In principio era il torneo di arti marziali. Ryu e Ken, lottatori degli anni ’90 alla ricerca dello shotokan definitivo, viaggiavano per il mondo, allo scopo di mettere alla prova la loro possanza e maestria guerriera. Sei bottoni colorati, un grosso joystick e il tipico monitor interlacciato dalle vistose barre nere orizzontali. A quei tempi, non tutti i videogame richiedevano un racconto epico. C’erano, si, Final Fantasy, Dragon Quest… Esistevano molte delle grandi saghe che ancora si affollano, un seguito dopo l’altro, dentro alle attuali console portatili e casalinghe. Ma insieme a loro, dominando il tempo libero e la fantasia degli appassionati, svettavano i ponderosi coin-op, versatili macchine d’intrattenimento elettroniche, disposte ordinatamente lungo le candide pareti delle sale giochi e dei bar. L’unico Anello, creazione tolkeniana, era poco conosciuto allora, appannaggio di bibliofili e lettori di fantasy che si applicassero agli autori più impegnativi; eppure il metallo brillante, in quell’epoca lontana, aveva già un suo potere. Purché si presentasse nella forma di un particolare, miracoloso manufatto: il gettone da 200 lire. Quel dischetto lucido, equivalente al costo di una telefonata, da cui scaturivano interi mondi paralleli, privilegiate vie di fuga dal grigiore quotidiano. Così, noi combattevamo. Tra le pagode inclinate dell’iconico fondale giapponese, scagliavamo i nostri hadouken verso il cielo. Per le affollate strade di un mercato cinese, pieno di ciclisti e galline, bloccavamo i calci fiammeggianti di Chun-Li. Sotto il sole rosso della Tailandia, di fronte al Buddha disteso del tempio di Wat Pho, il nostro Blanka frapponeva il suo flusso elettrico al tuono del pugno della Tigre, lo sfregiato re orbo del kickboxing. Poi, un giorno, in occasione dell’ennesimo remake, comparve lui: Akuma, il grande demone.
Nessuno conosce la verità sul guerriero sovrannaturale un tempo noto come Gouki. Capelli rossi più appuntiti della forca di Poseidone, raccolti in alto su di un ciuffo sbarazzino. Rosario buddista con perle colossali. Sulla schiena, il kanji fiammeggiante TEN (cielo), simbolo divino del potere. Lineamenti da guardiano del Dharma, che non sfigurerebbero su di un kongorikishi posto all’ingresso di un grande tempio a Kyoto. La pelle scura da ganguro, il marchio che accomuna certi giovani ribelli giapponesi, patiti delle lampade a ultravioletti. Un eroe maligno teletrasportante, roteante, fiamma-palleggiante, in grado di afferrare l’avversario e spegnere le luci della scena, andando in quel momento oltre il limite della quarta parete ludica; d’un tratto, non si combatteva più nei panni di Ryu, Ken, o un qualche altro ammasso di pixel rasterizzati. C’eravamo solo noi e lui, il Boss finale. Manovrato dai creatori del gioco, attraverso lo strumento asincrono dell’intelligenza artificiale.
Tutti i videogame tradizionali, in un certo senso, non sono che una sfida tra il creatore e il giocatore. Più questa risulta diretta, sofferta e coinvolgente, migliore risulta la qualità dello scambio effettuato. Solo dalle sconfitte può nascere un senso spontaneo di autoperfezionamento, trasformando la simulazione, fine a se stessa, in un’esperienza davvero significativa. Una partita in cui niente è certo, che arricchisca soltanto chi riesce a portarla fino in fondo. O almeno, così era un tempo, quando c’era una visione artistica che fosse anche dotata di capacità decisionale. Oggi il videogioco è un prodotto d’intrattenimento come gli altri, una sorta di film in cui ti chiedono di premere a ritmo qualche tasto. Nei giochi moderni non puoi fallire un confronto, perché ci si aspetta sempre che tu veda tutti i contenuti. In fondo, li hai pagati. Sono tuoi, prendili. Ti sono piaciuti? Allora compra il DLC, ci sono altri costumi, nuove mappe, straordinarie missioni.
Il gettone, con il suo valore trascurabile, costituiva una scommessa. In 10-15 minuti potevi ottenere tutto e subito…oppure, come spesso capitava, quasi niente. La prima, la seconda e la terza volta. Finché un giorno…