Canto elettrico di matrioske giapponesi

Matryiomin

La voce delle bambole è un concetto astrale che rientra tra i cardini psichici della sinestesia, l’irrealizzabile comunione tra i diversi mondi della percezione sensoriale. Se queste figurine antropomorfe potessero davvero articolare un pensiero, non sarebbero più degli esseri inanimati. Così ogni fantoccio, quando sottoposto allo sguardo degli umani, si cura di mantenere un rigido silenzio. Il processo esattamente inverso, d’altra parte, rientra tra le prerogative di un qualsiasi strumento musicale. Non tutti gli implementi acustici sono belli allo stesso modo, indipendentemente dal suono celestiale che potrebbero produrre; le vertiginose curve di una chitarra non assomigliano, per esempio, alla tozza gibbosità di un tamburello. L’arpa svetta nella sua splendida eleganza, mentre lo xilofono è uno grezzo susseguirsi di metalliche placche parallele. E poiché l’esperienza di un concerto all’auditorium è fondamentalmente purissima sonorità, nessuno mai si concentra sull’aspetto esteriore di quel che lo produce. Sarebbe controproducente e occuperebbe l’immaginazione. Senza contare che la musica una faccia ce l’ha già: quella di coloro che sanno metterla in pratica, tramite i gesti e la sapienza che proviene dallo studio. Strane vie d’accesso all’arte…
Non esistono bambole con più di un volto, tranne una: la matrioska, gestalt concentrica di 5,6,7 graziose fanciulle tondeggianti, ciascuna rappresentante un costume tradizionale della Madre Russia. E non ci sono strumenti più antiestetici di questo: il theremin, l’incredibile eterofono che fuoriuscì nel 1919 dall’officina del fisico sovietico Lev Sergeevič Termen, suo scopritore accidentale. Consisterebbe di due antenne perpendicolari, l’una per il volume e l’altra per la frequenza, in grado di percepire l’impedenza capacitiva di una mano umana. Si suona con piccoli movimenti oscillatori, simili a quelli di un direttore d’orchestra, producendo un sibilo altamente caratteristico e sottilmente inquietante, molto amato dai registi dei primi film di fantascienza e qualche volta usato anche dal grande maestro del brivido, Alfred Hitchcock. Qualcuno potrebbe chiedersi se c’è un modo di rendere adorabile una cosa così misteriosa e innaturale. La risposta viene, come spesso capita in questi casi, da uno dei paesi culturalmente più eclettici di tutto l’Oriente. Si chiama Matryomin e la produce l’azienda Mandarin Electron, di Shizuoka, Japan.

Matryiomin 2

Una Matronym la si suona, idealmente, guardandola negli occhi. Proviene da un’idea di Masami Takeuchi, il primo concertista del theremin in Giappone. Dal di fuori sembra quel famosissimo oggetto folkloristico che si diffuse globalmente nei primi del ‘900, ma il suo contenuto è del tutto differente. Piuttosto che ospitare copie più piccole di se stessa, la bambola nasconde infatti una delle due antenne dello strumento (quella tonale), più la relativa elettronica di controllo e un piccolo altoparlante. Se necessario, si può anche collegare ad un impianto audio più potente. Assistere ad un’esibizione del gruppo musicale Mable, che l’ha adottata come inconfondibile segno di riconoscimento, ha qualcosa di sottilmente surreale. Sembra quasi che i diversi membri stiano tentando di comunicare a gesti con il proprio pupazzo, meditando sulle note di una misteriosa melodia. Che in realtà proviene da loro stessi. Tutto è interconnesso e circolare, come le reciproche coincidenze internazionali che hanno portato alla nascita di un tale singolare oggetto.
Secondo fonti accreditate, la matrioska moderna sarebbe nata a cavallo tra il XIX e XX secolo, per l’operato dell’artista, ricco industriale, collezionista e mecenate Savva Mamontov, che attraverso le sue invenzioni intendeva valorizzare l’ampio patrimonio culturale di tutta l’Est Europa. La Russia, in quegli anni, stava per perdere una guerra contro l’esercito imperiale del Giappone, in seguito al tentativo di guadagnarsi territorio in Corea e Manciuria. I soldati, tornando dal remoto confine orientale del paese, portavano con sé a Mosca dei piccoli ricordi, souvenir e gli altri occasionali frutti delle loro esplorazioni metropolitane, pegni di un luogo e una cultura appena conosciuti, subito avversi per le sfortunate circostanze della storia. Fra tali oggetti figurava una statuetta del vecchio saggio Fukurokuju, una delle sette divinità della fortuna. Dentro di questa ce n’era un’altra, uguale. Con dentro un altra e un’altra ancora. Mamontov se la comprò, in qualche modo, e ne trasse ispirazione. Così nacque la prima matrioska russa, per un viaggio da un capo all’altro della grande Asia.
Ci sono altre interessanti corrispondenze. Avete mai visto una bambola kokeshi? A parte l’evidente somiglianza, il concetto stesso di quella graziosa serie di figurine, diverse sulla base degli usi e costumi regionali, ricorda da vicino la reinterpretazione che seppe farne il geniale artista russo. Però all’interno di quelle bambole non c’era nulla, se non l’enorme potenziale di una voce, perennemente silenziosa. Mancava la scintilla della vita, ovvero l’elettricità.

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