Assoluta unità d’intenti, parametri culturali e caratteristiche inerenti: questa è l’immagine fondamentale della Cina arcaica, per come viene tradizionalmente integrata nel sistema cronologico delle dinastie successive. Ma mentre nella valle del Fiume Giallo regnavano le prime dinastie di Xia, Shang e Zhou, a migliaia di chilometri nell’entroterra di uno dei paesi più grandi del mondo, l’iconografia del sovrano sembrava possedere tratti somatici del tutto distintivi e profondamente diversi. Una testa squadrata con larghe orecchie a punta. Il naso camuso con le froge spiraleggianti. Ed un singolare paio di peduncoli oculari dalla forma sporgente. Accantonando dunque le tipiche elucubrazioni sugli antichi alieni, chi era esattamente il personaggio che figura nei soggetti delle statue bronzee della cultura di Sanxingdui o del “Tumulo delle Tre Stelle”? Ritrovato, assieme ad innumerevoli altre figure umane dalla forma flessuosa e sottilmente inumana, in pose che vanno da atteggiamenti rilassati a imperiosi gesti di dominio, per non parlare delle innumerevoli chimere fantastiche, giade votive e maschere mostruose facenti parte di quel sito archeologico, inizialmente scoperto nel 1927 ed in seguito connesso alla collocazione della capitale di una nazione precedentemente ignota, con mura poligonali della lunghezza di oltre 2.000 metri per lato. Principalmente per l’assoluta quanto inspiegabile assenza di frammenti scritti, diversamente da quei regni dinastici settentrionali, di cui sappiamo molto grazie ai loro annali, le ossa oracolari di tartaruga, le iscrizioni funebri sui monumenti sepolti. Benché almeno un appiglio storico possa essere desunto, per inferenza, dalla corrispondenza geografica all’area del regno semi-mitico di Shu, che sappiamo aver costituito un partner commerciale per i primi Imperatori, con il proprio centro economico ed amministrativo in corrispondenza delle pianure dell’odierna Chengdu. A partire dal passaggio tra il terzo e secondo millennio a.C, grosso modo, sebbene molti dei manufatti più caratteristici ritrovati a Sanxingdui risalgano alla tarda Età del Bronzo (decimo/undicesimo secolo) ovvero la quarta fase nella lunga storia d’utilizzo di quest’area, quando i suoi abitanti disponevano di risorse e conoscenze relative alla lavorazione metallurgica prossime allo stato dell’arte. Oltre ad una predisposizione creativa notevolmente sviluppata, se si osserva la quantità di dettagli presenti nei pezzi più grandi, che includono la prima statua in bronzo della storia di una figura a grandezza naturale, di un sacerdote, con gli stessi occhi bulbosi e orecchie da elefante, intento a stringere un oggetto oblungo andato ormai da lungo tempo perduto. Uno degli oggetti forse più memorabili del sito, ma certamente non l’unico degno di essere citato esplicitamente…
metallo
L’elaborata disarmonia della prima pagoda dei boschi alascani
Vivere alla convergenza dei sentieri sovrapposti, sulla somma degli spazi soavi, lasciando che lo sguardo si avventuri dietro valli e monti, al fine di capire la reale essenza della condizione umana. I suoi problemi e tutti quei trionfi, i piccoli gradini della vita quotidiana, oltrepassati sul sentiero della più intima e speciale realizzazione. Poiché ogni persona è differente e qualche volta ciò che la mente desidera, può guidare per svariate decadi le gesta di qualcuno. Un individuo scaltro, attento, in alcun modo privo di quel tipo di risorse materiali necessarie per rendere tangibile la materia onirica delle ore notturne. Da sogno a verità, ad allucinazione dunque. Quella che potrebbero per qualche attimo pensare di stare vivendo, tutti coloro che volgendo lo sguardo dalla strada statale di Parks Highway verso il tramonto, scorgono la cima alta 56 metri di quella che il suo costruttore ha scelto di chiamare in modo molto semplice “La torre di Goose Creek”. Ma la maggioranza di Internet parrebbe aver scelto di ribattezzare come un edificio dedicato al celebre autore letterario statunitense Dr. Seuss, con chiaro riferimento alla casa alta del Lorax, il surreale guardiano della foresta nonché antitesi del malefico Grinch. Ma ci sono altri termini di riferimento possibili: il Burrow, la dimora familiare dei Weasley in Harry Potter, trasformata in sede dell’Ordine della Fenice durante la guerra dei maghi; il luogo scenografico in cui si svolge l’indagine del videogioco What Remains of Edith Finch. O persino l’inquietante SCP-3333, entità del noto progetto collaborativo costituito da una torre di vedetta forestale capace di replicare se stessa all’infinito oltre lo spazio ed il tempo. Tutte influenze a dire il vero successive a quegli anni ’90 in cui, secondo le poche informazioni reperibili, il noto e facoltoso avvocato di Anchorage, Phillip Weidner decise che avrebbe potuto fare affidamento su un luogo unico dove trascorrere gli anni futuri del proprio pensionamento. Una baita poco fuori Talkeetna, comunità di persone al di sotto della soglia necessaria per poter essere considerata una città, ma abbastanza eclettica da aver avuto per oltre una decade un gatto come primo cittadino. Una storia che parrebbe anch’essa fuoriuscita da un tomo dell’autore di oltre 60 testi per bambini e non solo, sebbene il suo creatore non ami affatto che se ne citi il nome, forse per evitare l’appropriazione indebita di associazioni non sanzionate, o magari per il semplice bisogno di rivendicare l’originalità e creatività alla base di una tale realizzazione. Che considera notoriamente una poesia rivolta al cielo, così come quelle che vorrebbe scrivere, un giorno, seduto nella camera più alta mentre con sguardo senza limiti scruta ed osserva l’infinito spazio del cosmo e della terra antistante. Ah, invecchiare oltre la curvatura dell’orizzonte…
Il suono roboante della macchina che ricicla i tondini edili
Facile da fare, difficile da disfare, praticamente impossibile da riportare allo stato originario. Il cosiddetto rebar o tondino zigrinato, componente primario dell’armatura edile, viene creato mediante la lavorazione a freddo e taglio a misura di una letterale bobina di acciaio duttile, successivamente trasformato in una struttura rigida mediante la sollecitazione dei suoi atomi costituenti. Il che non significa che risulti essere, di suo conto, indistruttibile, come ampiamente dimostrato a seguito della demolizione di un edificio. Quando assieme al cumulo di cemento, inerentemente riutilizzabile a guisa di materiale riempitivo, si prende atto del tremendo groviglio composto da letterali decine, o centinaia di metri di queste sbarre di ferro e carbonio, particolarmente veloce ad arrugginirsi mentre si trasforma in un rifiuto buono soltanto per la fornace. Ecologia? Tutela dell’ambiente? Riduzione dell’impronta carbonica derivante? Tutte finalità difficilmente perseguibili, soprattutto in paesi in via di sviluppo, dove la spinta all’ampiamento e recupero edilizio supera talvolta i fondi a disposizione della maggior parte delle aziende. Viene infatti dal Brasile questa singolare macchina recicladora de vergalhão, che poi sarebbe un’espressione in lingua portoghese che allude al riutilizzo dei suddetti componenti, finché sono ancora “buoni” e ragionevolmente utili in un’ampia gamma di circostanze. C’è infatti una fondamentale problematica, che tende ad accomunare la maggior parte delle sbarre di rebar che vengono recuperate dal cemento d’implementazione, anche in condizioni ideali: le sinuose curve, gli angoli a gomito, le difformi piegature implementate al fine di ancorarle in posizione, così da evitare lo scivolamento e conseguente crollo (involontario) dell’edificio. Da qui l’idea della JP Botelho Máquinas, già individuabile anche nel catalogo di alcuni fornitori cinesi online, per semplificare un tipo di processo a cui semplicemente nessuno, fino ad oggi, era sembrato possibile fare affidamento. L’effettiva piegatura sul campo di questa tipologia di materiali, tradizionalmente effettuata a mano mediante l’utilizzo di attrezzi manuali simili a tridenti, aveva sempre richiesto un lungo tempo ed altrettanta perizia nell’esecuzione dei movimenti, tanto da rendere impossibile il ritorno sistematico alla situazione di partenza. Finché non si potesse disporre dell’aiuto di un particolare, ingegnoso ed automatico, coccodrillo…
La strana posizione newyorchese dell’ultimo “fagiolo” riflettente di Anish Kapoor
Sta sollevando un certo grado d’interesse la notizia secondo cui dallo scorso 31 gennaio i passanti di Leopard Street nel popolato quartiere Tribeca della Grande Mela possono ammirare con i propri occhi uno spettacolo piuttosto insolito: l’oggetto fuori dal contesto di un ovoide dalla forma schiacciata, incastrato ad arte sotto uno degli spigoli del recente, lussuoso ed affascinante palazzo soprannominato la Torre Jenga, a causa della forma sporgente dei suoi balconi ed appartamenti. Ad arte perché si tratta, per l’appunto, di un’opera del celebre artista di origini indiane naturalizzato britannico Anish Kapoor, già autore rinomato della simile struttura posizionata in mezzo al verdeggiante Millennium Park, nella sponsorizzata AT&T Plaza di Chicago, ad oltre 1.200 Km di distanza. Creando una sorta di linea di collegamento ideale tra le due grandi città americane, ciascuna dotata delle proprie attrazioni e monumenti, ed ora entrambe abilitate a far riflettere la gente sulla propria posizione e ruolo nell’immensa struttura dell’Universo, tramite la loro immagine riflessa nelle distintive forme di tali strutture vagamente ultraterrene. Così come prosegue la tematica di fondo, importantissima per quello che costituisce uno dei creativi dell’epoca post-moderna più pagati ed influenti della nostra Era, di creare una letterale ed efficace Porta del Cielo in acciaio inossidabile, titolo non casualmente attribuito all’originale (“Cloud Gate”) e più famoso esempio in prossimità delle sponde del lago Michigan, qui meramente riproposto ad una stazza sensibilmente più piccola di 40 tonnellate, contro le 100 dell’eponimo ispiratore. Una creazione nondimeno… Impressionante, a suo modo, per la maniera in cui compare all’improvviso mentre si procede sul sentiero urbano, non come pezzo forte di un allestimento visitabile sul tetto di un ristorante, in maniera analoga all’alternativa, bensì incorporato per un vezzo momentaneo nella struttura già notevolmente insolita del palazzo che in larga parte contribuisce a mantenerlo in ombra. Il che non potrebbe essere maggiormente lontano dalla verità, visto l’investimento per averlo effettuato dal costruttore Izak Senbahar pari a 8 milioni di dollari, tra le plurime incertezze dei suoi banchieri e partner d’affari. Nel posizionamento ideale di un luogo i cui appartamenti hanno per inciso un costo unitario che si aggira tra i 3,5 e 50 milioni di dollari e nel quale si è anche trasferito, a partire dal 2017, lo stesso Kapoor. Potendo in tal modo beneficiare di una vista diretta sull’ansiogeno ritardo che ha condizionato il completamento della sua scultura, dovuto principalmente all’insorgere del Covid negli anni passati ma anche l’inerente complessità nel costruire qualcosa di tanto inusuale, già largamente sperimentata dalla stessa compagnia metallurgica Performance Structures Inc, l’originale autrice materiale del “fagiolo” posto al centro metafisico della Città Ventosa. Soltanto per vederlo ribattezzato entro breve tempo dai nativi col suddetto soprannome, originariamente estremamente inviso allo stesso Kapoor fino alla progressiva rassegnazione ed un tardivo senso d’autoironia, dinnanzi al plebiscito popolare che si è già ampiamente ripetuto per la città di New York. Tanto che nel presente ed attuale caso, almeno stando alla stampa generalista, la sua opera non sembrerebbe neanche possedere un titolo ufficiale, essendo già stato denominato dal pubblico e la stampa con l’ancor più dissacrante termine di “mini-bean”. Il quale non sembrerebbe aver fatto molto, in questi primi giorni dalla silenziosa inaugurazione, per incrementare il valore della percezione pubblica di una così distintiva e notevole installazione…