La carta è un materiale che facilmente trae in inganno l’intelletto umano. Bianca come marmo, opaca oppure lucida, suggerisce un senso di fondamentale impermanenza. Poiché leggera, sembra delicata, effimera. Nell’uso quotidiano, si strappa e rovina facilmente, oppure si macchia e finisce per perdere ogni utilità. Statue di marmo e bronzo, nate dall’opera di antichi artisti, sono giunte a noi attraverso secoli di polvere e maltrattamenti; mai, fino ad ora, qualcuno aveva scelto d’infondere la sua sapienza scultorea nella mera carta. Li Hongbo, ispirandosi alla struttura a nido d’ape di un certo tipo di lanterne cinesi, quelle dette “a zucca”, spesso usate nelle feste dei bambini, incolla l’un sull’altro queste migliaia di fogli, per poi cesellarli e limarli con una fresetta elettrica, riuscendo così, dopo mesi di lavoro, a ritrarre un qualche tipo di soggetto. Quindi, nel momento della verità, basta un colpetto per compromettere il preciso baricentro di una di tali creazioni, causandone l’inarrestabile dispiegamento vermiforme. Ma una volta rimessa in ordine la strana molla slinky in cellulosa, tutto torna come prima. Fluidità delle forme non sempre significa disfacimento, anzi talvolta crea diverse chiavi d’interpretazione. Queste teste allungabili, serpentine, nascondono l’abilità di cambiare aspetto da un momento all’altro. Proprio come gli esseri fantasmagorici di un racconto surreale.
Li Hongbo è stato per molti anni un editore, acquisendo così quel fascino per la carta che avrebbe caratterizzato il suo lavoro di artista. Le sue sculture, fondamentalmente, possono essere di due tipi: metaforiche o puramente decorative. Nel primo caso lui crea una forma d’illusione, tattile e visuale. Ad esempio un ceppo di legno, assolutamente realistico per forma e colorazione, una volta preso in mano rivela d’un tratto il suo vero aspetto, quello di una sorta di fisarmonica, incontro concettuale fra il principio generativo della materia vegetale e la sua cartacea conseguenza, frutto dell’industria. In alternativa, Li Hongbo persegue un diverso canone di bellezza, più assoluto e meno soggettivo. Quello del neoclassicismo figurativo. Ricordando le statue marmoree del mondo antico, i suoi soggetti antropomorfi vantano le perfette proporzioni degli eroi o delle divinità, visivamente impeccabili e immutabili. Finché non ci si avvicini, per toccarle. Allora diventano qualcos’altro, di assai più aperto a libere interpretazioni. Spettri oppure alieni, creature fluide e ritagliate nella carta, come gli spiriti sovrannaturali evocati, secondo la tradizione che nasce da un gioco di parole, dagli onmyoji, stregoni giapponesi.
Stando al racconto dell’autore, ciò che rende le sue mostre davvero memorabili è l’invito alla diretta partecipazione. Nel corso della più recente di esse, tenutasi presso la Dominik Mersch Gallery di Sydney, alcuni visitatori si sono potuti applicare nell’attività del fare e disfare, allungando e comprimendo a piacimento le sue opere. Un simile invito alla manipolazione suggerisce una solidità strutturale superiore all’apparenza, magari persino vicina a quella di un’opera scultorea che sia stata fatta in materiali tradizionali. Dopo tutto, avete mai provato a strappare un elenco del telefono? Difficile farlo per errore.
In futuro, con la progressiva propagazione degli strumenti digitali, molti alberi si salveranno dall’essere trasformati nelle cartiere in materiale per libri, giornali e documenti. Ben venga, dunque, l’uso da parte di un artista come questo, che ha il merito innegabile di stimolare la nostra fantasia.