Dietro una cortina di aculei, l’albero che simboleggia la struttura del mondo

Schiacciando cespugli ed altri agglomerati arbustivi sotto l’imponente massa delle sue zampe, l’immenso mammifero procedeva dondolandosi nella foresta. Di tanto in tanto accovacciato, il lungo naso mobile proiettato perpendicolarmente al suolo, tentava di fiutare fonti funzionali ad acquisire il necessario nutrimento. Simile ad un orso, grande quanto un elefante, non poteva certo sospettare in quell’epoca remota che un giorno gli esseri umani l’avrebbero chiamato Megatherium, bradipo di terra del Pleistocene. Giunto dunque presso una radura, scorse ciò che aveva lungamente cercato: fiori rosa ed attraenti, pomi verdi oblunghi dall’aspetto invitante. La piccola regione per l’elaborazione d’informazioni del suo minuto cervello, lenta ma inesorabile, lo portò quindi ad avvicinarsi all’arbusto dalle fondamenta ovoidali dell’altezza approssimativa di una ventina di metri, con l’intenzione di fare ciò che gli riusciva meglio: non tanto arrampicarsi, bensì spingere con tutta la sua forza e demolire, in modo pressoché letterale, la colonna vegetale antistante. Allorché nell’implementazione di quel piano, avvertì un improvviso e lancinante dolore ai polpastrelli delle zampe anteriori, dai lunghi artigli ricurvi fatti per difendersi dai predatori. Infastidito e rabbioso, lanciò un verso simile a un muggito ruggente. Qualcosa lo aveva punto, e stava continuando a farlo! Se un individuo umano coadiuvato dall’impiego del pensiero speculativo fosse stato lì ai margini, ed intenzionato a prevenire il peggioramento ulteriore di cotal frangente, costui non avrebbe certo ulteriormente temporeggiato, prima di gridare: “Fermo! Non lo vedi che ha il tronco ricoperto di spine?”
L’animale non-così-fantastico del nostro ipotetico scenario aveva appena scoperto, suo malgrado, il (falso) kapok. O albero “del filo di seta bianco” o ancora come lo chiamano in buona parte del Sudamerica dove cresce in modo endemico, il palo borracho (bastone ubriaco) in riferimento al serbatoio naturale per i liquidi incorporato nella parte bassa del tronco, capace di farlo sembrare un’oblunga fiaschetta prodotta dalla natura stessa. Benché a nessuno potrebbe venire mente che abbia voglia farsi nuovi amici, osservando l’impressionante struttura protettiva di cui l’evoluzione si è premurata di dotarlo. Prima ed ultima linea di difesa nei confronti degli antichi erbivori di quei distretti, che oggi continua a rendere i suoi frutti e fiori totalmente inaccessibili a creature che non siano dotate d’ali, al fine di potervi giungere dall’alto. Nonché gli umani, va da se, che avendolo nel frattempo incorporato nel genere Ceiba con la definizione di C. speciosa, hanno scoperto di poter far uso dei suddetti frutti ripieni di una coltre lanuginosa. In effetti non così diversa, sebbene lievemente meno pregevole, da quella associata tradizionalmente al C. pentadra, ovvero l’albero comune del kapok. Usato da secoli se non millenni dai popoli precolombiani, come isolante, imbottitura, materiale per accendere il fuoco. Così come la forma riconoscibile di tali arbusti fu associata, lungamente, ad un’antica leggenda…

Volendo offrire una breve analisi antropologica del rapporto tra uomo ed albero del filo bianco, diventa importante citare un racconto facente parte del canone mitologico boliviano, che fornisce la vicenda della creazione di questa particolare varietà botanica, sulla base delle gesta di antichi spiriti superni. Si narra dunque che Araverá, la figlia del Dio Ururuti, avendo convolato a nozze con il Re dei colibrì, avesse finito per trovarsi al centro di una problematica profezia. In base alla sapienza degli spiriti notturni Aña infatti, che erano soliti torturare e perseguitare gli umani, dall’unione di tale coppia sarebbe venuto al mondo un orgoglioso e potente guerriero, capace di cacciarli per sempre dal reame della materia. Così seguìta da una grande quantità di entità maligne, ella era fuggita dal villaggio a bordo di una sedia magica fornitole dal consorte, finendo per rifugiarsi all’interno di uno degli alberi che da queste parti viene definito toborochi. Qui venendo finalmente al mondo, suo figlio avrebbe completato la profezia uccidendo e bandendo gli spiriti maligni dal mondo. Ma per la madre nascosta nell’albero, sarebbe stato troppo tardi: ormai defunta, lì eternamente sepolta, avrebbe consentito al falso kapok di produrre i suoi strabilianti fiori rosa, così da attrarre le generazioni future di magnifici colibrì, capaci di evocare l’immagine idealizzata del suo consorte di un tempo.
E sono davvero, innegabilmente, attraenti le infiorescenze di questo albero, con il pistillo e stami prominenti al centro di una serie di petali stellari, di un chiaro color crema sfumante al rosa, tali da donargli un aspetto vagamente riconducibile a quello di un’orchidea. Tanto che non c’è da restare particolarmente stupiti, nel conoscere il ruolo sacro attribuito al vegetale nel repertorio della cultura dei Maya, che nei propri templi e luoghi di culto erano soliti rappresentare le piante di Ceiba in modo più o meno schematico, facendo riferimento alla loro funzione niente meno che fondamentale: formare un asse ininterrotto tra i tre regni, del sottosuolo (l’aldilà), il mondo dei viventi, il cielo appartenente alla sfera divina. Credenza destinata a diffondersi in lungo e in largo per il Sudamerica, almeno finché l’introduzione di nuove dottrine e imposizioni europee portasse alla sovrascrittura delle antiche filosofie.

Colonialismo a parte, il falso kapok è oggi un albero che potrebbe trovare un più ampio sfruttamento grazie all’uso dei suoi frutti incommestibili, che oltre all’eponima frutta bianca sono latori di semi potenzialmente utili alla produzione di olio per alimentare mezzi di trasporto o il riscaldamento. Riportato all’inizio del XIX secolo in Europa, questo albero prosperò in modo particolare nel clima temperato dell’Italia meridionale, con una famosa colonia nell’orto botanico di Palermo, da cui si diffuse a macchia d’olio in buona parte del territorio siciliano. Dove oggi campeggia primariamente nei grandi giardini in qualità di pianta ornamentale, oltre ad offrire una barriera ragionevolmente invalicabile a chiunque fosse avvezzo ad arrampicarsi, o alla pratica purtroppo mai passata di moda del vandalismo. Sebbene possa esserci un’implicita differenza nella chiarezza e ideologia d’intenti, tra l’ignoranza umana e il gesto guidato dalla fame del preistorico megaterio gigante. Non che per l’albero, egualmente aguzzo da ogni angolazione osservabile, tale considerazione possa fare un qualsivoglia tipo di differenza.

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