede l’integrazione tra antico e moderno tipica dei paesi che hanno saputo fare la pace con il proprio passato, coltivando al tempo stesso la modernizzazione di strade ed ambienti urbani, mentre continua a preservare il tesoro di valli e foreste dall’imprescindibile rilevanza ambientale. Ma ciò che maggiormente risulta essere caratterizzante, nell’immagine internazionale di questo luogo non eccessivamente frequentato dal turismo d’Occidente, è la presenza di alcuni siti archeologici capaci di costituire un punto di riferimento nell’inquadramento storiografico di questa regione, un importante punto di snodo strategico nel percorso di conquista di chiunque intenda catturare, traendone successivo beneficio, le importanti risorse agricole e minerarie delle montagne del Caucaso, in bilico tra i due principali bacini idrici all’interno dell’Eurasia. Prendete ad esempio l’antichissima e lungamente utilizzata fortezza, descritta per la prima volta da un viaggiatore spagnolo del XV secolo come una letterale cittadella, con vigneti, frutteti, campi coltivati e pascoli, circondati da mura ed alte torri ad un’altezza di 1700 metri lungo le pendici del monte Alinja. Sebbene utilizzando all’epoca il nome armeno di Yernjak, restando del tutto inconsapevole degli oltre mille anni di storia trascorsi dall’originale costruzione di questo complesso, confermati soltanto dai ritrovamenti archeologici e gli approfonditi studi condotti in epoca moderna. Quando acquisito l’appellativo del tutto arbitrario di “Machu Picchu azera” la fortezza ribattezzata con l’appellativo precedente di Alinjagala (torre di A.) avrebbe incontrato un rinnovato interesse da parte degli estimatori delle epoche antecedenti, ovvero chiunque riuscisse a individuare l’importanza di un tale luogo nell’acquisizione di un quadro completo della situazione politica e culturale di una simile terra di confine. Qualcosa che sembra esulare, a pieno titolo, da qualsiasi definizione tecnica priva di contesto.
La fortezza nasce quindi, secondo i dati raccolti, almeno attorno al VI secolo d.C, quando vantava il compito di proteggere i domini delle casate nobili armene dalle scorribande dei popoli di matrice araba provenienti dal vicino Oriente. Appartenente molto probabilmente alla famiglia nobiliare dei Bagratuni, membri dell’omonima dinastia regnante armena, essa compare dunque in modo estensivo in alcuni frammenti riferiti alle conquiste dell’amiro Sagide Yusuf ibn Abu Saj, temibile generale che circa tre secoli dopo riuscì a conquistarla durante il regno di Smbat I (r. 890-914) catturando il sovrano ed a quanto ci è dato comprendere, mettendolo a morte proprio dinnanzi alle mura della sua “imprendibile” fortezza. Naturalmente all’epoca la particolare configurazione territoriale del paesaggio ove sorge il complesso non doveva ancora essere stata sfruttata fino al massimo del suo potenziale, se è vero che questa facile sconfitta, nei molti anni a venire, non si sarebbe più ripetuta con modalità effettivamente comparabili. Dopo un periodo di strano silenzio nella narrazione giunta fino ai nostri giorni, la cittadella ricompare quindi all’inizio del XIII secolo con il ruolo di sede del tesoro ed erario di stato degli Ildegizidi, dinastia islamica turca la cui capitale era sita in corrispondenza dell’odierna città di Armavir. Con il decadere per una crisi dinastica di tale predominio, la fortezza passò di nuovo sotto il controllo arabo, ed in particolare quello dell’emiro Khoja Dzhovhar, il cui potere si estendeva da Kapan fino a Tabriz. Furono questi gli anni probabilmente in cui le mura vennero costruite lungo le intere pendici della montagna, costruendo una serie di barriere militarizzate che nessun esercito avrebbe potuto varcare facilmente utilizzando la forza delle armi. Se non che alla morte di Dzhovhar senza rilevanti eredi, ancora una volta il baluardo sarebbe passato di mano, finendo sotto il controllo del suo vassallo Altun. Era quindi il 1387, quando il capitolo maggiormente significativo nella storia dell’alta Yernjak avrebbe avuto modo d’iniziare, dinnanzi allo sguardo impassibile della Storia.

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Scoscesi obruk, le impressionanti vie segrete verso il sottosuolo dell’Anatolia

Le proporzioni sono tutto quando si sta tentando di osservare un fenomeno, nella speranza di comprenderne la portata ed il significato all’interno di un contesto sufficientemente vasto da fornire uno spunto d’analisi ulteriore. Prendi ad esempio, la realtà osservabile di un foro circolare, in quella che può essere soltanto definita come una superficie di colore marrone chiaro. Che vista da lontano, può ricordare facilmente la parate di una casa o il pavimento del bagno, in corrispondenza dei quali qualcuno, per ragioni non del tutto chiare, ha scelto di praticare un’apertura passante da parte a parte mediante l’uso di un trapano o altro simile implemento. Ciò almeno, finché l’inquadratura non si avvicina progressivamente, mostrando le forme chiaramente riconoscibili di quelle che possono essere soltanto piccolissime automobili, ed alcuni microbi variopinti intenti ad industriarsi nel calare giù una cima per andare a controllare cosa c’è suo fondo. Microbi che sono, neanche a dirlo, persone. Ed è allora che la descrizione funzionale della scena tende ad allargarsi, per includere all’interno del capitolo non più una mera stanza, ma l’intero territorio circostante di uno spazio coltivato, all’interno della ricca pianura di Karapınar nella regione turca di Konya. La cui caratteristica climatica maggiormente determinante è la caduta di pochi centimetri di pioggia ogni anno, certamente insufficienti per poter riuscire a sfruttare in maniera valida la fertile terra che caratterizza questo particolare altopiano circondato da altissime montagne. Ostacolo soltanto in parte insormontabile, quando si considera la fortunata presenza di un’estesa falda acquifera 50, 100 metri sotto il terreno battuto dal Sole, sufficiente all’implementazione sistematica di un vasto e funzionale sistema d’irrigazione. Ma l’industria umana, questa è cosa risaputa, riesce ad essere maggiormente abile nel risolvere i problemi immediati, piuttosto che studiare le conseguenze a lungo termine delle proprie scelte collettivamente determinate. Ed ogni soluzione apparente di un problema in essere, specie quando fatta materializzare dalla pura ed intangibile aria del mattino, tende ad avere un costo non sempre subito evidente. Così che, prendendo in esame un periodo di 33 anni tra il 1977 ed il 2009, 19 di questi fori smisurati, chiamati in lingua turca obruk (“fori” o “caverne”) si erano aperti nella zona rilevante, di cui 13 soltanto negli ultimi 4 anni del periodo. Mentre allo stato attuale dei fatti, canoni meno stringenti di conteggio arrivano a citarne fino a 600, dalle dimensioni più o meno estese disseminati nell’intero estendersi di questa zona d’importanza agricola senz’altro significativa. Un’ambiente di lavoro, per coloro che si trovano all’interno, nel quale sopravvivere significa imparare a gestire l’ansia, nella faticosa consapevolezza che in qualsiasi momento, senza nessun tipo di preavviso, il nulla possa spalancarsi per accogliere il proprio terreno, se stessi o la casa dei pregressi sacrifici, in cui risiede un’intera famiglia che non ancora non può, o non vuole entrare nell’idea di trasferirsi altrove.
La ragione pratica di un tale senso d’instabilità latente, dunque, è stato al centro di numerose ricerche scientifiche pregresse nel corso dell’ultimo secolo, finalizzate all’individuazione di possibili ragioni e a seguito di ciò, approcci che possano dimostrarsi in qualche modo risolutivi. Per un novero di cause giunto ad includere il collasso di antichi maar (laghi sotterranei d’origine vulcanica) piuttosto che la dissoluzione del sostrato iniziata durante il periodo maggiormente umido del Pleistocene. Altri in epoca più recente (Canik e Corekcioglu, 1986) hanno ipotizzato l’esistenza di un complesso meccanismo di emanazione di gas magmatici, capaci di contribuire alla liquefazione del sottosuolo mediante una reazione chimica dell’acqua ricca di anidride carbonica recuperata in alcuni sondaggi in profondità, una situazione classica in situazioni di tipo carsico come l’altopiano di Karapınar. Ma ogni personalità coinvolta nel corso degli ultimi anni, assieme agli stessi proprietari delle terre affette dal problema in questione, non ha potuto fare a meno di venire a patti con l’implicazione maggiormente problematica di questa intera concatenazione di cause ed effetti: il fatto che sia stata la mano dell’uomo e null’altro, guidata dalla solita ambizione che la caratterizza, ad aver contribuito all’attuale stato dei fatti…

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