Non importa quanto sei lungo, solido e potente, se non disponi di valide rotaie; il treno supremo è soltanto quello che possa dirsi, a tutti gli effetti, essenziale. Un pescatore polinesiano, tutt’oggi, impiega una semplice canoa stabilizzata da un galleggiante. Eppure pesca molto bene. Un aviatore della Siberia, abituato a spostarsi unicamente nell’aria, decolla su piccoli aeroplani, in grado di atterrare anche in assenza di una lunga pista fatta di levigato asfalto. E il macchinista cambogiano, esperto percorritore di strade ferrate dismesse, si riconosce dalla sua saettante locomotiva, carro merci, vagone ristorante, cuccetta e solarium viaggiante, ciascuna di queste cose incorporate in pochi metri quadrati, appena l’equivalente di un robusto pannello di bambù. L’evoluzione dei mezzi di trasporto percorre un sentiero simile a quello di noi esseri viventi. Con il sussistere di uno stato di quiete, ovvero la disponibilità di un ambiente ideale, aumentano le dimensioni. Altrimenti, ogni singola volta, avviene l’esatto opposto. Verso il finire del XIX secolo, sull’onda della seconda rivoluzione industriale, le nazioni più potenti del mondo trovarono un modo splendido di rinnovarsi: rivestire la terra di metallo, bruciando carbone verso l’infinito. I loro primi convogli ferroviari, usati per avvicinare all’inverosimile le diverse città di allora, fecero da precursori di un progresso futuro, primo punto d’orgoglio e simbolo della mentalità coloniale d’Occidente. E così, dove passavano gli eserciti di un impero, piuttosto che dell’altro, la gente si fermava a guardare sapendo che, puntualmente, sarebbe arrivato un treno. La Cambogia in quegli anni aveva un problema, il Siam; la Francia un’intera Legione, appena tornata dall’Algeria. Quale miglior modo di scacciare gli espansionisti più temuti dell’Indocina, che chiedere all’amico europeo? Così nacque un protettorato, con l’inevitabile serie di condizioni. Tra cui quella, del resto utilissima, di procurarsi una rispettabile ferrovia. Sono gli anni d’oro dei treni cambogiani. Grazie all’operato della popolazione locale, guidata da alcuni abili ingegneri stranieri, il paese di Angkor Wat, come prima di lui l’India, sviluppò in pochissimi anni il suo sistema di trasporti moderni, fatto di centinaia di migliaia di miglia di rotaie, destinati a resistere per sempre. Che invece durarono, grosso modo, fino al passaggio della Cometa di Halley.
In epoche lontane, i dinosauri dominavano la Terra. Titaniche lucertole corazzate, alte quanto una palazzina di tre o quattro piani. Nulla poteva spodestarli, se non l’evento epocale di una catastrofe distruttiva. Il meteorite cosmico, per quanto riguarda i treni della Cambogia, potrebbe ritrovare la sua controparte nell’improvviso affermarsi dei Khmer Rouge, sotto la guida dittatoriale del grande fratello Pol Pot. Come gli altri movimenti simili, tale regime era fondato su un dogma fondamentale: la costruzione di una sacra identità nazionale. E questo, per il paese che un tempo era stato guidato dal console di Francia, significava rifiutare ogni sembianza di europeismo, incluse le ottime, beneamate ferrovie. I lunghi binari si ricoprirono d’erba, le locomotive di polvere rugginosa. Oggi, dell’originaria rete di trasporti cambogiani restano soltanto poche vestigia, inefficienti e rovinate. L’unica linea statale sopravvissuta, che collega la capitale Phnom Penh al grande centro di Battambang, prevede appena un paio di corse la settimana. Date le condizioni del tracciato, la sua velocità risulta tremendamente bassa; il viaggio, di circa 300 chilometri, può richiedere un tempo superiore alle 15 ore.
A meno di non volersi addormentare sopra un letto di bambù, cullati dal soave suono di un piccolo motore strombazzante. Questo, in fondo, è il norry, con l’aggiunta di due coppie ruote fissate agli estremi di un asse metallico, simili ad un bilanciere per il sollevamento pesi. Il termine tecnico è sala montata. I primi esemplari erano spinti a braccio, tramite l’impiego del classico sistema basculante dei film di Sergio Leone, poi sono arrivati gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite e con essi la praticità dei motori agricoli, previa rimozione dal voluminoso trattore. L’attenzione internazionale verso questa strana realtà del mondo dei trasporti è nata con un articolo della famosa testata Lonely Planet, risalente al 2009. Ed è seguendo tale traccia che l’autore del video, identificato come endsOFearthDOTCOM (un sito non più funzionante) ha deciso di provare in prima persona l’esperienza, partendo da un piccolo villaggio sul fiume Stung Sangker. Il costo della corsa è stato di appena 5 dollari americani, circa 20 volte quello richiesto ad un pendolare locale… Queste sono le leggi del mercato, specie quando si ha con se una videocamera. Il risultato, comunque, merita. Dalla sequenza si può capire il funzionamento di questo bizzarro mezzo, smontato e rimontato in pochi secondi, ogni qual volta c’è la necessità di cambiare direzione o lasciare il passo. Per un breve tratto al turista viene anche concesso di guidare, manovrando personalmente la rustica leva dell’acceleratore. C’era persino, meraviglia della tecnica, un pedale del freno.
La suggestione letteraria, in questo caso, potrebbe ritrovarsi nel romanzo fantastico Railsea, l’ultimo di China Miéville, in cui le rotaie abbandonate da una civiltà caduta diventano l’oceano del domani, percorso da coraggiosi esploratori, non dissimili da quelli dei classici sette mari. La rilevanza della premessa, se non dell’intreccio narrativo, risulta notevole. Manca soltanto una terribile talpa gigante, l’emula scavatrice della candida nemesi d’Ismaele, il marinaio.