La scienza della bolla e l’inflessibile lancetta che misura la forza della farina

È chiara conclusione inconfutabile a cui si giunge grazie al metodo scientifico, il fatto che all’assoluta perfezione dei metodi non corrisponda sempre o necessariamente lo stesso identico risultato. Il che complica notevolmente ogni processo della produzione seriale, qualsiasi sia il campo in cui si scelga d’investire il proprio tempo, risorse o reputazione. Così gli insigni forni artigianali, residenze dei più celebri e stimati panificatori, ebbero molti anni per riuscire a rassegnarsi che la fornitura di un grano piuttosto che un altro, potesse influire sulla qualità del prodotto finale. Il che oggigiorno, come molti altri comparabili fattori, offre un margine d’errore molto meno significativo. Questione inerente causa l’avvenuta trasformazione del “cliente” in “consumatore” che popola la sua dispensa tramite l’investimento nei confronti di particolari marchi di matrice prevalentemente industriale. Lo stesso concetto di marketing, in quanto tale, prevede l’ardua ripetibilità delle condizioni gastronomiche, poiché altrimenti come risulterebbe mai possibile comunicare le qualità di un prodotto, piuttosto che un altro?
La risposta a questa percepita esigenza tipica dei nostri giorni giunse dunque per la prima volta nel 1920, grazie agli esperimenti del consulente ingegneristico per i Grands Moulins de Paris-Bordeaux-Lille, Marcel Chopin. Creatore di sistemi rapidi per la cottura del pane prodotto su larga scala, ma anche e soprattutto di uno strumento matematicamente esatto noto in prima battuta come l’extensimètre, poiché basato sul concetto di sottoporre ad una prova di resistenza delle quantità esatte d’impasto lievitato, al fine di poterne misurare le caratteristiche di fondo. Mediante un approccio metodico particolarmente preciso, che avrebbe portato al successivo perfezionamento e conseguente commercializzazione della macchina destinata a diventare celebre col nome di alveografo di Chopin. Dal latino alveus, un “vuoto/cavità” ed il greco γράφος, suffisso che deriva dal verbo “scrittura”, proprio in riferimento alla bolla prodotta dal marchingegno all’apice del suo processo di misurazione. Che nei decenni successivi si sarebbe imposto come standard dell’industria al punto che oggi nella maggior parte dei paesi industrializzati è diventato assolutamente normale includere i valori risultanti da tale verifica sulla confezione delle farine presenti in commercio, se non addirittura in fogli informativi abbinati a pane, pizza pronta, dolci venduti al supermercato. Con conseguenze nel complesso positive per la consapevolezza della collettività ma anche qualche problematico e vigente fraintendimento. Che potrebbe aver condotto, in base all’opinione di alcuni, ad un appiattimento sostanziale delle proposte disponibili in commercio…

Osservare l’utilizzatore dell’alveografo mentre implementa la procedura indicata sui manuali del macchinario è un’attività piuttosto affascinante e non priva di una qualità ipnotica latente. Questo perché come in ogni altra tipologia di prova empirica, o versione sostanziale di un esperimento, ogni gesto deve risultare netto e sicuro, come in una danza. Ma dopo un periodo di cento anni, sussiste anche l’intangibile ritualità di un approccio tradizionale, non così diverso in linea di principio dai processi della vecchia alchimia. L’addetto al processo in un’isola silenziosa dell’opificio si appropinqua dunque al simbolo metallico del suo mistero, una vera e propria piccola concatenazione di postazioni che ricorda in modo obliquo la produzione tecnologica industrializzata in quanto tale. Ove in modo alquanto prevedibile, comincia preparando una certa quantità d’impasto con farina ed acqua dello stesso identico tipo impiegato dagli altri colleghi della compagnia. Una quantità esatta del prodotto risultante viene quindi immessa nel forno di cottura dalla taratura esatta e certificata, affinché nessun fattore esterno incontrollabile possa riuscire ad influenzare il risultato finale. Nelle versioni più moderne del sistema, l’operatore a questo punto estrae cinque palline della sua miscela, che provvederà a spianare tramite l’inclusa guida fornita di mattarello. Saranno dunque quest’ultime, in rapida sequenza, ad essere inserite nella gabbia sigillata al termine del saliente ugello, ove sottoposte a una pressione sempre equivalente, verranno trasformate nella versione inanimata di un pesce palla o la risultanza fumettistica di coloro che soffiano all’interno di un chewing-gum. Una palla splendida, lucente, dall’involucro sottile e che proprio in funzione di quest’ultimo aspetto, andrà sempre incontro allo stesso epilogo senza possibilità scampo: scoppiare con un sonoro quanto soddisfacente POP. Ma non prima di aver permesso la registrazione, tramite il suo tempo di resistenza e la conseguente dimensione raggiunta, di una serie di dati che costituiscono l’indubitabile raison d’être dell’intera procedura fin qui descritta.
Il grafico prodotto dal sistema computerizzato della macchina, che una volta era tracciato direttamente dall’operatore sulla base di un sistema meramente numerico, contiene dunque una serie di voci che risulteranno familiari a chiunque abbia studiato la reologia, ovvero la scienza che studia le modifiche indotte nella materia a seguito e per l’effetto di sollecitazioni esterne. Stiamo qui parlando del valore P – indice della tenacità dell’impasto; L – la sua estensibilità o porosità; G – la facilità con cui si rompe la bolla una volta raggiunte le dimensioni massime. Ed il risultato considerato immancabilmente più importante della W, misurazione della forza necessaria per far gonfiare la bolla che viene tanto spesso impropriamente definita come “forza” della farina. Il che risulta erroneo soprattutto in termini scientifici in quanto si tratta della misurazione di un quantum energetico, piuttosto che le qualità inerenti di un materiale. Ma porta anche all’idea diffusa che farine con una W più alta siano inerentemente migliori o sempre maggiormente desiderabili, laddove la realtà dei fatti è che l’alveografo serve proprio a definirne l’applicabilità variabile sulla base dei diversi contesti. Le farine di cosiddette deboli, ad esempio, sono considerate idonee per la produzione di cracker e biscotti. Mentre quelle medie (W tra 160 e 250) risultano adatte a pane morbido o la creazione di prodotti a breve lievitazione, quali pizze e focacce. Laddove al di sopra del valore 250 troviamo baguette, rosette ed altri pani dalla consistenza più resistente. Finché oltre il 310, entriamo nel reame fortificato dei grandi dolci lievitati, quali panettone, colomba, brioches, croassant.

Comprendere che ogni tipo di farina ha il suo impiego è nella maggior parte dei casi un passaggio semplice per i professionisti. Non così, o necessariamente, per coloro che comprano il prodotto per finalità casalinghe o l’implementazione di un hobby culinario occasionale. Il che ha portato, paradossalmente, ad una minore disponibilità delle aziende a rendere universalmente noto il valore W dei propri prodotti, ad esempio in luoghi come la Germania, dove a quanto pare la prevalenza di farine meno “forti” tendeva ad essere vista negativamente dagli acquirenti dei prodotti locali. Che è una contraddizione in termini tra le più indesiderabili, poiché la natura stessa del cibo che consumiamo ogni giorno non dovrebbe forse essere il più possibile salutare, genuina, a basso impatto carbonifero in termini di processazione e commercializzazione su larga scala? Tutti aspetti non più tanto automatici nella moderna società industrializzata. Tutte ragioni per cui, nello specifico, troviamo la necessità di ricorrere a misurazioni esatte e l’impiego informato dei macchinari.

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