Perché molta gente visita il Crater Lake? Non per le sue pareti scoscese, strumenti d’innumerevoli prove di coraggio tra i giovani cacciatori e guerrieri in cerca di una gloria prematura. Né per l’isola conica al centro, sormontata dalla depressione nota come il calderone della strega, da dove si dice che antichi spiriti facciano strane smorfie all’indirizzo dei marinai. Né per la “nave fantasma”, uno sperone roccioso fantastico e frastagliato a meridione, che risuona dell’eco carsico di un mondo in continua trasformazione. Ma per l’altro tipo di barca, perennemente in viaggio, tra le sponde e le rive citate, con il suo carico di qualche migliaio di forma di vita del tutto indipendente dall’uomo. Sopratutto formiche, con qualche ragno e il muschio antipiretico Fontinalis, saldamente radicato sopra e sotto il livello delle acque movimentate dal vento senza limiti di stagione.
C’è un ricordo piuttosto vago ma intenso, nella mia memoria, di me bambino che guardo un documentario sulle ultime genti isolate dell’Amazzonia, pensando: questi uomini e donne non hanno letti con il cuscino, aria condizionata, televisione, automobili, computer o videogiochi. Non possiedono libri, quadri, né alcuno spartito musicale. La loro vicenda umana è più difficile della mia, la loro cultura, meno sofisticata. Quale potrebbe mai essere, dunque, il valore di un simile stile di vita? Certi concetti richiedono un approfondimento e una mentalità adulta, per essere finalmente compresi. Nessuno t’insegna, a scuola, che persino lo studio dei testi in greco e latino non è che una mera approssimazione della memoria tramandata oralmente di padre in figlio, chiara memoria di eventi avvenuti 7 o 8 millenni fa. Oggi fatichiamo a contestualizzare battaglie avvenute nel nostro Medioevo. Mentre ci sono leggende dell’era Neolitica, raccontate esattamente come all’epoca della loro creazione, la cui connessione a fatti realmente avvenuti è facilmente verificale persino dal punto di vista limitato dei nostri giorni. Come quella, tradizionalmente narrata presso la tribù Klamath dell’Oregon meridionale, relativa alla creazione di Crater Lake. A quel tempo viveva una principessa degli umani e c’erano, inevitabilmente, due possenti divinità in conflitto: Llao, signore del sottosuolo, e Skell, suprema personificazione dei cieli. Un giorno apparentemente come gli altri, la donna si svegliò, e salita in cima al monte Mazama, un vulcano attivo, rivolse la sua voce nel vasto baratro ricolmo di lava fusa: “Oh, Dio più potente di tutti gli Dei. Ogni stagione delle piogge, Colui che Risiede Sopra scarica le sue acque sulle tue fiamme purificatrici. Perché accetti un simile sopruso? Perché non gli mostri tutta la tua furia, scagliando in alto le incandescenti prove della tua sacra Esistenza?” E il allora mostro sopìto, per qualche malcapitata ragione, scelse di accogliere la sua richiesta, dimostrando quale fosse davvero la possenza del grande Lllao. La montagna fu scossa dalle sue fondamenta, mentre una gigantesca nube di cenere ricopriva i villaggi vicini. Lapilli incandescenti presero a disegnare strisce vermiglie nel cielo, mentre un possente sommovimento tellurico, poco alla volta, disgregava letteralmente le infinite tonnellate di roccia, facendole franare da ogni lato. Del destino della donna che, per una leggerezza o l’odio nei confronti dell’umanità aveva causato tutto questo, in realtà perdiamo le tracce di lì a poco. Mentre per quanto concerne la montagna, possiamo affermare con certezza che essa venne letteralmente spezzata, divisa in più parti che a loro volta sono franate, all’interno della vasta camera magmatica sottostante. Della pietra vetrosa che resta in superficie dopo un simile episodio vulcanico, dunque, sappiamo due cose: che essa costituisce paesaggi cupi dall’aspetto gloriosamente alieno. E che se formatasi nelle giuste condizioni, costituisce un suolo del tutto non permeabile, perfetto per la creazione spontanea di fiumi o laghi. E il clima umido della catena montuosa del Cascade Range, dovuto ai gelidi venti provenienti dall’Oceano Pacifico, creava condizioni assolutamente perfette. Così di lì ad un paio di stagioni, non soltanto Skell ebbe il dominio assoluto, ma fece il necessario affinché nel palazzo in rovina del suo rivale nascesse un lago di tipo anoreico, ovvero del tutto privo di alcun affluente, ma ricolmo unicamente delle piogge senza una fine. Il quale oggi costituisce, con i suoi -350 metri e i 9 Km di ampiezza, il più profondo dell’intera nazione statunitense, ed il primo al mondo tra quelli il cui bacino si trovi completamente al di sopra del livello del mare.
Delle antiche battaglie tra il cielo e la terra, quindi, ormai ben poco rimane. Tranne i componimenti orali in lingue mai tutt’ora parlate correntemente ed alcuni segni immanenti disposti ad arte sotto gli occhi dell’intera umanità. E non credo che in molti potrebbero dubitare, che il Vecchio del Lago sia uno di questi, nonché il nesso fondamentale di una delle sette meraviglie naturali dell’Oregon, spesso elencate nelle guide turistiche e nei materiali di marketing messi assieme per far conoscere questo affascinante stato. Soltanto nessuno, tra gli sciamani superstiti dell’antica sapienza, può ben dire di conoscere le radici smarrite del suo mistero.
geografia
Il lavandino d’oro in cui spariscono gli uragani
Pareva il risvolto inevitabile di un triste destino. La città stato di Medium York, sui suoi cingoli giganteschi, pareva essere giunta al capolinea. Non tanto nel senso del movimento: il poderoso motore a vapore capace di farla muovere senza ombra di dubbio né colpo ferire, costruito da 4 secoli nella camera centrale del Nucleo Sotterraneo, l’avrebbe condotta facilmente ben oltre l’istmo angusto del Centro America, oltre i massicci montuosi della Colombia e nelle vaste praterie brasiliane, verso la terra promessa di un’Amazzonia distante. Ma il fronte della sua Nemesi meteorologica, prima che ciò potesse avvenire, l’avrebbe inesorabilmente raggiunta. Il Sindaco scrutò attentamente, ancora una volta, la parete quasi solida di nubi all’orizzonte. La faccia di un cubo, tutt’altro che naturale, percorso da una ragnatela di fulmini furibondi. “Bella eredità ci hanno lasciato, prima di distruggersi tutti quanti a vicenda!” Esclamò il Sindaco all’indirizzo della Pizia, sacerdotessa appartenente all’Ordine, un’anziana donna proveniente da San Francisco de Quito, che si diceva avesse visto di persona le ultime fasi della guerra. Impossibile, pensò nuovamente il suo esimio interlocutore: questa donna dovrebbe avere almeno 576 anni. Con la sciarpa candida annodata sul collo, il lungo poncho marrone, il caratteristico cappello simile a una bombetta ben calcato sulla fronte, per resistere alle raffiche di vento, la personalità religiosa scrutava pensierosamente oltre lo schermo di contenimento, dal margine più estremo del tetto del municipio. Uno strano sorriso iniziò ad apparirgli sul volto: “Mmmh, no. Perché dovremmo rimuginare? Questo è il momento di agire. Premere pulsanti, tirare le leve. L’oceano non è lontano, riesco a sentirne… L’odore” Sul quadro di comando costruito all’interno della cabina, come ad un segnale preparato da tempo, si accese quindi la dicitura sperata: “DEVIAZIONE”. Nella programmazione del Nucleo, gli antichi avevano previsto una simile possibilità. Riconvertire la città in arca, per imbarcarsi ed accelerare. In assenza di terreno solido da cui estrarre il carbone, la città avrebbe proceduto ad un ritmo accelerato per circa 1.500 Km. Quindi, inevitabilmente, si sarebbe fermata per un periodo di almeno 10 giorni. In molti l’avrebbero definito un folle azzardo. Ma non restava, ormai, una singola alternativa che potesse aprire la via della sopravvivenza…
Tutto aveva avuto inizio, in effetti, in una tranquilla giornata d’agosto, sotto il sole battente dell’Ecuador. La sacerdotessa frequentava, all’epoca, la seconda classe di liceo, in un paese in cui vigeva ancora la regola del “vivi e lascia vivere”. Ancora ben lontana dalla mente delle persone era, in altri termini, l’ipotesi di una terza guerra mondiale, condotta grazie ai meccanismi orbitali di controllo del clima. Da giovane rappresentante di classe della Escuela Tecnologica Central, Mayra Delgado era stata chiamata ad interloquire direttamente con la guida turistica, durante la visita alla Linea di Demarcazione degli Emisferi, il punto in cui, secondo la scienza geografica, la terra si divideva in due: “…Perciò vedi, ragazza mia: questo è il punto. Se scarico l’acqua senza spostare il mio lavandino, le foglie scenderanno giù diritte, senza roteare in alcuno dei due sensi.” Mayra aprì la bocca, come per parlare, poi ci ripensò. Avrebbe lasciato che la donna si tradisse con le sue stesse azioni. Un mormorìo d’assenso si sollevò dalla classe, quando l’operazione si svolse, seguendo il copione, esattamente nella maniera anticipata dalla guida. “Ora spostiamoci a Nord. Basteranno un paio di metri.” Il lavandino in questione, con una bacinella sottostante per il recupero dell’acqua, era un oggetto chiaramente creato per affascinare i turisti, ricoperto di una pacchiana verniciatura dorata. Con chiaro intento dimostrativo, la guida recuperò il contenitore del liquido, quindi lo versò rapidamente nel lavandino. Di nuovo, con flemma e una gestualità carica di pathos, rimosse il tappo centrale. L’acqua iniziò a fuoriuscire dal basso, ruotando però stavolta, come evidenziato dalle foglioline gettate nel flusso, in senso rigorosamente anti-orario. Pochi minuti dopo, l’esperimento condotto a Sud della linea avrebbe prodotto l’effetto inverso. “Oh, oh, oh, mia giovane studentessa. A questo punto, potresti mai dubitarne? I Simpson avevano ragione.” Ah, se soltanto ci fossero altre persone col dono del Grande Spirito, di vivere ed assistere l’umanità fino al verificarsi della Quarta Rinascita, pensò la Pizia ormai pluri-secolare. Allora potrei parlare tra pari, dei vecchi uomini gialli, grande classico della Tv di allora! In quel mentre il Sindaco assorto, con espressione preoccupata ma ferma, abbassava il pugno sul Grande Bottone Rosso Fuoco (Che Funzionava Davvero). Un’impressionante scossone, in quel preciso momento, percorse tutti i palazzi e le strade di Medium York…
L’alveare umano sospeso tra il Kenya e l’Uganda
Ogni economia basata su una singola risorsa è destinata a raggiungere, prima o poi, un punto di rottura. Questo tende a verificarsi la maggior parte delle volte quando tale particolare via d’accesso alla sopravvivenza economica, per una ragione o per l’altra, sembra essere prossima all’esaurimento. Ma c’è un’altro modo in cui la condizione degli umani coinvolti può iniziare la ricerca di un margine di miglioramento: una diffusa condizione di povertà. Quando persino arrivare alla fine del mese, senza patire la fame, appare più difficile che intraprendere una folle avventura, cercando di modificare lo status quo. Secondo una delle versioni della storia, i primi ad agire in tale senso da queste parti furono Dalmas Tembo e George Kibebe, pescatori kenyoti che, stanchi di essere trattati come dei mendicanti dai compratori di pesce sulle coste orientali del lago Victoria, scelsero di trasferirsi con armi, canna da pesca e bagagli, in uno dei più inaspettati, e solitari dei luoghi: l’isolotto roccioso di Migingo, vasto all’incirca 2 Km quadrati e situato in mezzo ad acque dall’appartenenza territoriale incerta.
Fermiamoci per un attimo a considerare questo punto, assolutamente fondamentale per l’analisi dei fatti: è noto che i confini odierni delle diverse nazioni d’Africa, perfettamente perpendicolari l’uno all’altro, furono stabiliti a tavolino dai potentati europei, durante la conferenza di Berlino del 1884, l’evento di politica nazionale che diede i natali tra gli altri, per mano del re Leopoldo II del Belgio, al terribile covo d’iniquità noto come stato “libero” del Congo. Ora coloro che realizzarono una simile suddivisione, piuttosto che essere esperti geografi o studiosi delle faccende antropologiche, erano principalmente capi di stato, diplomatici o sovrani, ai quali interessava soltanto l’equa distribuzione degli spazi per le ambizioni coloniali di questo o quell’altro impero. Molte delle linee di demarcazione, dunque, furono fatte passare attraverso barriere invalicabili del territorio, come catene montuose, o tagliarono il corso dei fiumi noncuranti del loro tracciato serpeggiante. Ed una, in particolare, scelse la via più insensata: poggiare in maniera noncurante sopra le acque del più grande lago tropicale del mondo, rinominato nel 1858 sulla base di niente meno che la regina Victoria, dopo che John Hanning Speke l’aveva “scoperto” durante la sua ardua missione alla ricerca delle leggendarie foci del fiume Nilo. Con il risultato che almeno tre piccole terre emerse, in una simile distesa d’acqua paragonabile per estensione ai Grandi Laghi americani, si trovarono esattamente in bilico sul filo di un così tagliente rasoio. Esse erano, e sono tutt’ora, Migingo, Usingo ed Ugingo, quest’ultima anche nota come “Isola Piramide” a causa della natura scoscesa del suo territorio. Per molti, moltissimi anni, non importò praticamente a nessuno. Finché a partire dal 1991, tutti coloro che erano scontenti delle loro condizioni di vita sulla terraferma, non iniziarono a guardare con interesse a quei due pionieri, che avendo scelto di lasciarsi dietro amici e parenti, erano andati a vivere come eremiti nel mezzo delle acque lacustri internazionali. Così che dopo qualche tempo, attorno alla capanna in lamiera corrugata che si erano costruiti costoro, iniziò a nascere una piccola comunità. I vantaggi per chi viveva su Migingo erano chiari ed immediati: zero spese per l’alloggio, meno controllo da parte delle autorità, più distanza tra se e gli elementi poco raccomandabili della società. Secondo un’altra interpretazione di questa insolita vicenda, del resto, l’isola non iniziò ad essere popolata fino al 2004, quando Joseph Nsubuga, pescatore proveniente dall’Uganda, si stabilì quaggiù, trovando nient’altro che una singola casa abbandonata, oggi trasformata nel principale bar della comunità. Capire chi ha o meno ragione nella specifica debacle storico-coloniale, tuttavia, potrebbe o meno avere rilevanza per la questione, quando una moderna squadra di rilevamenti territoriali, presumibilmente super partes, ha determinato come Miginge si trovi effettivamente ad Est del confine kenyota, risultando quindi una parte inscindibile di questo specifico paese africano. Ecco perché l’importanza di determinarlo, nonostante le apparenze, si è fatta negli anni sempre più pressante: fra tutte le zone in cui è possibile pescare il prezioso pesce persico del Nilo (Lates niloticus) pare che nessuna sia migliore di quella antistante l’isola. I circa 200 pescatori che l’abitano, inoltre, sono stati sufficientemente furbi da crearvi un sistema pseudo-istituzionale di acquisto e rivendita sulla terraferma del pesce, con prezzi imposti che favoriscono, in ultima analisi, la serenità economica dell’intera comunità. Quando si considera tuttavia come le acque in cui si trova l’agognato pinnuto siano per lo più ugandesi, con conseguente risentimento degli abitanti di quelle terre, comprenderete come un’effettiva suddivisione delle compentenze non sia affatto semplice da elaborare. E ciò nonostante l’affermazione dei loro vicini del Kenya, secondo cui “Il pesce persico viene a riprodursi sulla costa orientale, dunque appartiene principalmente a noi.”
Il villaggio sull’oceano dentro la caldera di un vulcano
Anno 1785: le onde dell’Oceano Pacifico s’infrangono contro il rudimentale molo, mentre le imbarcazioni dei pescatori, gettando le proprie cime all’indirizzo dell’approdo, fanno il possibile per dar modo alla popolazione di sbarcare nuovamente nella terra della loro anima, la municipalità giapponese più difficile da raggiungere per mare. Nell’espressione di un sentimento noto come kanju , che significa “tornare al luogo della vita” ma anche, a seconda dei caratteri impiegati per scriverlo, “accettare” o “sottomettersi al dovere/destino”. Poiché ogni 230-250 anni, le case di queste genti vengono devastate da un’eruzione terrificante, che fa scuotere la loro piccola casa come fosse il dorso di un drago risvegliatosi dal torpore dei secoli dimenticati. Ed ogni volta, puntualmente, la parte superstite degli abitanti cerca rifugio nella vicina e più grande isola di Hachijojima, per poi imbarcarsi di nuovo, e far puntualmente ritorno all’ovile. Siamo a 358 Km dall’allora città di Edo, destinata a diventare in futuro la tentacolare megalopoli tokyoita, tra le nebbie del distante Mare delle Filippine. La gente venuta fin quaggiù in origine, oltre al rispetto delle tradizioni familiari, ha almeno un’ottima ragione per tenersi lontano dalle terre centrali: primi fra tutti, i monaci del Jōdo Shinshū o Buddhismo delle Terre Pure (corrente Wasan) esiliati dal tempio di Zojo-Ji come eretici ed oppositori del potere shogunale. Ed assieme a loro una selezione di discendenti di coloro che erano stati in qualche modo danneggiati dalle guerre civili, oppure restavano invisi ai funzionari del potere dei Tokugawa, ormai stanchi di nascondersi sotto falso nome. Dopo i duri sconvolgimenti dei secoli passati, dunque, il Giappone era un paese in pace. Ma la pace non è sempre un sinonimo del benessere civile. Così, eccole qui: circa 120-130 persone, i superstiti, i pionieri, coloro che erano sopravvissuti allo sciame di terremoti seguiti dalla colata lavica e la conseguente esplosione freatomagmatica, in grado di trasformare ulteriormente una delle isole più complesse, ed uniche nel paesaggio, dell’intero arcipelago delle Izu, site all’estremo sud della Terra degli Dei. Ma nessun Kami, nessun Buddha li avrebbe aiutati questa volta: soltanto il duro lavoro, e i materiali che si erano portati dietro, gli avrebbero permesso di ricostruire l’isola di Aogashima.
Vista da lontano, sembra un enorme picco marino di 2,5 x 3,5 Km, con ripide pareti ricoperte da verdeggianti foreste sovrastate dal monte periferico Otonbu, grazie ai suoi 423 metri il punto più alto dell’isola. Ma è soltanto una volta scavalcato simili barriere dalla furia del mare, che si scorge l’insolita verità: l’isola è in realtà una conca o padella, con al centro un rilevo quasi comico nella sua striata perfezione, definito il “cono delle ceneri” un piccolo vulcano, rigorosamente attivo. Come del resto lo sono gli altri quattro, nascosti sotto la superficie della Terra, grazie ai quali questo luogo ameno emerse dalle acque verso l’epoca Quaternaria, circa 2,58 milioni di anni fa. E così pare, che vivere in una terra meno antica dei dinosauri, e che potrebbe forse non raggiungere la loro età, porti con se un duro bagaglio di problemi. Incluso quello di dover tenere pronte le imbarcazioni, e lanciarsi a largo al primo avviso di tremori che potrebbero precedere l’eruzione finale. È una vita che potrebbe far gravare il senso d’ansia sui giorni e le singole ore, se non fosse per il fondamentale sentimento del kanju: tornare non perché non si abbia altra scelta, bensì farlo come naturale proseguimento della scelta degli antenati. E se i numi tutelari, umani o naturalistici, pretendono da noi una qualcosa, cosa potrebbe mai fare l’uomo per contrastare il loro sommo ed imprescindibile volere?
Sappiamo molto poco della storia di Aogashima antecedente a tale drammatica eruzione, benché se ne trovi menzione come sito vulcanico per la prima volta attorno al 1652. È in effetti altamente probabile, se non certo, che prima di quella data essa fosse del tutto priva di abitanti: a tal punto le condizioni marittime, e la semplice distanza dalla costa, l’avevano resa inespugnabile ai più. Tutto quello che avvenne da quel momento in poi, tuttavia, sarebbe stato destinato a rimanere a vantaggio dei posteri futuri. Fino alla prossima, terribile eruzione…