Le braccia intelligenti del robot creato per agevolare la pulizia dei grattacieli

“In ogni circostanza, qualsiasi momento della nostra esistenza, si può trovare un’implicita soddisfazione nel riuscire a fare le cose alla vecchia maniera.” La vecchia maniera: prendere una o due persone, metterle sopra una passerella racchiusa da un sottile parapetto. Quindi sospendere l’oggetto a dei cavi sulla cima di uno svettante edificio, per procedere immantinente a sollevarlo fino all’altitudine di decine, centinaia di metri. Al che costoro potranno provvedere, tra venti ad oltre 60 Km/h e raffiche di nevischio destinato a liquefarsi soltanto molti piani più in basso, a pulire i vetri delle interminabili finestre, occhi spalancati verso l’infinito dedalo di strade urbane sottostanti. Uomini coraggiosi, senz’altro, grandi professionisti. Ma la domanda appare tutt’altro che lecita: possibile che non ci sia un modo più semplice per ottenere lo stesso identico risultato? Uno dei detti americani più amati e spesso ripetuti resta a tal proposito: Non lavorare di più, lavora con più Intelligenza. Il che, con l’avvicinarsi di questo primo terzo di secolo, parrebbe voler sottintendere l’imprescindibile seconda parte di quel termine… Artificiale. E così come la potenza (di calcolo) non è nulla senza controllo, qualsiasi algoritmo straordinariamente avanzato vale quanto un refolo di vento contro il passaggio di una farfalla, che anche nella propria leggiadria insignificante, agita fisicamente il vento nell’ostinato tentativo di generare uragani. Certo: è a questo che servono, in fin dei conti, i robot.
La realizzazione della lunga catena di cause ed effetti all’origine di un grande cambiamento è quella che percorre ormai da qualche tempo, dopo tutto, la Skyline Robotics di Tel Aviv, compagnia dedita all’impiego di un qualcosa d’inerentemente versatile, all’interno di un contesto che parrebbe calibrato di suo conto per permettergli di fare il meglio. O forse sarebbe meglio dire “esterno” di quel contesto, inteso come l’involucro di ferro e vetro dei grattacieli, con particolare riguardo nei confronti del secondo di quei materiali. Che costantemente tende, come ogni altra singola creazione inanimata o vivente di questa Terra, a ricoprirsi ogni giorno di un sottile strato di polvere e detriti, fino a diventare troppo opaco per assolvere allo scopo che ne aveva motivato l’installazione. Esattamente il problema, a conti fatti, che ci si prefissa di risolvere mediante l’introduzione di Ozmo, un sistema formato dalla solita e già menzionata passerella, in cui lo spazio convenzionalmente dedicato agli operatori risulti di suo conto occupato dalla macchina, che aspira con la massima potenza alla propria inalienabile raison d’être

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Le lunghe notti dei robotaxi urlanti: disanima di un imprevisto esperimento stradale

Immaginate adesso se l’intera moltitudine di un formicaio, durante le proprie operazioni diurne, cominciasse a emettere un qualche tipo di rumore. Come una sorta di ronzio insistente, un chiacchiericcio fastidioso, il ripetuto squillo roboante di un’acuta sirena… Di sicuro, questo priverebbe i giovani esponenti della specie umana di uno dei piaceri più inerenti del vivere in (parziale) natura, l’osservazione di un gruppo di minuscole entità distinte, cionondimeno perfettamente in grado di lavorare assieme ad uno scopo comunitario. Trovarsi molto in alto ha d’altra parte i suoi vantaggi, e può permettere a una vasta varietà di esseri o creature di essere stravolte nelle proporzioni. Trasformando in imenotteri, persino veicoli dotati di un volante, quattro ruote ed una sorta di “antenna” sul tettuccio non più apribile che tende a caratterizzarle. Trattandosi nel caso specifico, di vetture elettrice Jaguar I-Pace, dal tipico colore bianco diventato un quasi sinonimo, a San Francisco, dell’ex-costola di Google, Waymo, probabilmente l’entità aziendale che ha fatto di più negli ultimi 15 anni per far affermare la guida autonoma in una grande città dell’emisfero occidentale. Sebbene nulla di simile fosse mai successo, prima della fine dello scorso luglio in questo parcheggio della zona residenziale SoMa (South of Market) ove gli abitanti dei palazzi limitrofi hanno cominciato a svegliarsi ripetutamente nelle ore più buie della notte. Al riecheggiare, massiccio ed insistente, del tipico verso veicolare. Un vero e proprio concerto di clacson, è ciò di cui stiamo parlando, qualcosa che in circostanze per così dire umane difficilmente avrebbe avuto la ragione di generarsi. Soprattutto nella consapevolezza dei propri simili che in tranquillo stato d’incoscienza, si preparavano ad un’altra lunga giornata d’impegni entro i confini della Parigi dell’Ovest statunitense. E poi, perché mai emettere un tale baccano, durante le operazioni relativamente semplici di una manovra di parcheggio? E perché poi farlo sempre ed esclusivamente quando la Luna è situata in alto nel cielo, quasi a incrementare l’effetto straniante desiderato nei confronti delle vittime situazionali delle circostanze… La realtà, come spesso capita in ambito informatico e dell’intelligenza artificiale, è da ricercarsi nella programmazione. Quel vasto libro di criteri che governa, in ogni varietà di circostanze, l’effettivo comportamento di un qualsiasi essere artificiale…

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Lo scavo e la salvezza: quando caddero le mura della Bingham Canyon Mine

Una grande storia americana, umana e naturale al tempo stesso. Una vicenda di ambizione e rischio non del tutto controllabile dalla collettività convolta. In tal senso, profondamente e indubitabilmente Terrestre, nella maniera in cui un pianeta geologicamente inerte non avrebbe mai potuto aspirare di diventare. Circa 30-40 milioni di anni fa, nel sottosuolo dello Utah un significativo accumulo di roccia fusa cominciò ad essere spinto verso l’alto dalla pressione magmatica al di sotto della crosta terrestre. Si trattava, principalmente, di porfido ma pesantemente connotato da diverse tipologie di metalli, tra cui ferro magnetizzato, molibdeno e l’elemento grezzo, soltanto parzialmente utile, che costituisce la forma non ancora lavorata del rame. Un corposo fenomeno, capace di svolgersi a notevole distanza cronologica dagli occhi scrutatori dell’uomo. Il quale non avrebbe avuto metodi o ragioni d’interessarsene, fino a quando Sanford e Thomas Bingham, rampolli di un’importante famiglia dedita al mormonismo, non si trovarono nel 1847 a farvi pascolare le proprie mandrie bovine. Tanto spesso da costruire una capanna all’imboccatura del canyon, per poi scoprire due importanti risorse al suo interno: la prima era il legname, importantissimo per la costruzione dei nuovi insediamenti nella regione dell’odierna Salt Lake City. E la seconda, una certa quantità di minerali di valore, che ben presto decisero di portare al capo della comunità, Brigham Young, nel tentativo di ottenere manodopera per l’implementazione di una filiera produttiva su larga scala. Ma il leader religioso, temendo che le attività di scavo attirassero le moltitudini dissolute e spregiudicate sul modello della corsa all’oro californiana, rifiutò tale permesso, decretando che un enorme potenziale rimanesse, ancora per qualche tempo, sopito. Le cose cambiarono nel 1863 quando un gruppo di soldati provenienti da Fort Douglas inviati ad ispezionare la segheria decisero di propria iniziativa di dar luogo a limitate opere di prospezione. Riscoprendo, non senza sorpresa ed immediato aumento vertiginoso delle proprie aspirazioni di ricchezza, la nascosta verità sopita. Le pietre raccolte vennero perciò inviate al generale Patrick Connor, che dopo averne constatato il valore decretò l’immediata implementazione di un distretto minerario subito fuori il canyon che aveva nel frattempo preso il cognome dei suoi scopritori. La crescita delle operazioni fu progressiva e costante, benché all’inizio la carenza d’infrastrutture logistiche rendesse particolarmente difficile il trasporto del materiale estratto dalle profondità del mondo. Nel 1878, con l’arrivo della ferrovia, le cose migliorarono drasticamente. Entro gli anni Venti del Novecento, il canyon cominciò ad essere soprannominato dalla gente dello Utah “La Lega delle Nazioni” per la straordinaria quantità d’immigrati che lavoravano al suo interno, in gruppi etnici non necessariamente inclini a mescolarsi tra loro. Da una parte gli Italiani, altrove i Francesi, i Giapponesi, i gioviali rappresentanti della verde Irlanda. Ma tutti avevano in comune la stessa paga ribassata, raramente superiore alla metà di quella attribuita ad un anglofono statunitense di multiple generazioni pregresse. Paradossalmente fu proprio il successo delle loro imprese, col proseguire degli anni, che avrebbe portato al disfacimento dell’eterogenea comunità di residenti: mentre la buca creata dall’uomo continuava a crescere in maniera esponenziale, ad un certo punto le loro baracche vennero inglobate ed in seguito demolite al fine di continuare le operazioni. Quindi, la miniera continuò a svilupparsi verticalmente in cerca di materiali sempre più in profondità, di maggior valore…

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Quei mattoni dell’industria dei colori dentro il tempio laico costruito a Francoforte sul Meno

Oltre la necessità di presentarsi al pubblico, scevre di un’immagine aziendale persistente. Immuni alle conseguenze di una cattiva reputazione, tranne che per brevi periodi ed in casi eclatanti collegati ad eventuali decessi imprevisti. È interessante notare, nonché lievemente preoccupante, come l’approssimazione più calzante nell’odierna globalizzazione alle incombenti mega-corporation dell’iconografia cyberpunk/anarco-capitalista possa essere individuata nelle compagnie farmaceutiche. Molte delle quali sorte, negli anni di transizione verso l’epoca contemporanea, da realtà aziendali altamente specifiche, spesso operative nel campo della chimica ad ampio spettro o produzione industriale di antecedente natura. Un’entità riconducibile a tale visione indubbiamente pessimistica del mondo, fondata nel 1863 come fabbrica di vernici a base di catrame, potrebbe la Hoechst AG di Francoforte, capace di estendere i propri tentacoli (nell’accezione maggiormente neutra del termine) in molteplici settori fino al 1999, quando esigenze di natura finanziaria ed amministrativa la portarono a scomparire in una fusione asimmetrica con il gruppo francese Rhône-Poulenc SA. Che ci sia d’altronde stata un’epoca in cui la comunicazione sia stata importante per questo marchio, può essere facilmente desunto da una visita nel celebre parco industriale di Höchst, l’antico punto di scambio commerciale successivamente destinato ad essere incorporato nelle periferie della città più popolosa dello stato di Hesse-Nassau, la capitale mancata di Frankfurt am Main. Cionondimeno importantissima nel quadro generale della produttività tedesca, ed in funzione di ciò ospitante innumerevoli sedi aziendali, uffici amministrativi ed altre sedi a supporto delle operazioni commerciali di molti. Nessuna, tuttavia, più distintiva e significativa del cosiddetto edificio Peter Behrens o “di amministrazione tecnica” o ancora e più semplicemente, dal numero di serie C 770. Quasi come se nella necessità di abbreviarne il chilometri appellativo in lingua agglutinante, non fosse stato trovato alcun termine capace di sostituire il nome dell’architetto, una delle figure più importanti della scena tedesca nel periodo antecedente ed in mezzo alle due guerre mondiali. Egli che, avendo già attraversato una miriade di stili contrastanti, si era affermato negli anni ’20 come uno dei pionieri dell’espressionismo del mattone, fatto di soluzioni pratiche fondate sull’impiego di tale tipologia di materiale dall’alto grado di versatilità. Assieme a mattonelle e blocchi di klinker, come quelli di colorazione uniforme utilizzati per la torre e l’arco scenografico connesso all’antistante D 706, di quello che potrebbe anche essere all’apparenza la torre campanaria di una chiesa modernista o il bastione di un bizzarro castello. Almeno finché l’ipotetico visitatore non si troverà, improvvisamente, a varcarne la svettante soglia…

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