Credere in qualcosa d’invisibile, l’essenziale fondamento di ogni religione antica o moderna, non deve necessariamente costituire un approccio alla vita ansioso ed euforico, in cui ogni sessione di preghiera costituisce anche un profondo attimo di pentimento e riconsiderazione del proprio schema di valori eminenti. Nel corso della storia umana, sono esistiti culti fondati sul vino, il divertimento, l’estasi, il gioco d’azzardo. Nel periodo pregresso dell’Era Contemporanea, si è persino palesato un “Dio” che traeva le sue origini dal consumismo. Era l’inverno del 1908 in effetti, quando una serie di riviste statunitensi tra cui Ladies’ Home Journal ed il St. Louis Post-Dispatch inclusero tra le proprie pagine le illustrazioni pubblicitarie di un nuovo fenomeno destinato a impressionare la Nazione. L’illustratrice ed insegnante d’arte Florence Pretz di Kansas City (MO) aveva a tal proposito recentemente pubblicato, in collaborazione con l’amica poetessa canadese Sarah Hamilton Birchall, la sua particolare concezione di un personaggio fantastico accattivante per il pubblico, ispirandosi liberamente ad un lavoro letterario del poeta laureato Bliss Carman. Il cui appellativo Billiken, a lungo giudicato un mero gioco linguistico, derivava dal componimento in versi “Mr. Moon, una canzone per il piccolo popolo” facente parte della raccolta del 1894, Vagabondia. Un susseguirsi di momenti sincopati in cui creature della natura e del bosco attendevano il sorgere dell’astro notturno, rigorosamente privo di alcun tipo di descrizione al di là di quella meramente fonetica di varie tipologie di elfi e gnomi dei nostri tempi. Per dare una forma alla sua particolare idea di un personaggio memorabile, la Pretz attinse dunque al proprio repertorio fantastico, che la vedeva ormai da decadi profondamente appassionata del Giappone e l’intero Estremo Oriente. Dal che nacque il singolare personaggio bambinesco e grassoccio, gli occhi a mandorla, le orecchie a punta, calvo e con la testa appuntita, seduto come Buddha in meditazione ma con i piedoni tenuti perpendicolarmente al suolo, davanti al corpo. Le potenzialità per il merchandising erano notevoli e con l’avvicinarsi della stagione natalizia, diverse compagnie produttrici di giocattoli chiesero ed ottennero la licenza di produrne bambolotti e figurine di varie grandezze. Non è chiaro a questo punto a chi venne l’idea, se alla stessa creatrice o ad altri, di connotare il Billiken come figura portafortuna, mediante la riuscita formula “Il Dio delle cose come dovrebbero essere” in un’epoca in cui la cultura dell’armonia tra mente e corpo, assieme alla ritrovata fiducia nei confronti del futuro, aveva aperto la mente delle persone ad un rapporto armonico col mondo e l’intero Universo. Fatto sta che le plurime versioni commercializzate in parallelo del suo bambolotto ebbero un successo straordinario, costituendo una fondamentale fad per un rutilante periodo di circa sei mesi, in cui era praticamente impossibile entrare all’interno di una dimora nordamericana senza scorgere almeno un’effige rassicurante della curiosa figura dall’espressione un po’ saccente. Quindi entro pochi anni, il Billiken fece molto inaspettatamente ed in maniera potremmo dire alquanto contro-intuitiva, il proprio ingresso nel paese che in un certo senso ne aveva ispirato la creazione…
Dovete considerare a tal proposito come all’inizio del secolo scorso le leggi sul copyright fossero sostanzialmente diverse da adesso, e la stessa disegnatrice Birchall avesse commesso più di qualche errore nella gestione della sua idea vincente. Avendo brevettato il design (ma non il nome) del Billiken, ella fu la sfortunata detentrice di un contratto che la vedeva retribuita per soli 30 dollari al mese, piuttosto che in percentuale sulle vendite, tanto che si narra che negli anni successivi sarebbe giunta ad odiare la sua stessa creazione. “Il Dio che ha reso tutti felici, tranne colei che l’ha fatto conoscere al mondo” titolarono alcuni giornali. La sua presa sulla diffusione ed utilizzo del personaggio erano ad ogni modo molto tenui, ragion per cui entro il 1911 la compagnia tessile giapponese della grande città di Osaka poté decidere di usare senza ripercussioni nel proprio logo una raffigurazione della curiosa bambola statunitense. Il che potrebbe anche stupire da una prospettiva contemporanea: non figuravano forse nel Billiken alcuni elementi parodistici ed in un certo senso derisori, dell’etnia dagli occhi a mandorla e la loro stessa religione di maggiore importanza? L’autoironia e capacità di cogliere l’apprezzamento dietro lo stereotipo sono del resto qualità tipiche della cultura nipponica, e questa particolare vicenda commerciale ne fu la prova. L’anno successivo, nel 1912, sempre ad Osaka venne dunque inaugurato un Luna Park sul modello di quello di Coney Island a New York, dove tra le molte attrazioni era presente una “sala di Billiken” ornata con un’imponente statua del personaggio. Una torre ispirata a quella di Eiffel e chiamata Tsūtenkaku (let. T. che tocca il cielo) capace di anticipare quella edificata mezzo secolo dopo a Tokyo, sorgeva lì vicino, custodendo al suo interno un’ulteriore effige. Molti quartieri del divertimento in giro per l’Arcipelago trassero ispirazione dall’idea, ponendo come punto focale dei propri distretti delle statue analoghe, di molte fogge e dimensioni diverse. Alcune, addirittura, furono poste fuori dai templi di varie denominazioni, tra cui quello di Matsuo Inari a Kobe giungendo ad incorporare elementi tradizionali ed attributi tipici delle Sette Divinità della Fortuna, diventando in tal senso dei guardiani onorati del Dharma.
Nel frattempo, ad accrescere ulteriormente la fortuna del Billiken, ci pensò un’associazione particolarmente imprevedibile: durante gli anni del premierato di Masatake Terauchi, primo ministro dal 1916 al 1918, i giornali giapponesi s’interrogarono ripetutamente sul fatto che il suo governo potesse essere incostituzionale (hiriken – ヒリッケン) e poiché tale parola in alfabeto sillabico katakana era molto simile alla parola Billiken (ビリケン) nonché per la testa un po’ calva ed appuntita del politico in questione, le due figure iniziarono ad essere scherzosamente associate. Il che, a quanto si narra, non dava fastidio a Terauchi che anzi possedeva ben tre bambole dell’elfo statunitense. Una situazione a dire il vero simile a quella nel frattempo vissuta in patria dal coach di baseball dai pochi capelli John R. Bender della St. Louis University, il cui soprannome estetico di Billiken aveva motivato la scelta della mascotte della squadra negli anni 1910, dando inizio all’associazione che continua a rappresentarla tutt’ora.
Ad Osaka anni dopo, successivamente alla chiusura del Luna Park intercorsa nel 1922 e i duri anni del conflitto mondiale, il quartiere Shinsekai che lo aveva ospitato continuava ad imporsi come centro culturale e turistico di notevole importanza. Tanto da incoraggiare la costruzione di una seconda torre Tsūtenkaku all’inizio degli anni ’80 per sostituire quella andata in rovina nel dopoguerra, includendo al suo interno una seconda statua di Billiken e successivamente all’inizio del nuovo millennio, una terza. Questo perché quella precedente, strofinata ininterrottamente per decadi sui piedi e la pancia dai visitatori che volevano chiedere la sua fortuna, aveva ormai un aspetto scolorito e consumato in più punti.
Giacché credere in qualcosa non richiede sempre o necessariamente l’aderenza a un complicato dogma, laddove tanto spesso può bastare l’idea transitoria che un qualcosa possa offrire margini collaterali di miglioramento, della propria vita o condizione latente. Le “cose come dovrebbero essere” è di per se stesso un tipo di concetto aleatorio, che può andare incontro a plurime e talvolta divergenti interpretazioni. Non è realmente facile provare a comprendere, in ultima analisi, quali siano i pensieri che attraversano la testa parabolica di un misterioso elfo di bronzo. Ma rivolgergli un saluto quando ci si trova al suo cospetto, non potrà di certo nuocere. Nevvero?