Alto faro spagnolo visitato dall’artista che colora ogni cosa sul suo cammino

Svegliarsi all’improvviso per vedere un qualche cosa di diverso. Come una scintilla, il fuoco, l’ultima propaggine dell’arco iridato. L’arcobaleno che converge nella torre, a implicito memento di un ritorno. Succede al termine di un lungo periodo dedicato alla meditazione, di riemergere dalle profonde stanze per riuscire ad apprezzare, finalmente, una diversa prospettiva sulle molte difficoltà disposte lungo gli alterni sentieri dell’esistenza. Così quello che si presentava in precedenza come candido e incolore, stagliandosi contro le nubi di un cielo qualche volta in tempesta, può trasformarsi nell’insolita tela pronta per ricevere un apporto di trasformazione, profonda e inevitabile, a pilastro che sostiene l’alta volta del soffitto dell’Arte. Arte, immagine, pubblicità, occasione (di farne). Ovvero quel frangente che può meritarsi di trascendere la semplice definizione categorica, ponendosi ad esempio di un potente presupposto di accrescimento. Sull’inizio di un decennio forse tormentato (o almeno, così sembra) e lungo il paesaggio erboso ma non sempre verdeggiante della costa cantabrica, verso i confini di quella parte d’Europa che prende il nome di Spagna, affacciata sull’Oceano Atlantico settentrionale. Un luogo battuto dalle antiche tempeste che in un’epoca lontana, a tante navi costarono l’estremo prezzo del naufragio, almeno finché qui trovaron posto un certo numero di fari per illuminare il cammino, tra cui quello più recente si trova presso il capo Ajo e venne concepito originariamente nel 1907, sebbene ci vollero 23 anni perché le autorità regionali, trovando i fondi e il desiderio, riuscissero finalmente a completarlo. Ed altri 90 affinché il graffitaro e scultore di fama internazionale originario della vicina città di Santander,  Óscar “Okuda” San Miguel Erice, si trovasse bloccato in patria per un periodo sufficientemente lungo da poter dedicare i soli tre giorni necessari a trasformarne completamente il volto.
Per un’iniziativa di derivazione incerta ed effettuata dietro un compenso non particolarmente chiaro (probabilmente per evitare eventuali critiche) facendo seguito alla quale, l’artista quarantenne si è arrampicato sui familiari ponteggi, per portare a termine l’opera temporanea intitolata Infinite Cantabria. Che per quanto concerne l’immagine superficiale affine ad uno slogan, si presenta come la sua familiare realizzazione fatta di triangoli e figure d’animali poste in comunicazione tra di loro, con l’aggiunta di alcune ancore che si richiamano all’ambiente marinaresco, sebbene l’effettiva collocazione ed il messaggio potrebbero collocare questo ultimo intervento tra i più importanti nella già lunga carriera del creativo. Visto come l’occasione costituisca, nei fatti, l’opportunità di rendere omaggio alla terra natìa ed alla particolare fauna delle foreste miste cantabriche, con figure che alludono all’orso, il lupo ed il capriolo di questo habitat, con l’ulteriore aggiunta ben contestualizzata del profilo di un gabbiano in pensierosa attesa. Il tutto comunque concentrato dalla parte rivolta verso l’entroterra lasciando l’edificio relativamente monocromatico per quanto sia osservabile dal mare antistante, al fine di rispettare le leggi e regolamenti per gli ausili alla navigazione in ambito costiero. Verso l’ottenimento di un prodotto finale che si è già dimostrato utile ad attirare 1.800 visite nel singolo giorno della sua apertura, un risultato non da poco considerato la posizione remota e l’attuale situazione spagnola della pandemia, sebbene come spesso capiti per le opere di questo artista, non siano mancate le consuete critiche di un particolare mondo politico, per l’implementazione ritenuta inappropriata degli schemi espressivi, da loro ritenuti ancora oggi d’avaguardia, della Pop Art…

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L’artista dei graffiti sospesi tra gli alberi della foresta

Tra le questioni portate finalmente all’attenzione del pubblico all’inizio di questo 2018, figura in maniera preponderante quello della plastica usa e getta dei sacchetti del supermercato. In questa sua nuova versione biodegradabile, dal costo di un paio di centesimi necessariamente a carico del consumatore. Utile, inutile, sensata, iniqua perché non utile (soprattutto quest’ultima cosa, per lo meno nell’opinione di chi produce il maggior numero di diatribe online) ma una cosa è certa: in un paese in cui esistesse un adeguata cultura ed infrastrutture finalizzate al riciclo, non ci sarebbe alcuna necessità di limitare l’impiego del problematico materiale. Il cui impatto ambientale, in assenza di un’adeguata catena di smaltimento, può essere niente meno che devastante. Certo: quello che l’uomo fa, attraverso l’elaborazione polimerica dei benzeni, non può essere dissolto da semplici processi biologici o di erosione. La stessa natura invincibile del materiale è a noi estremamente chiara, quando prendiamo in considerazione l’alta quantità di processi, potenzialmente distruttivi, attraverso cui vengono fatti transitare molti dei nostri prodotti di uso quotidiano. E uno di questi è certamente la produzione del cellophane: la pellicola trasparente ed impermeabile dai molti usi, inventata originariamente dal chimico svizzero Jacques E. Brandenberger nel 1908, per salvare la sua tovaglia da potenziali macchie di vino rosso. Facendo passare una certa quantità di viscosa, essenzialmente il tessuto artificiale prodotto dalla cellulosa, mescolata con alcaloidi e solfuro di carbonio, all’interno di una sottile fessura in un bagno d’acido, trasformandola nel sottile film trasparente che noi tutti ben conosciamo ed usiamo normalmente per preservare dall’ossigeno il cibo. Interessante! Che sostanze considerate normalmente dei veleni, attraverso un trattamento ed una procedura adeguata, possano trasformarsi in involucri del tutto degni della nostra fiducia. Questa imprescindibile tendenza alla mutazione, del resto, è comune a molte tecniche e procedure frutto dell’epoca contemporanea. Comprese quelle propriamente appartenenti al settore dell’arte.
Evgeny Ches è l’artista russo che sta in una certa misura sdoganando, in queste ultime settimane, un’interessante approccio al disegno con la bomboletta spray che ebbe origine nel 2009, grazie a un’invenzione dei due celebri graffitari francesi Kanos e Astro, operativi principalmente nella zona delle banlieue parigine: verniciare non più direttamente sulle pareti di proprietà pubblica o privata, arrecando oggettivamente un significativo disturbo alle convenzioni funzionali del contesto urbano. Bensì farlo sopra una superficie che potremmo definire, per analogia con il nostro discorso iniziale, riciclabile, ovvero conforme al concetto modernamente pratico dell’usa e getta. E quando vi dirò il nome di questa categoria d’arte, immediatamente ne comprenderete il nesso: cellograff, ovvero, apporre la propria grafica sulla cellulosa. Fare della plastica, una virtù. Ci sono alcuni significativi vantaggi ed almeno un enorme svantaggio, nell’intera faccenda applicata alle esigenze tipiche dell’artista urbano. Il cellophane è: pratico, leggero, utile a non infrangere seriamente la legge, poiché può essere facilmente rimosso al termine della creazione artistica, preservando al 100% la superficie sottostante. Il cellophane non è, invece, in alcun modo preservabile o duraturo. Il che trasforma subito l’opera del creativo in qualcosa di effimero e transitorio, una vera e propria performance art, creata principalmente per essere fotografata, o con la finalità di mostrare al pubblico il processo stesso della sua creazione. La sua qualità addizionale inizialmente più trascurata, eppure così importante, fu tuttavia un’altra: l’essere del tutto trasparente. Ben presto i due parigini scoprirono infatti che il modo più pratico per preparare la loro “tela” era quello di avvolgere la titolare pellicola facendo la spola tra due oggetti cilindrici, generalmente dei segnali stradali o una coppia di lampioni. Facendo così in modo che il fondale, osservabile attraverso gli spazi vuoti del disegno, tag o opera figurativa, diventasse una parte fondamentale della composizione. Una soluzione a partire dalla quale, il nostro Evgeny non ha potuto fare a meno di chiedersi, e se invece degli arredi artificiali facenti parti del contesto urbano, decidessi di utilizzare degli arbusti cresciuti naturalmente nel bel mezzo della natura?

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La bomboletta robotica e il futuro dell’arte sui muri

Svettante sopra la seconda città più popolosa d’Estonia, il vecchio camino industriale getta l’ombra del suo cupo grigiore, ormai da diverse generazioni. Questo perché la sua demolizione sarebbe, oltre che costosa, potenzialmente problematica, e richiederebbe la chiusura di alcuni importanti hub del traffico cittadino. Come disse qualcuno, dunque, se non puoi sconfiggerlo, assicurati che sia bello! E così pochi giorni fa, gradualmente, sopra la struttura è iniziato ad apparire una gigantesca e variopinta figura, di una donna che medita tenendo in mano una pianta in vaso. L’obbrobrio si è trasformato in un totem. Alquanto incredibilmente, senza alcuna traccia di impalcatura, né il dispiegamento di uomini e mezzi che ci si sarebbe aspettati, nelle circostanze in questione, per la realizzazione di un’opera tanto estesa e precisa. Tra il silenzio dell’alta quota operativa, fatta eccezione per il verso reiterato degli uccelli, un solo rumore: il ronzio di un paio di motorini, che muovono su e giù la Creatura di Tartu.
Mezzelune vertiginose che partono dai margini della tela, ricalcando i sentimenti dell’autore. Lievi pennellate parallele, che s’incrociano per definire spazi, sottolineare i chiaroscuri. Staffilate, di un pennello impugnato da lontano, come si trattasse di un fioretto, piuttosto che linee precise di un bisturi, nella realizzazione chirurgica dei dettagli più infinitesimali. L’opera manuale di un pittore è tanto complessa e varia, quanto fondamentalmente superflua dal punto di vista del risultato finale. Poiché non importa quanto sia intricato il soggetto di un quadro: in ultima analisi, esso è sempre riducibile a una serie di punti indipendenti tra loro. Non è forse questa la teoria filosofica dell’atomismo, trasportata dall’antica Grecia ai giorni nostri dell’Arte? Quanto piuttosto, l’eredità del grande Van Gogh, tra le cui tecniche più memorabili ricordiamo quella mutuata dal movimento francese del Pointillisme, in cui ogni centimetro quadro dell’opera era una mera combinazione di staffilate, la cui comunione lasciava che l’immagine emergesse alla giusta distanza d’osservazione… Ma guardiamo indietro, addirittura, a partire dalla situazione corrente, e potremmo scorgere qualcosa di ancora diverso: la risultanza del passaggio di una stampante a getto piuttosto che ad aghi, col caratteristico rumore prodotto da un elettromagnete che scaraventa più volte la testina contro il medium destinato ad accogliere la nostra testimonianza immanente. In un certo senso, l’arte è il prodotto del cuore e il cervello, che il pittore trasmette alla mani, permettendogli di veicolare la profonda pozza dei sentimenti. Da un’altro, è soltanto la fantasia di colui che fruisce, il cui occhio invisibile ha la capacità di scrutare l’ultimo dei significati. E per quest’ultimo, ha davvero importanza l’effettivo impegno di un suo simile fatto di carne e sangue?
Secondo una possibile chiave interpretativa della geniale venture commerciale, il prodotto principe e l’ultima invenzione della compagnia estone Sprayprinter, direi proprio di no. Loro che attraverso la visione dell’inventore Mihkel Joala, hanno applicato una serie di tecnologie distinte al fine di creare qualcosa di totalmente nuovo: un metodo che rende triviale l’arte, o per meglio dire, permette a chiunque di esserne il vate. Inteso come tramite passivo, portale attraverso cui si manifesta l’incorporea divinità, ovvero nel caso specifico, lo spettro che vive all’interno del mondo digitale. Tutto ebbe inizio, secondo la precisa mitologia aziendale, quando la figlia dell’autore gli rese manifesto il bambinesco desiderio di “Avere un unicorno sulla parete della sua stanza”. Al che l’immediata risposta, avrebbe potuto essere: “Tesoro, non sono in grado di disegnarlo.” Se non che un genitore farebbe tutto per la sua amata prole, incluso esercitare la sua poderosa capacità di demiurgo. Portando quindi costui, con somma sorpresa di ogni parte coinvolta, a combinare una valvola d’iniezione del carburante con un telecomando della console Nintendo Wii, per…

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Il colore più prezioso del Rinascimento italiano

Ultramarine

Dentro una ciotola di coccio, metto pietra triturata, mastice e colofonia, la cosiddetta pece greca. Quindi aggiungo alcuni blocchi di cera d’api, non dissimili a quelli necessari per la fabbricazione di una candela profumata. Un tale intruglio, dunque, mescolo e rigiro, per ore ed ore, finché non si trasformi in una massa semi-solida che plasmo con le mani, nella forma di “due bastoni d’un asta forte, né troppo grossi, né troppo sottili, che sieno rotondi da capo a piè”. Quindi, nelle successive parole di uno strano linguaggio a metà tra il veneto e il toscano, li immergo nella liscivia, ed inizio energicamente a “strucarli”…
Sul finire del XIII secolo, l’arte europea stava andando incontro ad una serie di nuovi concetti, o in altri termini, Rivelazioni: che il sentimento più puro della fede non poteva prescindere dallo spirito d’osservazione del mondo reale, che la Natura stessa era magnifica, e meritava di esser parte della rappresentazione artificiale del Creato, che Cristo, la Madonna, i Santi e i personaggi della Bibbia erano state delle persone reali, e come tali rispondenti a delle precise caratteristiche anatomiche e proporzionali. E così con alle spalle l’Annunciazione di Leon Battista Alberti (1344) in cui il pavimento piastrellato sembrava tendere ad un’accenno del misterioso concetto di punto di fuga, Filippo Brunelleschi si applicava nei suoi primi esperimenti ottici, per dirimere la questione matematica del codice prospettico della pittura. Proprio a quest’ultimo sarebbe stato dedicato, nel futuro 1435, il testo di Leon Battista Alberti De Pictura, che includeva la prima trattazione geometrica della realtà in tre dimensioni. Ma ritornando a noi, ovvero ben prima di quel tomo fondamentale, forse non tutti sono a conoscenza della vicenda di un altro grande teorico ed autore letterario, Cennino di Andrea Cennini nato a Colle Val d’Elsa, in provincia di Firenze, che scrivendo in volgare con 35 anni d’anticipo ebbe a compilare il suo grande Tomo dell’Arte, una trattazione, estremamente metodologica se non proprio scientifica, di quanto doveva conoscere un artista per potersi dire veramente preparato sulle tecniche della rappresentazione grafica sul volgere delle Ere. Il suo libro, rimasto il punto di riferimento per generazioni di apprendisti e maestri di bottega, costituiva un completo catalogo di approcci alla tecnica del disegno, alla preparazione de pennelli, le tecniche dell’affresco, la decorazione, persino il conio delle monete. Ma il più grande spazio, nei capitoli tra il 35 e il 62, viene dedicato alle tecniche per la preparazione e l’uso del colore. Va assolutamente preso in considerazione, quando si pensa alla pittura di quest’epoca, come ogni singola tonalità impiegata nelle opere che sono giunte sino a noi avesse una provenienza radicalmente differente, frutto di anni ed anni di sperimentazioni provenienti dai luoghi e dalle epoche più diverse. C’era il rosso vermiglione, frutto dall’alchemica mescolanza tra lo zolfo ed il mercurio, secondo un metodo tramandato dagli antichi romani. C’era il viola purpureo, che i bizantini estraevano tritando centinaia e migliaia di molluschi gasteropodi della famiglia dei Muricidi, sacrificati con trasporto per raggiungere la perfezione nel mondo dell’arte. Dall’India esisteva un giallo particolarmente intenso, tratto dall’urina concentrata dei bovini; e quante leggiadre aureole, quanti aloni angelici di apparizioni sacre, furono il frutto di un tale fluido prosaico proveniente da vesciche d’animali!
Ma sopra tutti questi c’era un singolo colore, straordinariamente intenso ed impossibile da riprodurre con approcci alternativi, che veniva considerato addirittura più prezioso della foglia d’oro: il quale proveniva unicamente da una singola miniera nel Badakhshan, nell’odierno Afghanistan nord-orientale e per questo veniva chiamato blu d’oltremare. Era a Sar-i Sang, nelle profonde viscere della Terra, dove uomini senza più speranza battevano con forza gli scuri picconi, alla ricerca di una pietra composta fino al 40% di lazurite, l’unica sostanza minerale ad essere naturalmente simile all’azzurro cielo. Il suo nome: lapislazzuli, dalla parola persiana lājavard, riferita al luogo della sua estrazione. La cui importanza, non venne mai sottovalutata. Fin dall’epoca del Neolitco, infatti, furono fatti tentativi d’impiegarla nell’arte, con stuoli di mercanti che facevano a gara per esportarla in tutti i più remoti recessi del Mediterraneo. Tanto che i più antichi manufatti giunti sino a noi a farne uso, si annoverano oggetti risalenti al primo e secondo millennio a.C, tra cui le statue dei templi di Ishtar in Mesopotamia ed alcune maschere funerarie dei faraoni egizi. La pratica tradizionale dell’impiego di questa pietra per la creazione dei pigmenti prevedeva la sua triturazione mediante l’impiego di un pestello, quindi l’applicazione diretta a seguito dell’aggiunta di semplice acqua fluidificatrice. Ma in tale rudimentale modo, tutto ciò che gli antichi potevano ottenere era una tinta tendente al grigio, priva dello splendore intrinseco della parte “viva” della pietra, quel blu impareggiabile ma necessariamente condizionato dalle impurità. E così continuò ad essere, finché non giunse sulla scena Cennino Cennini, con il suo metodo semplicemente privo di precedenti.

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