Tutti a tavola col mostro alieno del mare di Ariake

Molti sono i metodi per progettare o disegnare un mostro e tra quelli maggiormente utilizzati, senza dubbio, figura a pieno titolo l’archetipo della chimera; ovvero prendere qualcosa, per così dire, di familiare, quindi mescolarlo ad altro, al fine di creare un qualche tipo di tutt’uno “indivisibile”. Ed assai improbabile, come finale conseguenza dei processi naturali dell’evoluzione. Approccio simile al modello impiegato nel 1979 dall’artista grafico e scultore svizzero H.R. Giger, originariamente contattato per la creazione della creatura titolare del film di Ridley Scott, Alien. Essere famelico capace d’incorporare in se stesso elementi propri dei rettili, degli uccelli e degli insetti, oltre a quello che almeno personalmente, avevo sempre ritenuto essere un prodotto della sua sfrenata fantasia: la lingua prensile che scaturisce dalla bocca, per così dire, principale, a sua volta dotata di una fila di denti acuminati capaci di ghermire, dilaniare, fagocitare la preda potenzialmente umana; ma c’è una particolare fascia di popolazione, appartenente alla specifica zona di un paese lontano, per cui quel singolo elemento deve aver costituito un’evidente versione fantastica di una cruda e riconoscibile realtà dei fatti. Oltre ad evocare, potenzialmente, un certo languorino… Sto parlando, tanto per venire finalmente al punto, delle quattro prefetture giapponesi di Fukuoka, Saga, Nagasaki e Kumamoto, ciascuna in grado di affacciarsi nella vasta insenatura interna della maggior isola del paese nota come mare di Ariaki. Famosa per le vaste zone pianeggianti e fangose regolarmente scoperte dalla bassa marea ed in modo ancor più specifico, per un particolare abitante di tali recessi paesaggistici, il cui nome comune risulta essere quello di warasubo. Ma che gli scienziati tra noi potrebbero conoscere, piuttosto, come Odontamblyopus lacepedii, dal termine greco che significa “denti” e il nome di Bernard-Germain comte de Lacépède, celebre naturalista francese del XVIII secolo, primo illustratore di questa importante specie dalla lunghezza media di 30-40 cm. Membra piuttosto rappresentativa, nei fatti, della famiglia di pesci gobidi degli Oxudercidae, spesso chiamati per antonomasia “saltafango” o mudskipper, per la loro capacità di sopravvivere anche svariate ore fuori dall’acqua, incorporando ossigeno nel proprio organismo grazie al metodo della traspirazione cutanea, localizzata nella zona della loro laringe che resta bagnata molto più a lungo di quanto si potrebbe tendere a pensare. E soprattutto notevole, per quanto ci riguarda, nella maniera in cui i loro occhietti piccoli e poco utilizzati tendono a scomparire tra le pieghe della pelle priva di scaglie, completando il quadro di un’essere dall’aspetto nel suo complesso decisamente insolito, per non dire a tutti gli effetti xenomorfo. Il quale prevedibilmente non ha certo assunto l’effetto di deterrente gastronomico (raramente avviene in Oriente) permettendo dunque la sistematica cattura di tali esseri al fine d’essere cotti o affumicati, come ingrediente principale di una vasta serie di pietanze particolarmente apprezzate nella serie di prefetture succitate, giungendo nei fatti a costituire un vero e proprio punto d’orgoglio, ed emblema rappresentativo, di questa specifica zona del Giappone. In particolare sembra, a quanto riportato dagli esploratori di tali ambienti di ristoro, che il gusto umami (“caratteristico dei cibi ricchi di proteine”) dell’inguardabile strisciante costituisca il coronamento ideale di piatti a base di riso o ramen, per condire i quali viene incorporato a pezzi oppure, assai comprensibilmente, trasformato in polvere dall’aspetto riconoscibile allo sguardo del cliente. Ciò detto e nonostante tutto, l’ente per il turismo della città di Saga ha recentemente varato una campagna pubblicitaria che punta proprio sull’aspetto insolito della creatura, capace di giocare su quello stesso gusto dell’orrido che, oltre 30 anni fa, garantì un successo smodato al più orrorifico film spaziale nella storia del grande schermo…

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L’appetitosa invasione californiana del verme pene

Tra le tenebre di una notte eterna, in un enorme edificio ai limiti dello spazio e del tempo, è possibile trovare l’enorme dedalo di stanze note come back rooms. Ripetitive quanto un modulo geometrico, e illuminate dal bagliore freddo di lampade al neon prossime allo spegnimento, dove tutto ha un tiepido color giallo crema mentre la moquette del pavimento odora leggermente di bagnato. Così verso la parte finale di questa leggenda dell’epoca digitale, secondo cui sarebbe possibile risvegliarsi in tale luogo e perdersi al suo interno per anni, persino la vita intera, al culmine del proprio romitaggio disperato potrà capitare d’imbattersi nella cucina: priva di finestre e con un tavolo posizionato al centro. In piedi dietro al tavolo, dice qualcuno, aspetta un cuoco dall’alto cappello. E innanzi ad egli, una ciotola con QUALCHE cosa dentro. Rosa, dalla forma simile a un cetriolo ricurvo ma dotato di una testa bulbosa, che si agita ed emette un richiamo psichico sulla falsariga di “Aiuto, aiutatemi, 도움말 나!” E forse sarà il suo singolo “occhio” che è in realtà la bocca da cui fuoriesce muco appiccicoso, oppur magari il modo in cui la pelle si contrae in maniera ritmica tutto attorno a un simile orifizio… Ma l’oggetto o animale in questione potrebbe anche ricordarvi da vicino una specifica parte di voi. Non avrete tuttavia il tempo necessario a interrogarvi, poiché la figura misteriosa, proprio in quel momento, appoggerà un coltello sopra tale povera creatura. E con un sol preciso gesto, scatenerà l’Inferno…
Avevo in effetti pensato d’iniziare questo articolo con la mera ed oggettiva descrizione della notizia, biologicamente e da un punto di vista prettamente naturalistico, senz’altro rilevante: presso la celebre spiaggia di Drakes, situata poco a nord di San Francisco, una mareggiata particolarmente potente si è ritirata lasciando nella sabbia un’incredibile sorpresa: probabilmente il più notevole assembramento del notevole animale noto scientificamente come Urechis caupo o anche “verme a cucchiaio” benché tutti sembrino estremamente convinti che l’unico appellativo possibile debba, necessariamente, essere quello di penis fish. E qui occorrerà specificare con urgenza come, benché la prima parte dell’appellativo risulti essere senz’altro appropriata dato l’evidente aspetto, il potere descrittivo del senso comune abbia finito per fallire in merito alla prima, visto come non ci sia assolutamente nulla, nell’essenza di questo notevole rappresentante della subclasse Echiura, in grado di ricordare direttamente i convenzionali pinnuti esseri del profondo. Eppure, eppure; quando ti capita di osservare coi tuoi occhi l’effettivo processo di preparazione di una simile pietanza gastronomica, particolarmente apprezzata in Corea, Giappone ed alcuni paesi dell’Asia Meridionale, risulta davvero difficile soprassedere sull’effetto scenografico, o se vogliamo addirittura splatter di una simile faccenda, al punto che non sembri in alcun modo fuori posto come climax di un vero e proprio incubo o film dell’orrore. Poiché tali vermi, in realtà parenti (molto) lontani del comune lombrico di terra, possiedono in effetti un’anatomia sorprendentemente complessa con l’intestino sostanzialmente più lungo immaginabile all’interno di una creatura lunga in media 40-50 cm (esistono anche Echiura più lunghi) che una volta portato, per così dire, all’esterno, esplode come un letterale palloncino circondato da un… Fluido, che immagino sia sangue misto ai liquidi biliari del verme. E non è molto facile, essendo cresciuti all’altro capo del mondo, immaginare come la diretta risultanza di un tale processo possa fungere da antefatto a un lauto pasto, benché la versione agli antipodi di questo essere cosmopolita, il lievemente più corto Urechis unicinctus, venga spesso servita cruda con il solo accompagnamento della salsa di soya e il chili piccante. Ma sebbene il detto reciti che “anche l’occhio vuole la sua parte” nessuno ha mai specificato che non potesse, effettivamente, trattarsi dell’occhio della mente…

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La iena bruna, latrante nemesi dei cuccioli di foca

Oh, Grande Spirito di tutte le belve, concedimi l’abilità di abbattere il possente erbivoro. La scaltrezza di aggirarlo e tendergli una trappola. La resistenza per corrergli dietro attraverso le ondeggianti distese della savana. OPPURE, molto semplicemente, la faccia tosta e forza bruta necessaria al fine d’intromettersi tra cacciatori molto più efficienti e il loro lauto pasto, perché il furto si trasformi in un pilastro stesso della mia esistenza. Anche a discapito dell’opinione che il mondo potrà riservare alla mia prole: iena, mangiatrice di carcasse o essere rissoso che destabilizza i già difficili rapporti tra felini e cani. E se vi dicessi che nel più profondo meridione, ne persiste ad oggi una particolare specie che risulta essere, in effetti, persino peggiore? Questa è la tetra leggenda dello strandwolf, fuori dal Sudafrica chiamato “lupo della costa” o in termini latini H. brunnea, unico rappresentante, come le altre tre specie appartenenti alla sua stessa famiglia, di un genere tassonomico soltanto suo: Parahyena. E per questo praticante di un sistema di sopravvivenza estremamente distintivo, in funzione del difficile habitat occupato, sin da tempo immemore, dalla sua famelica genìa: niente meno che la rinomata Costa degli Scheletri, sul lato atlantico della Namibia settentrionale, luogo in cui il principale punto di riferimento risultavano essere un tempo i rimasugli dei cetacei catturati e poi scarnificati dagli umani cacciatori di balene. E in cui ben poca vita sulla terraferma riesce a prosperare, fatta eccezione per minuscoli mammiferi o speciali insetti il cui metabolismo si è adattato, nei secoli e millenni, a una carenza d’acqua e umidità capace di durare multiple stagioni. E da cosa potrebbe mai trarre nutrimento, dunque, un predatore con la folta criniera marrone e dal peso di fino a 60-70 Kg e 144 cm di lunghezza, bastanti a renderlo la seconda iena per dimensioni dopo la Crocuta crocuta dal manto a macchie e l’iconica risata sghignazzante? Ovvio: creature che provengono da un altro mondo. Nonché esseri, in un certo senso, simili a lei: le otarie orsine del Capo (Arctocephalus pusillus) che in funzione della propria ecologia, sono propense a radunarsi in gigantesche colonie di fino a 1.500 esemplari, essendo programmate per fare ritorno, svariate volte l’anno, presso il luogo stesso della propria nascita, per procreare. Segue dunque un difficoltoso e vulnerabile periodo, durante il quale fin troppo spesso, una sensibile percentuale di cuccioli muore inevitabilmente di stenti, per il clima inclemente e la continuativa carenza di cibo: un letterale banchetto potenziale, per divoratori opportunisti che dovessero “accidentalmente” transitare di lì. Ma le iene, si sa, non eccellono certo per la loro pazienza, ragion pere cui può capitare, spesse volte, che un rappresentante di quel popolo decida di aver atteso abbastanza. Intervenendo, per così dire, al fine di accelerare la pinnipede dipartita delle giovani speranze di quel mondo, ahimé, soltanto in parte marino. Segue, a questo punto, scena prelevata in modo pressoché diretto dal più orribile e terrificante splatter movie

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Gioite! Da oggi c’è un uovo gigante all’estuario del Reno

Ogni nazione, ogni regione ha i suoi monumenti: artificiali, frutto dell’ingegno e l’opera transitoria dell’uomo, oppur naturali, prodotti dall’incessante potere scultoreo degli elementi. Ma cosa fare quando il più importante simbolo di un luogo, per sua implicita predisposizione, torna soltanto una volta a stagione ed è sempre pronto a volarsene via? Per il suono improvviso, per il lampo di un flash lasciato distrattamente attivo, per il rombo di un motore distante o anche soltanto a causa di un movimento eccessivamente brusco di un qualche incolpevole turista. Grote stern, questo è il tuo nome, assegnato direttamente dalle genti che vivono in prossimità dell’Haringvliet olandese, da sempre strategico punto d’incontro tra i fiumi Reno, Mosa, Schelda e il gelido Mare del Nord. Ma in Italia ti chiamano beccapesci o più scientificamente Thalasseus sandvicensis da Sandwich, il nome della località britannica, situata nella regione del Kent, da cui proveniva il conte inventore dell’eponimo panino. All’altro capo estremo del vasto areale riproduttivo dove, occasionalmente, capita di scorgere il nido col grande uovo, candido e curvilineo, evidente segno in anticipo della prossima generazione di questo attraente uccello col becco aguzzo e una riconoscibile livrea bianca e nera. Ciò che ragionevolmente non ci saremmo aspettati, tuttavia, è di vedere un altro oggetto grossomodo simile, ma svettante oltre 15 metri e con superficie interna di 120 mq, comodamente adagiato sulle sabbiose rive di un tale luogo ma costruito con legno e paglia, letteralmente incoronato da quello che potrebbe sembrare, a tutti gli effetti, un nido costruito da aviari colleghi del succitato visitatore. Grazie all’opera del celebre architetto ecologista Thomas Rau, grande promotore del concetto di economia circolare, e le congrue risorse finanziarie stanziate dal governo per il progetto di rivalutazione del territorio Dream Fund. Con un obiettivo, alquanto prevedibilmente, in grado di andare ben oltre la semplice decorazione del paesaggio. Poiché basta avvicinarsi dalla direzione dell’unico sentiero capace di condurci fin quassù, all’apice dell’Europa continentale, per ritrovarsi circondati dalle pareti di un tunnel seminterrato simile a una trincea nascosta, concepito per raggiungere la parte inferiore della struttura. All’ingresso dentro la quale, improvvisamente, essa dimostra immediatamente la sua struttura eclettica dall’alto grado di spettacolarità, con un sovrapposto incrocio di assi in legno di pino, ricoperte secondo l’antica metodologia dei costruttori dei caratteristici tetti di paglia olandesi, sovrastata da un oculo (foro verticale) da cui filtra la luce attraverso l’appariscente “nido” superiore, circondato da un alto camminamento circolare racchiuso dalle curvilinee pareti, oltre il quale scrutare grazie alla presenza di un’angusta nonché funzionale feritoia. Verso… Le acquose distese infinite… Le isole artificiali costruite ad uopo… E le affascinanti case di quei magnifici pennuti, in direzione dei quali sarebbe stato parecchio difficile, normalmente, avvicinarsi fino a un tal punto. Davvero un fantastico modo, per approcciarsi al concetto contemporaneo del tipico reality show…

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