Nell’estenuante pratica e la dura impresa personale del Cammino di Compostela, i pellegrini che si dirigevano a Santiago erano soliti imprimere nella mente due importanti cose a cui prestare occhio: le chiese più importanti dove fermarsi a pregare ed omaggiare il Signore, assieme ai punti di riferimento paesaggistici, letterali fari sul percorso dei moltissimi chilometri che ancora si ostinavano a separarli dalla loro ultima meta. Soltanto in un punto, nella parte meridionale della Francia, tali aspetti convergevano in un singolo massiccio elemento, l’imponente corona cittadina del borgo di Aiguilhe, destinato diventare in seguito una zona periferica della cittadina di Puy-en-Velay. Da un numero abbastanza elevato di chilometri, semplicemente una roccia, l’elemento paesaggistico che doveva sembrare al tempo evocare, ed in qualche modo anticipare l’ombra svettante dei Pirenei. Ma che all’avvicinamento prospettico del punto di vista, gradualmente si sarebbe dimostrato custodire sulla cima non un imprendibile castello, né un semplice monumento statuario; bensì l’affascinante e inconfondibile profilo di una chiesa romanica con tanto di campanile. Saint-Michel d’Aiguilhe, probabilmente tra i luoghi di culto più caratteristici di tutta Europa. Ed un legittimo pretesto per indurre la domanda su quanti fedeli, nelle zone limitrofe, fossero effettivamente inclini a risalire ogni domenica i 268 scalini per 82 metri d’altitudine, necessari a raggiungere questa notevole e quasi altrettanto remota casa di Dio. Le cui fondamenta furono sostanzialmente edificate, sul sito di quello che probabilmente costituiva un santuario antico romano dedicato al Dio Mercurio, in corrispondenza della sommità di questa monade basaltica palagonizzata, creata da processi geologici a 40-200 metri sotto il livello di un mare interno risalente a prima dell’ultima glaciazione. Al termine di una lunga trafila geologica, che in un certo caso trova un’ottima continuazione nel corrente eone dell’Antropocene, grazie alla mano abile e l’estro creativo dell’uomo.
Difficile negare, a tal proposito, i molti elementi di fascino presenti nel singolare edificio, il cui completamento in una forma non ancora completa viene collocato cronologicamente nel 969, poco dopo quando, secondo la leggenda, un canonico della vicina cattedrale di Puy aveva implorato l’Arcangelo Michele di curare la grave epidemia di peste che aveva colpito la regione. Ottenendo un successo tale, per l’intercessione dei poteri celesti, da decidere di costruire una piccola cappella rettangolare con tre absidi proprio sopra quella pietra che vedeva ogni giorno in modo vicendevole, dall’edificio che costituiva il proprio luogo di lavoro. Un’idea tanto apprezzata e affascinante, per la gente del suo gregge e i superiori ecclesiastici, tanto che già nel corso dello stesso secolo si decise alla Diocesi di procedere all’ampiamento…
Non indicano le cronache in maniera esatta chi fu, e con quali risorse, a mettere in atto la costruzione di questa terza e forse lievemente meno celebre St. Michael (rispetto alle due situate sulla costa della Manica, dal lato bretone e quello delle Isole Inglesi) sfruttando tutti i più elaborati accorgimenti dello stile romanico del tempo, sebbene su una scala ragionevolmente condizionata dalla posizione certamente insolita, piuttosto irraggiungibile dell’edificio. Ad ogni modo e con una serie di elementi incorporati vicendevolmente, attraverso cui è possibile notare l’impiego di pietre dalla colorazione differente nelle epoche successive, la chiesa fu dapprima fornita di una casa adiacente che servisse da residenza per il prete, successivamente connessa tramite l’apertura ed integrazione della parete sud in un singolo, più vasto complesso. L’aggiunta del campanile risale invece, per quanto ci è dato comprendere, all’XI secolo come anche esemplificato dallo stile ad archi sovrapposti, che voleva riprendere quello tipicamente rappresentativo della sottostante cattedrale di Puy. Dal punto di vista artistico dunque, come precedentemente accennato, la chiesa costituisce un piccolo capolavoro che sceglieva di riprendere, in modo alquanto inaspettato, lo stile moresco della Spagna dove i pellegrini erano diretti, in modo particolare nella costruzione della facciata, finemente ornata al pari di quella di una vera e propria basilica dei suoi giorni. Con un notevole arco trilobato sormontato da pietre policrome, con all’interno dei bassorilievi raffiguranti scene pastorali e nel centro, l’agnello pasquale. Ciò mentre una fascia, anch’essa sormontata da un bassorilievo che vuole ricordare una serie di volte, ospitava i ritratti di Cristo, la Vergine, San Giovanni, San Pietro ed ovviamente, l’Arcangelo Michele a cui era stata dedicata la chiesa. Una volta fatto il proprio ingresso nella navata principale, dunque, non si può fare a meno di restare colpiti dal tripudio di colonne in un ambiente dall’aspetto scaltro ed austero, quasi una continuazione naturale della dura roccia sottostante. Un possibile richiamo, forse intenzionale, alle grotte che un tempo ospitavano i pellegrini intenzionati a sostare una notte prima di procedere verso la remota Santiago di Compostela. Eppure queste pareti, che per lungo tempo successivamente al Rinascimento presentarono soltanto la finta facciata di un’intonaco incupito e privo di decorazioni, avrebbero finalmente rivelato la loro verità nascosta nel famoso restauro del 1838 ad opera del pittore Anatole Dauvergne, che ricostruendo anche in parte i disegni rovinati, avrebbe reso nuovamente visibili le creazioni di epoca tardo medievali raffiguranti vari episodi biblici in cui figurava l’intercessione dell’Arcangelo e immagini di alcuni dei santi più famosi della Cristianità. Ancor più recente, del 1955, sarebbe stata invece la scoperta di un notevole tesoro in paramenti, reliquie ed accessori sacri per la messa chiusi in uno scomparto segreto dell’altare, inclusivi di una croce d’oro pettorale, un Cristo policromo di legno e vari tessuti all’interno di una coppia di bauli.
Luoghi elevati come questo, che avvicinano letteralmente il punto di vista dei fedeli all’occhio scrutatore che supervisiona ed accompagna le alterne vicissitudini delle moltitudini, furono da sempre giudicati utili ad accrescere quel senso di suprema meraviglia, che in molteplici circostanze può dar vita e generare l’atto inconfutabile della Vera Fede. Uno stato certamente desiderabile per chi, a partire dall’epoca medievale, osava porsi come fine ultimo il raggiungimento di un luogo posto nell’estremità ulteriore di un continente. Quella stessa penisola iberica, dove i lunghi secoli del sincretismo avevano portato a credere, per qualche ingenua generazione, che matrici culturali e religioni contrapposte fossero capaci di occupare al tempo stesso un singolo territorio. Prima che la follia dell’uomo, tutt’altro che divina, portasse al ripetersi di quelle situazioni e problematiche che ancora oggi conosciamo anche troppo drammaticamente, fino alla radice dei più infinitesimali dettagli. Nella paziente ed essenzialmente interminabile attesa che le cose cambino, quaggiù.