Vent’anni di Power Rangers, danzanti su fondo nero

Power Rangers

C’è un tipo di supereroe molto particolare, che quando i mostri attaccano la Terra non si cambia semplicemente d’abito, ma esce di scena, chiama un’esperta controfigura vestita di pregevole spandex giapponese, rigorosamente rosso, giallo, blu, verde o nero e aspetta con pazienza, nascosto da qualche parte, il ritorno di uno stato di quiete. I Power Rangers, a causa di quel particolarissimo modus operandi, sanno rappresentare al 100% due degli aspetti più determinanti delle modalità di scambio intellettuale fra Stati Uniti ed Estremo Oriente. Si tratta del fascino internazionale per la fantasia estetica di un paese esotico e la distanza, talvolta incolmabile, tra i reciproci presupposti culturali. Con questa favolosa danza, coreografata secondo le modalità di un kata di arti marziali e basata sul classico effetto speciale del morphing, si realizza un interessante tributo per il ventesimo anniversario della serie, celebrato mediante la fluida evoluzione del più popolare fra i protagonisti, il ranger rosso.
La storia inizia nel 1993, con la compagnia di produzione occidentale Saban Entertainment che, acquistati i diritti di una popolare serie TV nipponica per bambini, Super Sentai, si ritrova ad affrontare una problematica spinosa: come introdurre al pubblico le vicende narrative di un gruppo di personaggi nati e vissuti nel Giappone moderno, esperti utilizzatori di tecniche ispirate alle arti marziali di quei luoghi ed altrettanto legati, nelle vicende vissute quotidianamente nella loro identità alternativa, a dei presupposti sociali così fortemente nazionali. Attraverso le ultime generazioni dei fumetti, delle serie TV e dei molti cartoni animati importati verso l’Europa e gli Stati Uniti, l’adattamento propositivo e la censura degli editori, in situazioni analoghe, hanno portato a cambiamenti anche significativi, non sempre per il meglio. Galeotto fù, questa volta, il casco integrale con la visiera fumé. Saban, sfruttando l’irriconoscibilità dei protagonisti durante le fasi d’azione, scelse una soluzione (secondo loro) geniale, ovvero quella di sostituire in toto l’intera parte recitata del telefilm con dei segmenti realizzati a partire da zero – Stranamente, quello che riuscirono a trarne, in certi ambienti, è leggenda. Teenager che affrontano i classici problemi della vita scolastica americana, fra bulli, pupe, esami, football e cheerleader, che si radunano occasionalmente in una caverna sotterranea, indossano le loro tute aderenti e partono per dare battaglia a mostri di gomma vagamente godzilliani, dall’interno della cabina veicolare di valide alternative a Goldrake o Mazinga. Mecha, tokusatsu e i valori preferiti del popolo americano. Puro surrealismo televisivo.

Che ciò sia avvenuto nell’ambito di un racconto di questo tipo è davvero appropriato. Chi combatte il male assoluto mediante l’impiego di doti superiori al normale, siano queste innate, tecnologiche o sovrannaturali, vive inevitabilmente il bisogno di nascondere la propria identità. L’antesignano storico, Robin Hood, era un bandito nascosto tra gli alberi che lanciava frecce attraverso l’oscurità. Zorro, con la sua fondamentale mascherina, il cappello e il mantello, non fu che il primo ad indossare un costume. Significativo, da questo punto di vista, è il serafico monologo enunciato da David Carradine nel corso di Kill Bill Vol.2, poco prima dello scontro finale con la furibonda Uma Thurman. “La filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. […] Superman è nato Superman; quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent.” Quentin Tarantino, che da sempre reinterpreta a suo modo la cultura pulp nordamericana, stava esponendo un concetto dalle profonde ramificazioni, applicabile anche a questi Sentai giapponesi. Perché quando Jason Lee Scott, Ranger Rosso della prima serie, indossa la sua tuta e combatte, non è letteralmente più lui. A schermo, noi spettatori, stiamo osservando la controfigura di un attore giapponese, che agisce secondo presupposti completamente differenti. Come nella versione letterale di una parabola pirandelliana, si è verificata l’effettiva scissione tra ego e personalità. Non solo: Sentai (戦隊) è un termine giapponese di origini militari che significa letteralmente “squadrone” o “gruppo d’attacco” e in questo è racchiusa un’ulteriore chiave interpretativa. I cinque+1 ranger (ce n’è sempre uno speciale, che appare nel momento del bisogno) non indossano in realtà semplici costumi, ma uniformi. Nel momento della verità, essi non trasferiscono la loro coscienza all’interno di un’alter-ego più libero dalle convenzioni o sicuro di sé, ma diventano piuttosto i rappresentanti di una vera e propria organizzazione al servizio del bene. La loro forza è la rinuncia temporanea al concetto stesso d’identità. Per questo si vestono e combattono (quasi) allo stesso modo – Soprattutto se confrontati con i team supereroistici americani, come l’eterogenea Justice League. In quest’ottica, la soluzione di adattamento scelta dalla Saban non è poi così filosoficamente scorretta. Blue Ranger può essere Billy Cranston, può essere il suo equivalente giapponese, possiamo essere tutti noi. Forse ci hanno pensato, forse no.
Di sicuro c’e stata, e persiste ancora, l’occasione perduta di far conoscere una cultura lontana a nuove generazioni di appassionati. Come pure un guadagno ottimizzato grazie agli sponsor, più propensi a sostenere un prodotto dallo stile più digeribile nella mente dell’ipotetico, mai consultato, uomo della strada.

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