Se voi foste sperduti nello scenario di una giungla tropicale ostile, appesantiti e accaldati dall’inutile armatura e un grosso fucile a miccia, trovereste conforto nel canto familiare e innocuo degli uccelli. Imponendo lavori forzati ingiusti, rispedendo oltre oceano le ricchezze sottratte con la forza ai popoli del Nuovo Mondo, forse vi ritrovereste abituati a pensare che si, c’è anche del buono in ciò che fate: la liberazione degli indigeni dal potere altrui di vita o di morte, impugnato con villanìa dalla temuta casta sacerdotale azteca, vostra nemica. Il salvataggio di anime immortali, destinate al paradiso unicamente grazie al vostro intervento… Nel corso di una dura giornata di marcia, sudati e stanchi, l’elmo lucente delle armerie di Toledo abbandonato a chilometri di distanza, udendo il verso degli uccelli ripensereste forse a casa vostra, nella distante Europa. E in quel momento di tranquillità, d’improvviso, calerebbe il silenzio. Un potenziale segno di pericolo, magari dell’avvicinarsi di qualcuno. O qualcosa. Poi, il battere distante di tamburi, selvaggi. Colti dal panico, o piuttosto concentrati nella fredda efficienza data dall’addestramento, portereste la mano in prossimità della borsa di polvere da sparo, affrettandovi a caricare il micidiale pallino levigato in piombo. Finché nel buio oltre il fitto sottobosco, i rappresentanti più pericolosi della società dei guerrieri giaguaro, gli ocelomeh, messa per un attimo da parte la cerbottana avvelenata, userebbero a quel punto il più terribile degli strumenti psicologici: il suono. Dando fiato al teschio di argilla, per spalancare su di voi una porta dell’Inferno…
Per i conquistadores spagnoli di Hernán Cortés, agenti di un potentato senza scrupoli, la sanguinosa presa dell’Impero Azteco non dev’essere stata un gioco da ragazzi. Esploratori, soldati e missionari impegnati negli anni tra il 1519 e il 1521 tra le impervie giungle mesoamericane, furono la causa più o meno diretta di innumerevoli massacri e spargimenti di sangue. Le loro campagne militari, le molte battaglie combattute e la fragile alleanza con il sovrano Montezuma, che li riteneva inviati del dio del cielo Quetzalcoatl, culminarono con l’esecrabile saccheggio e distruzione di un’antica città, la splendida Tenochtitlán, capitale di un impero. Ma il peggio doveva ancora venire: un numero persino maggiore di vittime infatti, come è noto, fu causato dall’importazione di vaiolo e tubercolosi, malattie tanto più pericolose quando contratte in assenza dei giusti anticorpi.
Dalla commistione di popoli seguita a questi fatti, di per sé un evento potenzialmente positivo, scaturì poi l’identità culturale delle cosiddette genti creole, destinate un giorno a ribellarsi ai loro governatori della Nuova Spagna, giungendo, nel lontano 1821, alla fondazione dello stato del Messico. Tutto questo, ovviamente, non poteva essere noto a un semplice soldato della spedizione di Cortés o agli esponenti della casta militare azteca, gli ocelomeh; di certo, non tutti fra loro erano avventurieri, guardie assassine o ferventi salvatori dei dannati. Persino i momenti più difficili della Storia hanno, loro malgrado, usanze o gestualità degne di essere ricordate.
Come fatto, in questo caso, da Xavier Quijas Yxayotl, discendente del popolo azteco e musicista archeologico sperimentale. Il suo flauto più impressionante, oggetto principale di questo post, veniva impiegato in occasione dei riti funebri della classe dirigente o sacerdotale, per rendere omaggio al dio cannibale della morte Mictlantecutli. Ma faceva anche parte, insieme ai tamburi, dell’attrezzatura usata in guerra per suscitare terrore in un nemico impreparato. Colti di sorpresa, circondati da dozzine di tali grida gutturali e degne della più raggelante oltretomba, voi, che avreste fatto?