Poko ha visto, Poko ha sentito e per finire si è pure innamorato. Stimolato dalla simpatia fiabesca di un coniglio gigante, ha scelto quindi di mettere in musica tutto il suo profondo entusiasmo. E il sentimento di quel sensibile pappagallo, candida calopsitta, coinvolge e trascina gli animi di chi lo ascolta, mentre, appoggiato sulla pianola del suo padrone, lui riproduce alla perfezione il tema principale del film Tonari no Totoro, uno dei cartoni animati giapponesi più famosi al mondo. Tutta l’armonica composizione, l’ironia narrativa, lo stile delicato di un simile capolavoro sono stati ottimizzati per un pubblico umano, eppure in quel film c’era una chiarezza d’intenti e un messaggio di fondo che potrebbero dirsi, appropriatamente, eterei, fluttuanti; lo spirito della foresta non passava certo il suo tempo all’interno di un albero di canfora. Era molto più che un roditore orecchiuto col pancione da matrioska, immagine ulteriormente rafforzata dalle due versioni in scala che sempre lo accompagnavano, costituendo una sorta di bizzarra trinità pelosa. Ogni notte, da quella svettante casa vegetale si alzava in volo, grazie all’ombrello magico, in cerca di boccioli da far dischiudere e nodi gordiani da sciogliere, seguìto talvolta anche dal suo fedele gatto gigante, un mezzo-autobus assolutamente non convenzionale. Molti degli esseri pennuti di quei luoghi, sentito il suo ruggito, presa coscienza dell’aspetto del suo entourage, devono essere fuggiti in tali spaventevoli occasioni. E il pappagallo Poko, il pappagallo Poko? Totoro affonda le sue radici nel folklore tradizionale del popolo giapponese. I kami, le antiche divinità Shintō degli alberi, dei fiumi e delle grandi rocce non erano certo entità puramente buone; in perfetta coerenza con le credenze animiste di ogni altro paese del mondo, secondo il ricchissimo leggendario che li riguarda erano anzi caratterizzati da un grado variabile di malignità e avversione ai loro “vicini”, fossero questi persone, uccelli o altri animali. Imparando a conoscerli, tributandogli un giusto grado di rispetto, dagli occasionali incontri con tali esseri era possibile trarre un qualche tipo di giovamento. Vedendo il film 10, 100 volte, ascoltando pazientemente il suo padrone impegnato di continuo sugli sfuggenti tasti del pianoforte, guadagnandosi una conoscenza musicale davvero approfondita di quel particolare, indimenticabile brano, Poko ha di gran lunga acquisito i requisiti minimi per entrare nelle volubili grazie del coniglione. Lui, crestato volatile senza un pensiero al mondo, non chiamerà magari il nome del kami per farsi aiutare nel ritrovamento di una sorellina smarrita, imitando la protagonista umana della storia originale. Forse gli basterà il piacere di poter sentire l’adorabile melodia, ancora e ancora. Facendosi eco da solo (quasi) in eterno.
Creato dalla fervida immaginazione di Hayao Miyazaki come terzo film del suo pluripremiato Studio Ghibli, Tonari no Totoro (Il mio vicino Totoro) è una fiaba visualmente ineccepibile e del tutto priva di una vera progressione narrativa. Racconta dell’incontro accidentale fra due bambine di città, venute a vivere in campagna insieme al padre per stare vicino alla madre malata, e gli strani abitanti di un bosco magico, invisibili a tutti tranne che a loro. Rappresenta il momento in cui questo grande autore e disegnatore di manga, fra i primi giapponesi ad aver conseguito un successo internazionale, trova un filo conduttore nuovo, che esula dal convenzionale bildungsroman avventuroso, schema fondamentale alla base di tutte le sue creazioni precedenti. In questa particolare storia, così strana per noi occidentali, non c’è un eroe, un fine ultimo e nemmeno la coreografica risoluzione di un dramma personale, ma una serie di momenti surreali, rivelazioni insensate e scene catartiche prive di conseguenze davvero significative. Il film potrebbe descriversi come una versione alternativa di Alice nel paese delle meraviglie, senza il viaggio, gli antagonisti e con ben poche peripezie, in cui si da invece molto spazio ai personaggi e alle loro interazioni. Solamente apprezzandolo per quello che è veramente, la trionfale celebrazione di alcuni degli aspetti più inspiegabili della natura, lo spettatore potrà comprenderne davvero il messaggio di fondo. Totoro è un po’ ovunque, tutto intorno a noi.
Alcuni, ricercando un senso ulteriore nell’aspetto e nella storia dell’immortale coniglio, vi hanno individuato un simbolismo occulto, che si è inevitabilmente rafforzato negli anni. Secondo tale teoria, la creatura non sarebbe in realtà altro che un sinistro shinigami, dio della morte, con l’incarico di ghermire l’anima della madre malata al momento della sua dipartita, distraendo nel frattempo le due ingenue bambine; esistono, a tal fine, anche una ricca serie di illustrazioni, create da ogni tipo di fan e mai formalmente screditate. Il lieto fine del film sarebbe, quindi, una semplice illusione, come il velo posto di fronte ai sensi degli uomini secondo alcune filosofie indiane, poi mutuate dall’Estremo Oriente grazie all’influsso delle molte religioni di matrice Indù e Buddhista. Di questo, a Poko, non importa per niente. I pappagalli sanno vivere le gioie del momento, senza porsi eccessivi patémi, inutili per definizione.