Ci sono molti modi per interrogarsi su cosa sia, effettivamente, il tempo. Il calcolo matematico, la meditazione, l’introspezione dell’ego, la religione. Ma è sorprendente quanto poco possa essere stato impiegato, in quel particolare campo dello scibile, lo strumento dell’ironia. Poiché se un qualcosa sfugge alla portata del cervello umano, ciò non deve necessariamente voler dire che l’assurdo esuli dal campo cognitivo del suo contesto di pertinenza. “Per assurdo” molte valide teorie hanno ricevuto l’attenzione delle moltitudini. “Per assurdo” nascono, crescono ed infine crollano gli Imperi. O tutti quelle valide strutture funzionali, intorno a cui la società si è ritrovata a modellare il ritmo e i metodi della vita contemporanea. E che tiranno più terribile, al conteggio delle attuali alternative, può essere individuato rispetto a ciò che non può essere in alcun modo rallentato o messo da parte, ma soltanto impiegato, investito verso l’infinita moltitudine di alternative, tanto spesso in grado di sembrare Tutte Sbagliate… Perciò ai frettolosi passanti o visitatori del verdeggiante cortile del Centro per le Arti Visuali del MIT di Cambridge, Massachusetts, come già in precedenza presso Central Park a New York, e successivamente in un museo di Hong Kong, la creatrice di sublimi circostanze Alicja Kwade dimostrava sei anni fa un’importante teoria. Il tempo, come ogni altra cosa di cui sia possibile discutere a parole, non è altro che la percezione che noi abbiamo di esso, una complessa architettura dell’etere, in buona parte frutto delle imposizioni della società vigente. Poiché guardate la sua opera pubblica Against the Run, configurata come il tipico orologio stradale, un meccanismo sopra il palo tradizionalmente offerto dalle amministrazioni cittadine o i responsabili delle stazioni all’inizio del secolo scorso. Qui proposto in una versione degna di quell’altra Alice nel Paese delle Meraviglie, in cui piuttosto che lasciar ruotare le proprie lancette, era l’intero quadrante a farlo, seguendo il ritmo dell’instancabile indicatore dei secondi. Visione… Insolita, e a dire il vero anche un po’ sottilmente inquietante, benché l’apparato continuasse a funzionare in fin dei conti in modo totalmente utilizzabile. Richiedendo al massimo, per una lettura confortevole, l’inclinazione della testa da un lato.
È il tipo di guerriglia artistica che tanto bene si adatta all’arte post-moderna, in cui le condizioni di spontaneità interpretativa costituiscono tanto frequentemente un punto di partenza desiderabile, per tentare d’interpretare in senso universale le intenzioni dell’autore. E che in modo rilevante ritroviamo in più frangenti nelle opere pregresse della Kwade, che includono molteplici versioni, alcune più grandi, altre da installare a muro nelle abitazioni, di quell’opera capace di sollevare più di un reiterato polverone virale online. Giacché il suo fine produttivo, così efficacemente perseguito, è sempre stato quello di stupire e coinvolgere coloro che non hanno la tipica forma mentis di un critico d’arte. Offrendo una via d’accesso semplice, liberamente interpretabile, persino minimalista, ad alcuni dei misteri più complessi e contro-intuitivi che chiariscono la nostra esatta posizione nell’Universo…
I lavori maggiormente caratterizzanti della prolifica Alicja Kwade, nata a Katowice nel 1979 e residente a Berlino dal raggiungimento della sua maturità professionale, possono essere complessivamente categorizzati nel tipo d’ingombranti installazioni capaci di occupare intere sale di mostre o musei, piuttosto che coinvolgere direttamente chi si trova ad occupare determinati volumi architettonici, con consapevolezza variabile di aver appena fatto il proprio ingresso in un piccolo mondo costruito sulla base di un’idea precisa. Dove ogni cosa succede per una ragione attentamente deterministica, incluse forze primordiali come lo scorrere dei minuti e la gravità. In una creazione memorabile del 2023, intitolata “Un anno e 95 giorni perduti” l’artista visualizzava a parete l’intero scorrere delle ore di 365 giorni, mediante una serie di lancette collocate all’interno di una cornice. Il loro susseguirsi, ordinato e prevedibile, finiva in questo modo per assomigliare alla rappresentazione di un’onda sonora, trasferimento nello spazio visuale di una percezione appartenente ad un diverso ambito sensoriale. In modo analogo a quanto fatto per anni, nello schema delle proporzioni fisiche, nella sua serie cosiddetta delle sfere celesti, consistente nell’impiego di ponderose geometrie, generalmente realizzate in marmo, in contesti o situazioni tali da poter evocare l’ardua consapevolezza della nostra posizione all’interno della danza cosmica dei corpi astrali. “Viviamo la nostra intera esistenza in equilibrio su una sfera rotante” lei ama ripetere nelle interviste: “In che modo è possibile venire a patti con questa idea?” Allorché ad esempio in Pars pro Toto (2018) realizzato per la biennale di Helsinki, sette globi provenienti dai diversi continenti venivano posti in prossimità di una scogliera, corrispondendo in linea di principio ad altrettanti pianeti ed altri corpi del Sistema Solare. Benché i marmi scelti non sembrassero riconducibili all’aspetto o colorazione specifici di luoghi come Marte, Plutone o Giove. In altri casi, la sua scelta sembra diventare ancor più simbolica, scegliendo al posto di elementi tondeggianti delle mere pietre prodotte dalla natura, sospese in fantastici astrolabi (Rocking, 2021) o complicate strutture in equilibrio apparentemente precario (MatterMotion, 2020). Ricorrente è anche il tema e l’utilizzo degli specchi, utilizzati al fine di alterare la modalità d’interfacciarsi nelle sue opere, come nella celebre opera WeltenLinie del 2020, commissionata per la triennale della Galleria Nazionale di Victoria, in Australia, in cui un labirinto di pareti riflettenti chiamava il fruitore a interfacciarsi, volta per volta, con diversi oggetti tipicamente facenti parte del metodo espressivo dell’artista: macigni, sfere, colonne… Ogni volta mentre la propria stessa immagine sembrava, nel contempo, osservare un oggetto diverso. “Sono una grande fan di Houdini” aggiunge spesso al dialogo la Kwade, che in altri casi ha posto rocce innanzi alla loro fedele ricostruzione in metallo, con una superficie specchiante in mezzo, affinché guardandole potessero sembrare a volte reali, in altre del tutto fittizie ed artificiali. Il che ci porta alla tematica forse più personale ed intuitiva di questa eclettica autrice…
Risale al 2001 un gesto, alle origini della sua carriera, in cui trovando su un giornale la foto di una modella inquadrata da dietro, scorse un’impressionante somiglianza a se medesima. Al che, inviata l’immagine alla sua stessa madre, ricevette il semplice commento “Sei venuta molto bene, l’ha scattata un professionista?” Il che avrebbe suscitato in lei l’ancestrale domanda di cosa sia essenzialmente l’identità, in che modo possiamo essere sicuri di essere ciò che siamo, quando diverse persone possono percepire la nostra esistenza in modo diverso e tanto spesso, addirittura, contrastante. Molti anni dopo, nel 2021, avrebbe percorso fino alle più estreme conseguenze tale prospettiva, con il suo Selbstportrait (Autoritratto), una collezione di 24 fialette disposte in cerchio, ciascuna contenente uno degli elementi basilari della tavola periodica, facenti parte di questa struttura pulsante che siamo soliti chiamare “corpo umano”. Un’idea che potrebbe costituire, una volta messa in relazione con l’opera di apertura a questo articolo, anche la risposta tanto a lungo ricercata dai filosofi e scienziati del mondo. Noi Siamo, assai semplicemente, quell’agglomerato di sostanze che percepisce e definisce il Tempo. Può invertirlo, addirittura. Ma non fermarlo. Davvero niente male, come punto d’arrivo per quello che poteva sembrare uno semplice scherzo surrealista a spese dell’intransigente, dolorosamente frettolosa popolazione del contesto urbano.