La danza balinese delle scimmie in guerra

Baraka

Tutti conoscono la storia di Elena e del suo fatale rapimento, dovuto all’impaziente bramosia del principe Paride, colui che di nascosto la portò con se a Troia. Il suo gesto sconsiderato, dovuto in parte alle manipolazioni della dea Afrodite, portò grandi sventure e tremendi lutti a due fra i più importanti popoli del mondo antico. Eppure questa non fu la sola volta, né la prima, in cui un’intera guerra venne combattuta per l’amore di una donna. Nel corpus mitologico di un paese lontano si narra infatti di una battaglia epocale, la cui portata impressionante giunse a mettere a rischio l’esistenza stessa del pianeta, combattuta da due possenti semi-dei per il diritto di conquistare la personificazione terrena della dea Lakshmi, signora di tutto ciò che è bello e fortunato. Il nome di questa splendida fanciulla era Sita, e delle sue vicissitudini trattano i due più importanti poemi epici indiani: il Ramayana e il Mahabharata. Il momento culminante di tale appassionante vicenda rivive nello spettacolare rito del Kecak, la danza balinese delle scimmie in guerra. L’ammirazione di alcuni movimenti occidentali per le ritualità e l’estetica dell’Induismo, religone strettamente legata alla meditazione e all’apertura intellettuale, talvolta induce a tralasciare i suoi aspetti più conflittuali ed esuberanti. Proprio questi potrebbero invece, a mio parere, offrire una chiave di lettura estremamente affascinante per comprendere quei popoli che la vivono in prima persona. Approfondendo le origini di questa danza sciamanica dell’Indonesia, adattamento di un’antico rito segreto, s’intuisce la presenza di un filo conduttore che fa parte, ora più che mai, del subconscio collettivo e dell’arte popolare della società moderna. Scopriamolo insieme.

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La bella Sita, naturalmente, non era una donna come tutte le altre: secondo la tradizione, ella era comparsa improvvisamente, grazie all’intervento di uno spirito della terra, nel solco di un campo arato nel regno di Mithila, territorio del potente sovrano Janaka. Il re, colpito dalla sua incredibile bellezza, l’adottò. Passato del tempo, un giorno indisse un torneo per decidere chi l’avrebbe avuta in moglie. La prova da superare consisteva nel compiere un singolo gesto, che tuttavia sarebbe stato indicativo di una forza e di un carattere straordinario: tendere l’arco magico di Shiva, che era un astra, strumento distruttivo degli dei. Il vincitore fu Rama, l’eroe. Anch’egli, come la neo-consorte, era un avatar, rappresentazione terrena di un dio; nel suo caso si trattava dell’eterno Vishnu, architetto e misuratore dello spazio cosmico. La felicità degli sposi, tuttavia non durò a lungo. A causa dei conflitti nella corte di Janaka, i due dovettero recarsi in esilio nella foresta di Dandakaranya, lontano dagli agi del palazzo reale. Fu proprio allora che, mentre il marito era a caccia, Siva fu portata via dal re dell’odierno Sri Lanka, il terribile Ravana, principale antagonista del racconto.
Tale esimio rapitore, figlio di un saggio e di una principessa asura, per brama di potere aveva stretto un patto con Brahma, il supremo creatore. Al termine di tre anni di penitenza, secondo quanto concordato, aveva ricevuto in dono una goccia dell’elisir dell’immortalità, che risiedeva al di sotto del suo ombelico. Rama, non sapendo in principio come riprendersi la moglie, si rivolse a un suo caro amico, Hanuman, il fratello del re delle scimmie.

Maruti
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Egli chiese all’eroe di pazientare ancora qualche giorno. Si trasformò in gatto e, introdottosi di nascosto nel regno di Lanka, patria di Ravana, constatò in effetti che la bella Siva era prigioniera in quel luogo infausto. Preso prigioniero dai servitori del re malvagio, venne rinchiuso in attesa di ricevere la sua punizione. Per giorni e giorni, su precise istruzioni ricevute da Rama, cercò di convincere i suoi carcerieri a restituire l’amata del suo amico, evitando così inutili spargimenti di sangue. Nessuno lo ascoltò, e a un certo punto Ravana ordinò che la sua coda fosse bruciata. Ma Hanuman, lungi dal perdersi d’animo, usò il suo potere innato per allungarla a dismisura, si liberò e con tale fiammeggiante appendice gettò scompiglio e distruzione per tutta l’isola di Lanka, prima di fuggire e ritornare nella foresta di Dandakaranya, tramando vendetta. A questo punto, il fato di Ravana era segnato.
Il popolo delle scimmie, guidato da Rama sul suo carro magico, costruì un ponte di pietra che collegasse l’India allo Sri Lanka, superando l’oceano per rovesciare il regno di Ravana e riconquistare Sita. Il re stregone, con le sue armi arcane e i possenti mantra magici ricevuti da Brahma, si frappose tra gli invasori e l’ingresso del suo dominio, affiancato da schiere di demoni e creature sovrannaturali. La sua armatura era nera come la notte, e portava con se una mazza speciale che, una volta lanciata, tornava sempre nelle mani del proprietario. Avendo nel suo aspetto guerriero ben dieci paia di braccia, iniziò quindi a lanciare contro Rama centinaia di frecce, che tuttavia non sortirono alcun tipo di effetto. L’eroe divino, investito del potere del sole, con un sol colpo tagliò la testa di Ravana, la quale subito venne sostituita da un’altra uguale. La loro lotta epica, che si svolse in cielo, in mare e sulla terra, scosse le montagne e il potere sconfinato degli astra, le armi divine che utilizzavano, mise a rischio la sopravvivenza stessa del creato.

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Ogni volta che Rama tagliava la testa di Ravana, questa ricresceva come nuova, e l’avvicinarsi della notte causava una costante diminuzione dei suoi poteri. Infine, pronunciando una preghiera a tutti gli dei, l’eroe scagliò la sua arma finale, il Brahmastra, una sorta di freccia o giavellotto. Questa trapassò il ventre del nemico, colpendo il punto in cui era nascosta la sua goccia di nettare dell’immortalità, che subito evaporò, uccidendolo.
Nei libri successivi del Ramayana si narra di come Sita, sospettata dal consorte di aver ceduto alle tentazioni del defunto Ravana, dovette provare di essere ancora pura e casta, camminando sui carboni ardenti. Secondo la tradizione tailandese, questi si trasformarono in petali di loto. La coppia ebbe due figli, Kusha e Lava, ma in vecchiaia lei venne abbandonata dal marito e fece ritorno da colei che l’aveva generata, la grande Madre Terra. L’aiuto che ricevette nel momento del bisogno dai guerrieri del popolo delle scimmie viene celebrato, ancora oggi, nella danza scenografica dell’isola di Bali.

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