Alberi di sangue: come vanno inaspettatamente a caccia gli scoiattoli californiani

Il volto del terrore non ha tratti o lineamenti che compaiano invariati in ogni circostanza conosciuta dagli uomini o la natura. Ciò che implica un intento distruttivo, egoistico, esiziale può trovare fondamento negli avversi presupposti ed anche in circostanze che ci sembrano rassicuranti, per l’accumulo delle esperienze pregresse. Riuscireste mai ad immaginare dei secondi fini, nell’immagine bucolica di uno scoiattolo che scava una buca? “Certamente, egli avrà intenzione di deporvi noccioline per l’inverno.” Penserete. “Che simpatica, operosa piccola creatura.” D’altra parte voi non siete, arvicole. Placidi roditori del sottobosco, topi totalmente innocui che si nutrono esclusivamente di vegetali. Ogni appartenente alla genìa di Gigio di suo conto resta sempre una creatura opportunista. In grado e con i presupposti per nutrirsi di ogni cosa commestibile di questa Terra, inclusi altri e meno forti, rapidi, scaltri esseri viventi. Così il predatore (di semi, radici e foglie) può talvolta diventare la preda. Di un essere abbastanza simile nel suo complesso, da evocar l’immagine dell’orrido cannibalismo.
A scorgere per primi la casistica sono stati, accidentalmente, i ricercatori dell’Università del Wisconsin coinvolti nel progetto decennale per l’osservazione degli sciuridi all’interno del parco naturale di Briones, situato nella parte orientale della Baia di San Francisco. Dove giusto nel corso dell’ultimo anno, a causa di un mutamento delle circostanze climatiche e gli ostacoli antropogenici al normale andamento dell’ecologia, è stato riscontrato un aumento esponenziale della popolazione collettiva di Microtus californicus, un tipo di vole (o arvicola) della lunghezza di 196 mm che va in cerca di cibo soprattutto nelle ore crepuscolari, facendo affidamento sul suo mimetismo e furtività per evitare di attirare l’attenzione dei predatori. Pur non risultando essenzialmente preparata, nel proprio patrimonio genetico e comportamentale, a salvaguardarsi da un nemico come l’Otospermophilus beecheyi o scoiattolo di terra californiano di fino a 300 mm di lunghezza, tanto adattabile alle circostanze da essersi messo in modo metaforico ad affilare gli artigli. Imparando, con la pratica, il sistema per balzare all’improvviso sopra l’animale dalle dimensioni più piccole. Per iniziare, come nulla fosse, a sbranarlo. Oh, visione infernale dall’impianto estetico puramente dantesco! A cosa serve la violenza in questo mondo, se non a mettere i propri bisogni al di sopra dei nostri nemici… E trasformare questo odio simile all’indifferenza, in carburante per riuscire a preservare la sopravvivenza di alcuni, a discapito di altri…

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Piramidi con vista sull’oceano, la duplice contraddizione periafricana

L’intuito e il metodo scientifico sono da sempre in agguerrita contrapposizione, nelle procedure che derivano dalla scoperta ed individuazione di un contesto per le grandi opere pregresse dell’uomo. Così trovarsi innanzi ad un massiccio monumento, infuso di sapienza ingegneristica e dotato di caratteristiche di pura ed assoluta distinzione, genera un profondo sentimento in chi è implicitamente predisposto a formularne un’interpretazione, utile a comprendere perché qualcuno abbia tracciato un simile progetto, inducendo ignote collettività a costruirlo. Il che genera in maniera inevitabile, sul presentarsi di determinate condizioni, la problematica seguente: se l’eclettismo è una fondamentale qualità di molti, può succedere che indizi e situazioni possano riuscire a trarre in inganno. Qualcosa di assoluto e inamovibile, qualora riesca a palesarsi, diviene in modo pressoché immediato una “presenza” e tale resta finché il tempo non riduce in polvere le sue possenti mura. Ma una pietra, o centinaia di esse, nascono per forza nel remoto tempo dell’inconoscibile Preistoria. È dove sono state successivamente posizionate, che tende in genere a fare la differenza!
Uno dei più atipici, ed avventurosi archeologi del Novecento è stato Thor Heyerdahl, convinto sostenitore dell’ipotesi che gli antichi popoli fossero capaci di attraversare gli oceani con imbarcazioni o tecnologie soltanto in apparenza rudimentali. A tal punto, in effetti, da rischiare la propria stessa incolumità un gran totale di tre volte nel corso degli anni ’70, affrontando l’Atlantico a bordo delle due navi egizie ricostruite in legno di papiro Ra e Ra II seguite dalla Tigris, creata con materiali simili ma in base a metodi caratteristici dell’antica Mesopotamia. Una vita tra le onde che in adiacenti peregrinazioni l’avrebbe in seguito portato ad approdare presso l’isola di Tenerife, la maggiore delle Canarie situate a largo del territorio nordafricano, ove avrebbe scorto un qualcosa destinato a rimanere indissolubilmente collegato al suo nome. Era il 1991 dunque quando, riallacciandosi al discorso precedente degli astronomi Aparicio, Belmonte ed Esteban affermò che tale complesso di edifici dovesse risalire ad epoche fantasticamente remote, che lo avevano sfruttato al fine di osservare il movimento degli astri e programmare i propri rituali collegati al raccolto. Sei piramidi rettangolari a gradoni costruite a secco sulla piana di Güímar, con pietre naturali incastrate assieme ad altre intagliate dell’altezza massima di 12 metri. Una fedele ricostruzione, in effetti, delle ben più celebri e imponenti strutture della civiltà Maya, sostenendo ulteriormente l’ipotesi già paventata da Heyerdahl, secondo cui gli Egizi avessero colonizzato precedentemente l’America Pre-Colombiana. Lasciando i chiari segni del proprio passaggio in luoghi come questi, e molti altri ancora. Da ciò sarebbe derivata, molto prevedibilmente, una fama senza precedenti per il sito, abbastanza da motivare la costruzione di un museo annesso, sostenuto ed allestito dallo stesso archeologo norvegese, concepito al fine d’illustrare le sue celebri teorie al mondo. In breve tempo, tuttavia, l’improvvisa attenzione accademica suscitata per le misteriose piramidi avrebbe portato a conseguenze inaspettate…

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Può ancora essere chiamato millepiedi, se ha le corna da cervo ed appena nove paia di zampe?

State attente, piccole creature, a frequentare il verde giardino di un tuttologo. Perché potreste ritrovarvi classificate. Recitava nel 1882 un breve componimento della rivista umoristica londinese Punch: “Come illumina le sue giornate / l’Ape Operaia dei banchieri? / Studiando nei giorni festivi / Strani insetti e fiori. Il soggetto, John Lubbock, primo barone di Avebury nonché amico personale di Charles Darwin, uno di quegli eclettici personaggi vittoriani capaci di essere al contempo politici, esperti di finanza, filosofi naturali, studiosi delle antiche civiltà e nel suo particolare caso, persino entomologi. Per i molti studi pubblicati sull’origine, le caratteristiche e l’intelligenza di quella classe cosmopolita, nonché presenze zampettanti ad esse collegate per dimensioni e stile di vita. Saettanti forme non più lunghe di un paio di millimetri, che ad egli capitò di scorgere nell’ampio giardino della propria residenza secondaria a Birmingham, stimolando pressoché istantaneamente una curiosità ben allenata. Da che aveva scritto, nel 1862: “Un animale scaltro, pulito ed attivo. Ben diverso dalla stolida stupidità dei diplopodi (millepiedi) e la malinconica ferocia dei chilopodi (centopiedi).” Terminologia non propriamente conforme al metodo scientifico dei nostri giorni, benché ci offra la possibilità di comprendere come tale praticante avìto avesse già pensato bene di classificare gli esponenti della classe Pauropoda (dal greco pauros – pochi e podus – piedi) come parte della schiera di creature segmentate diurne o notturne, il che risulta essere meno scontato di quanto si potrebbe tendere a pensare. Questo perché i nostri pallidi amici, pur tendendo ad aggiungere le proprie zampe verso il raggiungimento dell’età adulta come i loro simili fin qui citati, ad un certo punto smettono essenzialmente di farlo, continuando ad ingrandirsi con modalità di un tipo maggiormente convenzionale. Essi raggiungono il proprio picco, in altri termini, a un gran totale di 18 zampe, meno di un quinto rispetto alla quantità lasciata intendere dalla rilevante collocazione sull’albero della vita. Una soluzione evolutiva che potremmo definire del “quanto basta” soprattutto quando si considera l’eccezionale agilità mostrata da questi comuni abitatori del sostrato, mentre si muovono e percorrono sentieri noti solamente a loro, nella costante ricerca di preziose fonti di cibo mediante l’utilizzo dei chemiorecettori sulle loro distintive antenne, caratterizzate da plurime ramificazioni apparentemente disinteressate alla simmetria. Utili a individuare le piccole aperture praticate da radici o ife fungine, lungo cui costoro scendono talvolta fino all’acqua di falda non potendo scavare direttamente, a causa della morbidità del loro copro. Nascosti agli occhi di chiunque avrebbe predisposizione o la tendenza a dare un senso alla loro stolida esistenza in scala millimetrica, ma cionondimeno e per quanto possiamo immaginare, innegabilmente importante…

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Le alte croci ove riposano i quattro re di Persia, scolpite nella nuda roccia della montagna

“Un grande dio è Ahuramazda, che ha creato questa Terra, che ha creato il cielo soprastante, che ha creato l’uomo, che ha creato la felicità per l’uomo, che ha fatto Dario re, un re di molti, un signore di molti”. Così recita l’invocazione cuneiforme d’apertura in una delle più importanti iscrizioni dell’archeologia persiana, chiaramente databile al 490 a.C. Quattro anni prima della morte di uno dei sovrani più importanti che quel vasto impero abbia potuto vantare, per cui vengono citate a seguire le sue plurime conquiste militari in Assiria, Grecia, Babilonia, Egitto, Armenia… Situata innanzi alla caratteristica struttura del suo sepolcro, pochi chilometri a nord-ovest dall’antica capitale politica e religiosa di Persepoli, tale fondamentale elemento sarebbe stato l’unico, per nostra sfortuna, a non essere imitato dai suoi successori. Lasciando le tre tombe simili e adiacenti, facilmente attribuibili ad altri re Achemenidi, come di attribuzione meramente ipotizzata, sulla base di fattori contestuali non del tutto immuni alla confutazione. Una scelta stranamente anonima, per i supremi governanti di un territorio tanto vasto e potente, utile a comprendere il profondo scopo rituale, piuttosto che meramente celebrativo, attribuito al possesso e l’impiego postumo di tali imponenti strutture. Questa è Naqsh-e Rostam, il “Murale” dell’eponimo eroe mitologico, collegato in modo meramente folkloristico all’importante sito fin da tempi antecedenti all’arrivo degli studiosi; chiamata dai cristiani, lungamente affascinati dai personaggi biblici qui sepolti, il cimitero delle croci, causa la forma osservabile dell’ingresso delle quattro tombe, capaci di presentarsi come aperture verticalmente ed orizzontalmente simmetriche nella roccia monolitica che si erge in mezzo al deserto di Fars. Ciascuna dominata dall’ingresso monumentale sopraelevato, decorato con un sofisticato e identico bassorilievo concepito per assomigliare all’ingresso di un grande tempio o residenza reale. Il cui falso architrave sostiene una vasta e identica raffigurazione del re visto di profilo, intento a ricevere il sacro mandato da un’entità divina dello zoroastrismo, possibilmente Ahuramazda in persona. Sito usato in precedenza dalle popolazioni locali degli elamiti, poi sconfitti e sottomessi dai persiani, questo importante spazio sacro sarebbe stato quindi a secoli di distanza utilizzato dalla successiva dinastia Sassanide, che pur senza introdurre elementi di pari imponenza, avrebbe fatto intagliare nello spazio sottostante alle tombe figure guerresche intente a sconfiggere i nemici del regno, inclusi gli imperatori romani Valeriano, mentre viene preso in ostaggio da Shapur I nel 361 a.C. e Filippo l’Arabo che implora la pace nel 241 a.C. Un momento di gloria imperitura, per il discendenti di coloro che costituirono una potenza tanto significativa da imporre la lingua franca dell’Aramaico in tutto il Medio Oriente, venendo anche citati a tal proposito tra le immortali pagine del Vecchio Testamento…

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